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Letture e meditazioni


I consacrati nell´oggi della Chiesa: gioiosi, profeti, fraterni

Chisinau (Moldavia), 25 ottobre 2014

 

Papa Francesco ci ha abituato nelle sue omelie a sviluppare tre punti, o a fissare tre parole che possono aiutare a ricordare un messaggio, un punto importante della vita cristiana. Propongo anch’io alcune riflessioni sulla vita dei consacrati oggi, attorno a tre parole: gioia – profezia – fraternità.

 

1. “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15, 11)

 

“Queste cose” di cui Gesù parla sono tutto ciò che aveva insegnato, l’intero Vangelo, e più in particolare le ultime cose che aveva comunicato ai dodici, il precetto dell’amore vicendevole. Sembra proprio – almeno da queste parole – che ciò che sta più a cuore a Gesù per ciascuno di noi è che siamo pieni di gioia, che siamo felici! Non ci ha lasciato questi suoi insegnamenti per essere un po’ più buoni, per risolvere i problemi della convivenza sociale, per mostrarci una strada per meritare un giorno il paradiso… È tutto vero anche questo, ma sarebbe troppo poco. Il suo desiderio era, ed è, che siamo felici, che attuando il suo insegnamento possiamo essere uomini e donne contenti, realizzati, appunto “pieni di gioia”.

 

Tutto il Vangelo è una bella notizia (eu-anghèllion) che suscita gioia in chi la ascolta. Più che i contenuti dottrinali – che pure sono tanti – mi pare sia questo che può affascinare e conquistare anche oggi chi ascolta l’annuncio del Vangelo. Dovremo allora chiederci: noi cristiani stiamo mostrando a chi ci incontra, a chi parla con noi, a chi partecipa alle nostre celebrazioni, a chi ascolta le nostre catechesi, a chi entra nelle nostre comunità di consacrati… che siamo uomini e donne felici, che hanno il cuore pieno di gioia e lo mostrano nel viso e nel modo di vivere?

 

Papa Francesco scrive: “La gioia del Vangelo che riempie la vita della comunità dei discepoli è una gioia missionaria” (EG 21): cioè è essa stessa annuncio del Vangelo. E un annuncio credibile, perché così si può mostrare che davvero vale la pena seguire Gesù, che vivere da suoi seguaci ci riempie il cuore, dà risposta a tutte le nostre attese, ci fa uomini e donne realizzati. Osserviamo ciò che avviene in un gruppo di persone: la gioia è contagiosa. Se uno per qualche motivo è contento, riesce a trasmettere anche ad altri, con le parole o con i gesti, con il canto o con la danza ... la sua gioia, e tutto l’ambiente viene in questo modo contagiato. La gioia si diffonde e cresce, conquista gli altri, attira. Naturalmente osserviamo che è vero anche il contrario: una persona triste trasmette un senso di pesantezza anche a chi gli sta vicino e a tutto l’ambiente, e nessuno sta volentieri con una persona triste.

 

Possiamo osservare anche un giovane innamorato. L’esperienza dell’amore, di sentire che c’è una persona che lo ama e che nel suo cuore è nato l’amore per quella persona, lo rende felice, e si vede. Per lui tutti i sogni sono possibili, nessuna difficoltà lo spaventa, tutto il resto della vita e del mondo diventa secondario… Quando il cuore è pieno di amore, quel giovane è felice e vorrebbe gridare a tutto il mondo la sua felicità.

 

Il card. João B. de Aviz, Prefetto della CIVCSVA, con il quale lavoro a Roma, spesso racconta che quando legge le lettere che ogni giorno arrivano alla nostra Congregazione inviate da coloro che chiedono di lasciare la vita consacrata, rimane colpito da questo: spesso il motivo dell’abbandono è: non mi sento più felice! A volte sono anche religiose o religiosi già avanti negli anni. E spiegano: sono sicuro che la mia vocazione era autentica, anche oggi sento che Dio mi chiama e voglio continuare a seguire Dio, però nella realtà la vita che faccio, il lavoro che svolgo, i rapporti in comunità non mi danno più quella felicità a cui io non voglio rinunciare. Alcuni e alcune pensano che questa felicità la possono trovare in un altro ambiente di vita, magari con una donna o con un uomo, o facendo altre esperienze, e così abbandonano la vita consacrata. Ma non perché non amano più Dio e la loro vocazione, ma perché rivendicano il diritto di essere felici.

 

Papa Francesco ha detto: «Dove ci sono i religiosi c’è gioia». E tempo fa ho letto questa frase: «Una sequela triste è una triste sequela». Ecco un’altra domanda che ci possiamo fare: stiamo sperimentando e siamo capaci di mostrare che Dio è capace di renderci felici, che non abbiamo bisogno di cercare altrove altre strade o altri mezzi per la nostra felicità e la nostra realizzazione? Entrando nelle nostre comunità, la gente percepisce un ambiente gioioso? È molto semplice: se chi viene nelle nostre case religiose trova un clima pesante, trova uomini e donne tristi, pessimisti, sempre pronti a criticare e a lamentarsi, spontaneamente pensa: queste persone non hanno trovato qui la loro felicità, perché mai dovrei anch’io unirmi a loro e fare la stessa fine?

 

Possiamo ben applicare alla vita consacrata una frase di “Evangelii gaudium”  (che cita un’omelia di Benedetto XVI ad Aparecida, Brasile, nel 2007 sulla nuova evangelizzazione): «La Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione» (EG 14). La possiamo applicare a noi: la vita consacrata non cresce se organizziamo delle belle campagne vocazionali, ma se le giovani e i giovani che ci incontrano si sentono attratti da noi, se ci vedono uomini e donne felici!

 

Ho riletto in questi giorni alcuni passi dell’esortazione apostolica “Gaudete in Domino” del beato Paolo VI (è del 1975). Scrive: «L’uomo prova la gioia quando si trova in armonia con la natura e soprattutto nell’incontro e nella partecipazione, nella comunione con gli altri. A maggior ragione egli conosce la gioia o la felicità spirituali quando la sua anima entra nel possesso di Dio, conosciuto e amato come il bene supremo e immutabile».

 

Ma da grande conoscitore della condizione umana, il beato Paolo VI riflette sul fatto che questa gioia spirituale, che trova radice nella comunione dell’anima con Dio, non esclude, ma anzi comprende, tutta la gamma delle espressioni umane, quotidiane, della gioia. Lo scrive rivolgendosi a tutti i cristiani, ma noi possiamo ascoltare le sue parole riferendole alla nostra vita di uomini e donne consacrati. Occorre – scrive Paolo VI – «imparare di nuovo a gustare semplicemente le molteplici gioie umane che il Creatore mette già sul nostro cammino: gioia esaltante dell’esistenza e della vita; gioia dell’amore casto e santificato; gioia pacificante della natura e del silenzio; gioia talvolta austera del lavoro accurato; gioia e soddisfazione del dovere compiuto; gioia trasparente della purezza, del servizio, della partecipazione; gioia esigente del sacrificio. La gioia cristiana suppone un uomo capace di gioie naturali». Anche queste semplici gioie umane rendono bella la nostra vita e possono essere di sostegno nei momenti in cui la sequela di Gesù comporta un aspetto di croce, di notte oscura, di prove che certamente verranno nella nostra vita spirituale e che possono mettere in dubbio la nostra scelta di vita.

 

2. “Svegliate il mondo!”

 

Nella teologia della vita consacrata si è sempre scritto che ciò che contraddistingue questa forma di vita rispetto alle altre vocazioni nella Chiesa è la professione dei tre consigli evangelici, oppure la radicalità della sequela di Gesù. Oggi si ritiene che questo non sia sufficiente ad esprimere tutta la ricchezza e la preziosità che la vita consacrata rappresenta per la Chiesa e per il mondo contemporaneo. Secondo papa Francesco (che, non dimentichiamolo, è anche un religioso gesuita) la nota che caratterizza la vita consacrata è la profezia. Quando gli hanno chiesto (nell’incontro del 29 novembre 2013 con i Superiori Generali) qual è la caratteristica distintiva della vita consacrata oggi, il papa ha risposto con sicurezza: «La radicalità evangelica non è solamente dei religiosi: è richiesta a tutti. Ma i religiosi seguono il Signore in maniera speciale, in modo profetico»[1]. E ancora, alla domanda: qual è la priorità della vita consacrata?, papa Francesco ha risposto:  «La profezia del Regno… l’accento deve cadere nell’essere profeti, e non nel giocare ad esserlo… i religiosi e le religiose sono uomini e donne che illuminano il futuro» [2].

 

Il pensiero di papa Francesco, espresso in quell’incontro e altrove, è molto chiaro: i religiosi sono profeti. Nella Chiesa i religiosi sono chiamati ad «essere profeti che testimoniano come Gesù ha vissuto su questa terra… Mai un religioso deve rinunciare alla profezia». E poi spiega: «Essere profeti a volte può significare fare ruido … La profezia fa rumore, chiasso, qualcuno dice “casino”. Ma in realtà il suo carisma è quello di essere lievito: la profezia annuncia lo spirito del Vangelo».

 

Con una frase molto efficace, papa Francesco ha chiesto a noi consacrati: «Svegliate il mondo!». In altro modo in “Vita consecrata” si diceva che «primo compito della vita consacrata è di rendere visibili le meraviglie che Dio opera nella fragile umanità delle persone chiamate.

Più che con le parole, esse testimoniano tali meraviglie con il linguaggio eloquente di un'esistenza trasfigurata, capace di sorprendere il mondo» (VC 20).

 

Come ha detto il card. João in una recente intervista (a “Jesus”, ottobre 2014): «Papa Francesco ci ha chiesto di “mettere in atto soprattutto la profezia”. La profezia si riferisce ai valori che i consacrati possono offrire al mondo, è uno stile di vita che proviene dal Vangelo. Ma per fare ciò dobbiamo ritornare all’essenziale,  al carisma del fondatore o della fondatrice e metterci in dialogo con la cultura attuale. Dio nella Bibbia ha parlato in modo diverso nelle diverse epoche: non ha parlato nella stessa forma ad Abramo, a Mosé e più tardi nella persona di Gesù, perché si è “adattato” all’uomo. È quello che dobbiamo fare anche noi. Perciò la profezia esige un ascolto profondo del momento attuale e poi l’annuncio, che deve essere frutto di una vita coerente». 

    

Cosa comporta in concreto per noi consacrate e consacrati essere profeti nel mondo di oggi? Ci aiuta ricordare cosa rappresenta e come si esprime la profezia nella Bibbia. Intanto, profeta non si diventa per propria scelta, come chi decide di dedicarsi a una certa professione. Lo si diventa per una chiamata di Dio. Nel libro di Amos leggiamo: «Il Signore Dio ha parlato, chi può non profetare?» (Am 3, 8). Anzi i falsi profeti si riconoscono proprio dal fatto che lo fanno di propria iniziativa, magari per un proprio tornaconto. Geremia, ripensando alla propria storia, definisce questa chiamata a diventare profeta una vera e propria “seduzione”, come fa l’amante con la persona amata: «Mi hai sedotto Signore, e io mi sono lasciato sedurre»(Ger 20, 9).

 

Questa parola pronunciata dal Signore brucia il cuore di chi la riceve e da quel momento non può più scappare, non può più sottrarsi al compito di profeta. Può tentare di farlo (ricordiamo le storie di Elia, di Giona), perché gli risulta troppo esigente, perché è stanco, magari perché è deluso dai risultati, ma il Signore non lo lascia più andar via e dopo i tentativi di fuga il profeta ritorna e riprende il suo compito. Arrivano anche momenti di dubbio, di tentazione, i fallimenti: essere profeta tante volte è faticoso, espone a insuccessi, mette a rischio anche la vita; e tanti profeti sono stati uccisi.  Ma il profeta sa di non essere mai solo: Dio ascolta volentieri il suo lamento, ma non gli fa mancare il suo aiuto e la sua parola di consolazione. «Non aver timore, perché io sarò con te per proteggerti», assicura Dio a Geremia (Ger 1, 8).

 

Il profeta non parla a nome proprio, non ha un messaggio privato o verità sue da imporre agli altri, semplicemente trasmette quanto ha ascoltato da Dio, nella preghiera e nella riflessione. Il profeta riceve da Dio la capacità di scrutare la storia dove vive e di interpretare gli avvenimenti: è come una sentinella che veglia durante la notte, e sa quando arriva l’aurora (cf. Is 21, 11-12). Conosce Dio e conosce gli uomini e le donne con cui vive. È capace di discernimento e anche di denunciare il male del peccato e le ingiustizie, perché è libero, non deve rispondere ad altri padroni se non Dio, non ha altri interessi che quelli di Dio. Il profeta sta abitualmente dalla parte dei poveri e degli indifesi, perché sa che Dio stesso è dalla loro parte.

 

Non vi pare che in queste caratteristiche del profeta c’è il ritratto del consacrato e della consacrata nella Chiesa e nel mondo di oggi?     

          

Traducendo le parole di papa Francesco, “fare rumore” con la profezia può significare andare controcorrente rispetto alla mentalità mondana (che qualche volta è entrata anche nelle strutture della Chiesa, anche nei nostri conventi e monasteri…), aprire e percorrere strade nuove che i nostri padri non hanno percorsi. Essere profeti  richiede creatività e audacia – sono altre due parole molto care a papa Francesco – per rivedere le strutture che potevano funzionare nel passato ma che oggi non corrispondono più alle domande di Dio e dell’umanità, rinnovare lo stile e i modelli in cui nel passato si è incarnato il carisma dei nostri Istituti. Una legge universale degli organismi viventi è la capacità di adattamento: chi non cambia muore. Sembra una contraddizione: per restare se stessi occorre saper cambiare!

 

3. “Esperti di comunione” (RPU 24)

 

Se la fonte prima della nostra gioia come uomini e donne consacrate è senza dubbio il rapporto personale con Cristo, che ci ha chiamati e dal quale sappiamo di essere amati, allo stesso tempo non può mancare l’esperienza della gioia che proviene da rapporti umani affettuosi, autentici e caldi.

 

Ecco ancora un brano dall’intervista del card. De Aviz alla rivista “Jesus”: «Essere felici è un’esigenza importante, ma non si può esserlo da soli, bisogna sperimentarlo insieme. Ovunque vivono, le persone provano il bisogno di “fare casa”, di sentirsi a casa. Bisogna ricostruire la casa, cioè vivere rapporti semplici, familiari, che fanno sperimentare la gioia di vivere insieme».

 

Se una persona non si sente a suo agio con i fratelli e le sorelle con cui vive insieme in comunità, può anche impegnarsi con un atto di virtù ad offrire tutto a Dio e a sopportare la croce, ma non può soffocare per sempre la sua umanità: prima o poi cercherà al di fuori fonti alternative di appagamento e di realizzazione. Perché nessuno può vivere e crescere bene se non è felice! Un mio confratello brasiliano una volta mi ha riferito che nella sua terra c’è un proverbio: “Non è tagliando le gambe che spuntano le ali”. Le ali della dimensione spirituale, della santità, non spuntano tagliando le gambe della nostra umanità, ma piuttosto valorizzandola, purificandola, facendola crescere e fiorire a un livello più alto, che è quello dello Spirito, con l’aiuto della grazia. Mi pare che questo principio derivi dalla legge dell’incarnazione: nel Verbo tutta la condizione umana viene assunta e redenta, cioè portata a pieno compimento.

 

Leggendo tante relazioni degli Istituti religiosi che arrivano al nostro Dicastero, e anche le lettere di quelli che chiedono di abbandonare la vita consacrata, è evidente che un aspetto molto problematico oggi è la vita fraterna. Molti sono i segni che ci dicono che è più difficile oggi vivere in comunità che nel passato. Fra le cause, dobbiamo anche tener conto della forte mentalità dell’individualismo (si parla ad es. del “ritorno al privato”) che segna la cultura attuale. Anche noi consacrati siamo figli di questa cultura, e questo condiziona sicuramente il nostro modo di vivere.

 

Ma noi sappiamo che non possiamo essere fedeli seguaci di Gesù vivendo da soli la nostra relazione personale con Dio, la pratica dei voti, gli impegni di ministero che l’esercizio del nostro carisma comporta. Penso di poter affermare che in tutti i secoli passati la formazione alla vita spirituale ha avuto più un carattere individuale che comunitario: il fine che veniva indicato a chi sceglieva quello che veniva chiamato “lo stato di perfezione” era la propria santificazione, magari ad imitazione del fondatore o della fondatrice.

 

Qui mi pare che ci sia un elemento di novità per noi consacrati, che si manifesta necessario proprio nella cultura attuale. Ecco come lo spiega il card. João B. de Aviz, Prefetto della CIVCSVA: «il passaggio dalla sequela Christi  individuale, che resta pur sempre necessaria, alla sequela Christi  comunitaria. Chiara Lubich, parafrasando l’immagine di Santa Teresa d’Avila, ha scritto che oggi dobbiamo impegnarci a costruire oltre al “castello interiore”, cioè il rapporto personale con Dio, anche il “castello esteriore”: andare a Dio insieme ai fratelli e le sorelle. Certo questo vale non solo per i consacrati, ma per tutti i battezzati nella Chiesa, per tutti i cristiani. Ma per noi consacrati questo dovrebbe valere in maniera speciale. La Chiesa infatti ci affida proprio come compito specifico l’essere addirittura di esempio agli altri cristiani di come si possa vivere la scelta radicale di Dio e del Vangelo non da soli ma in comunione: comunione con Dio e comunione fra noi» [3].

 

Nel documento “Religiosi e promozione umana” della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, i religiosi sono stati definiti “esperti di comunione”. Leggiamo al n. 24: «Esperti di comunione, i religiosi sono chiamati ad essere, nella comunità ecclesiale e nel mondo, testimoni e artefici di quel progetto di comunione che sta al vertice della storia dell'uomo secondo Dio. (…) per la quotidiana esperienza di una comunione di vita, di preghiera e di apostolato, quale componente essenziale e distintiva della loro forma di vita consacrata, si fanno “segno di comunione fraterna”. Testimoniano infatti, in un mondo spesso così profondamente diviso e di fronte a tutti i loro fratelli nella fede, la capacità di comunione dei beni, dell'affetto fraterno, del progetto di vita e di attività, che loro proviene dall'aver accolto l'invito a seguire più liberamente e più da vicino Cristo Signore, inviato dal Padre affinché, primogenito tra molti fratelli, istituisse, nel dono del suo Spirito, una nuova comunione fraterna» [4].

 

Come attuare questo? La proposta più significativa mi pare sia quella venuta nel 2001 dal papa Giovanni Paolo il quale, introducendo la Chiesa nel nuovo millennio, ha indicato la promozione di una spiritualità di comunione come nuovo paradigma per la vita della Chiesa e come principio educativo in tutti i posti dove si plasmano l’uomo e il cristiano, dove si educano i ministri dell’altare, i consacrati, gli agenti di pastorale, dove si costruiscono le famiglie e le comunità [5].

 

Non possiamo capire, né attuare i rapporti tra consacrati e con tutte le altre vocazioni nella Chiesa come comunione, missione e servizio, senza essere coscienti e decisi nell’assumere questo principio vitale della spiritualità di comunione. È la nota teologica ed ecclesiologica indispensabile del momento attuale, che dice cosa lo Spirito Santo chiede oggi alla Chiesa per dare nuovo impulso alla missione evangelizzatrice. «Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo».

 

La spiritualità della comunione proposta da s. Giovanni Paolo II non si riduce certamente a un fatto intimistico. Dopo averci ricordato come la sua fonte sia nella vita stessa di Dio Trinità, ne vengono elencate alcune conseguenze molto concrete, che hanno a che fare direttamente con la vita delle nostre comunità di consacrati: «Spiritualità della comunione significa innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi, e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto. Spiritualità della comunione significa inoltre capacità di sentire il fratello di fede nell'unità profonda del Corpo mistico, dunque, come “uno che mi appartiene”, per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia. Spiritualità della comunione è pure capacità di vedere innanzitutto ciò che di positivo c'è nell'altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio: un “dono per me”, oltre che per il fratello che lo ha direttamente ricevuto. Spiritualità della comunione è infine saper “fare spazio” al fratello, portando “i pesi gli uni degli altri” (Gal 6,2) e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie. Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz'anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita» [6].

 

Se tutta la Chiesa deve vivere questa indicazione di s. Giovanni Paolo II, i consacrati ne sono come gli “specialisti”, perché questa è l’essenza della loro scelta di vita: l’unione con Dio e l’unione fra loro nella vita fraterna. Per questo in “Vita consecrata” la Chiesa affida alle comunità dei consacrati il compito specifico di «far crescere la spiritualità della comunione prima di tutto al proprio interno e poi nella stessa comunità ecclesiale e oltre i suoi confini» [7]. Possiamo ben comprendere che anche il vivere insieme in comunità, come è proprio dei consacrati, anche quando la convivenza fosse ben strutturata e con i più bei programmi, se non è informata in profondità da quest’anima della comunione, si riduce a mero fatto sociologico. Stiamo insieme finché questo ci aiuta, magari per svolgere meglio l’apostolato, ma non troviamo nella comunione con i fratelli e le sorelle il motivo della nostra gioia e la forza per andare avanti.

 

Di fatto questo amore reciproco che Gesù ci ha comandato: «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 13, 34-35; 15, 12-13.17), sul modello della comunione trinitaria e sulla misura di quello vissuto da Cristo (ed è la misura della croce), prima di essere frutto della nostra buona volontà, è conseguenza dello stesso amore divino che opera in noi, perché è già stato diffuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo (cf. Rom 5, 5). È stato Dio infatti ad amarci per primo e a sanare, con la redenzione, la nostra capacità di amare lui e i prossimi.

 

Ma allo stesso tempo esige che ognuno faccia la propria parte per meritarlo e renderlo possibile. Se dalla parte di Dio il dono della comunione è pieno fin dall’inizio, dalla parte nostra  esso va guadagnato e riconquistato ogni giorno, lungo un itinerario che domanda l’impegno di tutti e che può conoscere rallentamenti e fatica. La realizzazione di una vita comunitaria fraterna infatti è un compito che esige rinuncia a sé, accettazione dei limiti dei fratelli, insomma un cammino coraggioso e perseverante di ascesi. E sappiamo che non è facile: infatti molti lo abbandonano: o lasciando la comunità, o continuando a restare ma vivendo in pratica per conto proprio, facendo il minimo che le pratiche comunitarie prevedono, curando più i propri interessi che il progetto comunitario.

 

Questo discorso può risultare a qualcuno un po’ duro. Lo possiamo comprendere e accogliere solo a partire dalla logica della croce, del dono totale di sé per amore a Dio e ai fratelli: “Amatevi come io ho amato voi”. Leggo ancora un passo di “La vita fraterna in comunità”: «Bisogna ammettere che tale discorso fa problema oggi sia presso i giovani che presso gli adulti. Spesso i giovani provengono da una cultura che apprezza eccessivamente la soggettività e la ricerca della realizzazione personale, mentre a volte gli adulti o sono ancorati a strutture del passato o vivono un certo disincanto (…). È bene preparare fin dall'inizio ad essere costruttori e non solo consumatori di comunità, ad essere responsabili l'uno della crescita dell'altro come pure ad essere aperti e disponibili a ricevere l'uno il dono dell'altro, capaci d'aiutare ed essere aiutati, di sostenere ed essere sostenuti. Una vita comune fraterna e condivisa ha un naturale fascino sui giovani, ma poi il perseverare nelle reali condizioni di vita può diventare un pesante fardello» [8].

 

In questo senso io capisco la famosa frase del giovane gesuita san Giovanni Berchmans (1599-1621): “Vita communis mea maxima poenitentia”. Forse è stata interpretata tante volte in senso solo negativo, mettendo in evidenza la difficoltà che il vivere insieme in comunità rappresenta. In realtà questa frase indica molto di più. Per coloro che sono chiamati da Dio a seguire Cristo insieme ad altri fratelli o sorelle in una comunità religiosa, non è necessario ricercare altre penitenze o forme di ascesi per santificarsi. Le esigenze quotidiane dell’amore al fratello, alla sorella, con tutte le sfumature che la carità evangelica richiede, sono la palestra dove esercitare la nostra virtù, lo spazio nostro caratteristico per santificarci insieme. Ciò comporta certamente un aspetto di ascesi, di rinuncia all’uomo vecchio, ma è anche la nostra grande opportunità per incontrare e amare Dio nella concretezza del volto del fratello, della sorella che ci vive accanto. Allora l’ascesi che pure la vita fraterna richiede non è fine a ste stessa (come si diceva una volta, “per farmi santo”), ma fiorisce poi in una nuova esperienza dell’amore di Dio: è «la “mistica” di vivere insieme» a cui fa cenno anche Papa Francesco, che fa della nostra vita «un santo pellegrinaggio» [9].

 

Non vogliamo illuderci: senza perdere di vista il modello umano-divino al quale intendiamo ispirarci, che è la comunione delle tre persone della Trinità, sappiamo che dobbiamo fare i conti ogni giorno con il limite umano e con la radice di peccato e di egoismo sempre presente in noi. Siamo molto diversi gli uni dagli altri, con temperamenti, gusti, storie che ci distinguono, e questo rende impegnativa la vita fraterna.

 

Sappiamo che anche la prima comunità di Gerusalemme, che ci viene idealmente descritta nei cosiddetti “sommari” degli Atti (cf. At 2, 42-47; 4, 32-35; 5, 12-16) e alla quale la vita religiosa ha sempre guardato come al suo paradigma (cf. PC 15), non era priva di difficoltà e di aspetti problematici. Gesù stesso, ben conoscendo l’umana fragilità, prima di morire aveva chiesto al Padre come dono speciale dall’alto l’unità degli apostoli e di tutti i credenti: «Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola (…). Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una cosa sola (…) perché siano perfetti nell’unità» (Gv 17, 11. 20-21. 23).

 

È interessante notare, scorrendo le lettere degli apostoli indirizzate alle prime comunità, in quali e quante indicazioni pratiche si concretizza il comandamento nuovo di Gesù dell’amore reciproco. Nel loro insieme, queste indicazioni si configurano come un vero “vademecum” della vita fraterna in comunità:

 

- “gareggiate nello stimarvi a vicenda” (Rm 12, 10);

- “ciascuno consideri gli altri superiori a se stesso” ( Fil 2, 3);

- “abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri” (Rm 12, 16);

- “accoglietevi gli uni gli altri come Cristo accolse voi” (Rm 15, 7);

- “correggetevi l'un l'altro” (Rm 15, 14);

- “aspettatevi gli uni gli altri” (1 Cor 11, 33);

- “mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri” (Gal 5, 13);

- “confortatevi a vicenda” (1 Tes 5, 11);

- “sopportatevi a vicenda con amore” (Ef 4, 2);

- “siate benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda” (Ef 4, 32);

- “siate sottomessi gli uni agli altri” (Ef 5, 21);

- “pregate gli uni per gli altri” (Gc 5, 16);

- “rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri” (1 Pt 5, 5);

- “amatevi intensamente di vero cuore gli uni gli altri” (1 Pt 1, 22);

- “fate tutto senza mormorazioni e senza critiche” (Fil 2, 14).

 

L’amore reciproco tra fratelli e sorelle nella comunità religiosa assicura allo stesso tempo l’unità fra i membri senza mortificare le differenze e i doni di ciascuno. Come nella Trinità abbiamo la perfetta unità per l’amore divino che circola, ma allo stesso tempo i Tre non si confondono e operano in maniera distinta l’uno dall’altro, così nella comunità l’amore scambievole rafforza la fraternità e la comunione, garantendo a ciascuno la libertà secondo il disegno di Dio su di lui. Allora vivendo in comunità le singole persone non si sentono mortificate, possono trovare anche i legittimi spazi di autonomia, sono incoraggiate a sviluppare i propri talenti. E questo fa sperimentare la stima e l’apprezzamento dei fratelli o delle sorelle, e questo dà gioia e rende bello vivere e lavorare insieme.

 

“Novità”

 

Il titolo che è stato messo alla Assemblea Plenaria della CIVCSVA di fine novembre è: Vino nuovo in otri nuovi. Possiamo dire che il “vino nuovo” che riempie la vita consacrata nella Chiesa oggi sono i diversi carismi antichi e nuovi che la abbelliscono. Secondo Sua Ecc. mons. Carballo (in un discorso ai religiosi dell’Inghilterra) la “novità” riferita alla vita consacrata non sta in qualcosa di “inedito”, di “mai visto”, o che sia “all’ultima moda”. La “novità” della vita consacrata, così come la novità del Vangelo, sta nella sua capacità di essere fedele ai doni di Dio, di liberarsi da ciò che è inautentico e superfluo, di corrispondere a quanto lo Spirito Santo chiede oggi e l’umanità aspetta come risposta alle sue sofferenze.

 

Se è vero che la vita consacrata ha passato e sta ancora passando un tempo di prova e di cambiamenti, è anche vero che qualcosa di nuovo si sta muovendo, che ci dà la fiducia di guardare al futuro con speranza, sapendo che è Dio che guida la storia e dunque anche la vita consacrata. “Ecco, io faccio nuove tutte le cose!” (Ap 21, 5).

 

P. Donato Cauzzo

segretario del Card. João B. de Aviz, prefetto della CIVCSVA

 

 

 

 

 

[1] Cf. il testo riportato da A. Spadaro: Svegliate in mondo! in: “La Civiltà Cattolica” 4 gennaio 2014, p. 5.

[2] Id., p. 7,

[3] Intervento di apertura del Capitolo Generale dei Salesiani, Roma 3 marzo 2013.

[4] Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, Religiosi e promozione umana, 25 aprile 1978, n. 24.

[5] Cf. Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Novo millennio ineunte, 6 gennaio 2001, n. 43.

[6] Ivi, n. 43.

[7] Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sinodale Vita consecrata, 25 marzo 1996, n. 51.

[8] La vita fraterna in comunità, nn. 23-24.

[9] Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, n. 87.

 



 

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Ciclo di Catechesi. Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza. 8. «Tutti furono colmati di Spirito Santo». Lo Spirito Santo negli Atti degli Apostoli

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel nostro itinerario di catechesi sullo Spirito Santo e la Chiesa, oggi facciamo riferimento al Libro degli Atti degli Apostoli.

Il racconto della discesa dello Spirito Santo a Pentecoste inizia con la descrizione di alcuni segni preparatori – il vento fragoroso e le lingue di fuoco –, ma trova la sua conclusione nell’affermazione: «E tutti furono colmati di Spirito Santo» (At 2,4). San Luca – che ha scritto gli Atti degli Apostoli – mette in luce che lo Spirito Santo è Colui che assicura l’universalità e l’unità della Chiesa. L’effetto immediato dell’essere “colmati di Spirito Santo” è che gli Apostoli «cominciarono a parlare in altre lingue» e uscirono dal Cenacolo per annunciare Gesù Cristo alla folla (cfr At 2,4ss).

Così facendo, Luca ha voluto mettere in risalto la missione universale della Chiesa, come segno di una nuova unità tra tutti i popoli. In due modi vediamo che lo Spirito lavora per l’unità. Da un lato, spinge la Chiesa verso l’esterno, perché possa accogliere un numero sempre maggiore di persone e di popoli; dall’altro lato, la raccoglie al suo interno per consolidare l’unità raggiunta. Le insegna a estendersi in universalità e a raccogliersi in unità. Universale e una: questo è il mistero della Chiesa.

Il primo dei due movimenti – l’universalità – lo vediamo in atto nel capitolo 10 degli Atti, nell’episodio della conversione di Cornelio. Il giorno di Pentecoste gli Apostoli avevano annunciato Cristo a tutti i giudei e gli osservanti della legge mosaica, a qualsiasi popolo appartenessero. Ci vuole un’altra “pentecoste”, molto simile alla prima, quella in casa del centurione Cornelio, per indurre gli Apostoli ad allargare l’orizzonte e far cadere l’ultima barriera, quella tra giudei e pagani (cfr At 10-11).

A questa espansione etnica si aggiunge quella geografica. Paolo – si legge sempre negli Atti degli Apostoli (cfr 16,6-10) – voleva annunciare il Vangelo in una nuova regione dell’Asia Minore; ma, è scritto, «lo Spirito Santo glielo aveva impedito»; voleva passare in Bitinia «ma lo Spirito di Gesù non lo permise». Si scopre subito il perché di questi sorprendenti divieti dello Spirito: la notte seguente l’Apostolo riceve in sogno l’ordine di passare in Macedonia. Il Vangelo usciva così dalla nativa Asia ed entrava in Europa.

Il secondo movimento dello Spirito Santo – quello che crea l’unità – lo vediamo in atto nel capitolo 15 degli Atti, nello svolgimento del cosiddetto concilio di Gerusalemme. Il problema è come far sì che l’universalità raggiunta non comprometta l’unità della Chiesa. Lo Spirito Santo non opera sempre l’unità in maniera repentina, con interventi miracolosi e risolutivi, come a Pentecoste. Lo fa anche – e nella maggioranza dei casi – con un lavorio discreto, rispettoso dei tempi e delle divergenze umane, passando attraverso persone e istituzioni, preghiera e confronto. In maniera, diremmo oggi, sinodale. Così infatti avvenne, nel concilio di Gerusalemme, per la questione degli obblighi della Legge mosaica da imporre ai convertiti dal paganesimo. La sua soluzione fu annunciata a tutta la Chiesa con le ben note parole: «Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi...» (At 15,28).

Sant’Agostino spiega l’unità operata dallo Spirito Santo con una immagine, divenuta classica: «Ciò che è l’anima per il corpo umano, lo Spirito Santo lo è per il corpo di Cristo che è la Chiesa» [1]. L’immagine ci aiuta a capire una cosa importante. Lo Spirito Santo non opera l’unità della Chiesa dall’esterno; non si limita a comandare di essere uniti. È Lui stesso il “vincolo di unità”. È Lui che fa l’unità della Chiesa.

Come sempre, concludiamo con un pensiero che ci aiuta a passare dall’insieme della Chiesa a ciascuno di noi. L’unità della Chiesa è l’unità tra persone e non si realizza a tavolino, ma nella vita. Si realizza nella vita. Tutti vogliamo l’unità, tutti la desideriamo dal profondo del cuore; eppure essa è tanto difficile da ottenere che, anche all’interno del matrimonio e della famiglia, l’unione e la concordia sono tra le cose più difficili da raggiungere e più ancora da mantenere.

Il motivo – per cui è difficile l’unità tra noi – è che ognuno vuole, sì, che si faccia l’unità, ma intorno al proprio punto di vista, senza pensare che l’altro che gli sta davanti pensa esattamente la stessa cosa circa il “suo” punto di vista. Per questa via, l’unità non fa che allontanarsi. L’unità di vita, l’unità di Pentecoste, secondo lo Spirito, si realizza quando ci si sforza di mettere al centro Dio, non sé stessi. Anche l’unità dei cristiani si costruisce così: non aspettando che gli altri ci raggiungano là dove noi siamo, ma muovendoci insieme verso Cristo.

Chiediamo allo Spirito Santo che ci aiuti ad essere strumenti di unità e di pace.

[1] Discorsi, 267, 4

Papa Francesco