Cronaca Bianca


Quando in azienda si fa spazio alla preghiera

di Barbara Sartori

 

«Impresa Orante», ovvero «Metti al lavoro la preghiera». Se il fondatore della «Ferrero» – piemontese di Alba – non faceva mistero della sua devozione mariana, tanto da volere in ogni stabilimento una statua della Madonna di Lourdes, dal Piemonte arriva ora da un gruppo di imprenditori l’appello ai colleghi di tutta Italia ad unirsi per creare una rete di preghiera pensata ad hoc per il mondo del lavoro.

 

«Viste le fatiche che sperimentiamo a causa di un’economia confusa e alterata nella sua natura – spiega una delle promotrici, Mariachiara Martina, titolare di “Fioredentro”, che opera nel campo della moda – abbiamo deciso di giocare la partita tirando fuori una carta inaspettata: la preghiera e, in particolare, la preghiera del rosario recitata in azienda una volta alla settimana».

 

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Ha debuttato a febbraio a Torino, all’Opera dei Giuseppini del Murialdo. A quattro mesi di distanza, la squadra Impresa Orante (IO in sigla) si è allargata. Sono nate cellule a Nichelino, nel Torinese, in provincia di Cuneo, a Savona e a Milano. Ne partiranno a Padova e Verona. Attraverso il sito www.impresaorante.org arrivano richieste di informazioni da Rimini, Prato, Catania, Cosenza, Roma, perfino dagli Stati Uniti. Mariachiara Martina e don Danilo Magni, direttore dell’Opera del Murialdo e assistente spirituale di IO, stanno girando la penisola per far conoscere la proposta. Ieri sono stati a Piacenza, invitati dall’Ucid e dall’Ufficio diocesano per le comunicazioni sociali.

 

«La bellezza di Impresa Orante è la contemporaneità e la coralità del momento di preghiera – sottolinea Martina – ma anche l’unione nel pregare per un’unica grande intenzione: far rinascere l’economia secondo nuovi parametri, rendendola mezzo di gratificazione e promozione della dignità dell’uomo. L’auspicio è di coinvolgere più imprenditori di uno stesso territorio, così da poter condividere il Rosario, a turno, nelle varie realtà aziendali, con l’aiuto di meditazioni dei Misteri che sono state composte tenendo conto delle problematiche del mondo del lavoro. Una volta al mese si propone inoltre di celebrare la Messa».

 


 

Roba da ingenui, in una crisi che pare senza fondo? Le voci degli “oranti”, titolari di aziende ma pure dipendenti, sono di tutt’altro segno. «Non prego in chiesa, se non ai funerali, quindi per me questo è un momento che mi riavvicina a Dio – confida Mario –. Sto consigliando di partecipare a mia moglie, anche se a lei sembra incredibile al lavoro questo tempo dedicato alla preghiera. Eppure è proprio il luogo che fa la differenza».

 

«Ti cambia il modo di vedere il mondo degli affari – è l’esperienza di Tiziana, imprenditrice –. Così quando sai che il tuo concorrente storico è fallito, non gioisci, ma preghi per lui, per la sua famiglia, che come la tua ha dedicato a questo settore quarant’anni di vita».

 

«Non tutti in azienda partecipano alla cellula – dice un’altra “orante” – ma è successo che, in occasione di una fiera importante cui dovevamo partecipare, una collega sia venuta a chiederci di pregare per loro che ci andavano, perché potesse essere occasione utile per superare il periodo difficile. La fiera è andata bene, come non succedeva da tempo».

 

FONTE – AVVENIRE



 

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Messaggio Cristiano
Udienza Generale - Piazza San Pietro Mercoledì, 10 Settembre 2025

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. III. La Pasqua di Gesù. 6. La morte. «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37)

Cari fratelli e sorelle,
buongiorno e grazie per la vostra presenza, una bella testimonianza!

Oggi contempliamo il vertice della vita di Gesù in questo mondo: la sua morte in croce. I Vangeli attestano un particolare molto prezioso, che merita di essere contemplato con l’intelligenza della fede. Sulla croce, Gesù non muore in silenzio. Non si spegne lentamente, come una luce che si consuma, ma lascia la vita con un grido: «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37). Quel grido racchiude tutto: dolore, abbandono, fede, offerta. Non è solo la voce di un corpo che cede, ma il segno ultimo di una vita che si consegna.

Il grido di Gesù è preceduto da una domanda, una delle più laceranti che possano essere pronunciate: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È il primo verso del Salmo 22, ma sulle labbra di Gesù assume un peso unico. Il Figlio, che ha sempre vissuto in intima comunione con il Padre, sperimenta ora il silenzio, l’assenza, l’abisso. Non si tratta di una crisi di fede, ma dell’ultima tappa di un amore che si dona fino in fondo. Il grido di Gesù non è disperazione, ma sincerità, verità portata al limite, fiducia che resiste anche quando tutto tace.

In quel momento, il cielo si oscura e il velo del tempio si squarcia (cfr Mc 15,33.38). È come se il creato stesso partecipasse a quel dolore, e insieme rivelasse qualcosa di nuovo: Dio non abita più dietro un velo, il suo volto è ora pienamente visibile nel Crocifisso. È lì, in quell’uomo straziato, che si manifesta l’amore più grande. È lì che possiamo riconoscere un Dio che non resta distante, ma attraversa fino in fondo il nostro dolore.

Il centurione, un pagano, lo capisce. Non perché ha ascoltato un discorso, ma perché ha visto morire Gesù in quel modo: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). È la prima professione di fede dopo la morte di Gesù. È il frutto di un grido che non si è disperso nel vento, ma ha toccato un cuore. A volte, ciò che non riusciamo a dire a parole lo esprimiamo con la voce. Quando il cuore è pieno, grida. E questo non è sempre un segno di debolezza, può essere un atto profondo di umanità.

Noi siamo abituati a pensare al grido come a qualcosa di scomposto, da reprimere. Il Vangelo conferisce al nostro grido un valore immenso, ricordandoci che può essere invocazione, protesta, desiderio, consegna. Addirittura, può essere la forma estrema della preghiera, quando non ci restano più parole. In quel grido, Gesù ha messo tutto ciò che gli restava: tutto il suo amore, tutta la sua speranza.

Sì, perché anche questo c’è, nel gridare: una speranza che non si rassegna. Si grida quando si crede che qualcuno possa ancora ascoltare. Si grida non per disperazione, ma per desiderio. Gesù non ha gridato contro il Padre, ma verso di Lui. Anche nel silenzio, era convinto che il Padre era lì. E così ci ha mostrato che la nostra speranza può gridare, persino quando tutto sembra perduto.

Gridare diventa allora un gesto spirituale. Non è solo il primo atto della nostra nascita – quando veniamo al mondo piangendo –: è anche un modo per restare vivi. Si grida quando si soffre, ma pure quando si ama, si chiama, si invoca. Gridare è dire che ci siamo, che non vogliamo spegnerci nel silenzio, che abbiamo ancora qualcosa da offrire.

Nel viaggio della vita, ci sono momenti in cui trattenere tutto dentro può consumarci lentamente. Gesù ci insegna a non avere paura del grido, purché sia sincero, umile, orientato al Padre. Un grido non è mai inutile, se nasce dall’amore. E non è mai ignorato, se è consegnato a Dio. È una via per non cedere al cinismo, per continuare a credere che un altro mondo è possibile.

Cari fratelli e sorelle, impariamo anche questo dal Signore Gesù: impariamo il grido della speranza quando giunge l’ora della prova estrema. Non per ferire, ma per affidarci. Non per urlare contro qualcuno, ma per aprire il cuore. Se il nostro grido sarà vero, potrà essere la soglia di una nuova luce, di una nuova nascita. Come per Gesù: quando tutto sembrava finito, in realtà la salvezza stava per iniziare. Se manifestata con la fiducia e la libertà dei figli di Dio, la voce sofferta della nostra umanità, unita alla voce di Cristo, può diventare sorgente di speranza per noi e per chi ci sta accanto.

LEONE XIV