Testimoni del nostro tempo


Da martire a cardinale. Don Ernest Simoni, il sacerdote albanese che fece piangere il Papa

Aveva commosso il mondo e anche il Papa il 21 settembre 2014

Papa Francesco e don Ernest Simoni a Tirana

 

Nella lista dei 40 martiri che il prossimo 5 novembre saranno beatificati a Scutari, in Albania, ci sarebbe dovuto essere anche lui: Ernest Simoni Troshani. Ma il suo nome è finito invece in un’altra lista, quella letta ieri da Papa Bergoglio per annunciare i cardinali che creerà nel Concistoro del prossimo 19 novembre, il terzo del suo pontificato.

 

Il sacerdote aveva commosso il mondo e anche il Papa il 21 settembre 2014, raccontando la sua drammatica storia di violenze e vessazioni subite durante gli anni bui della dittatura comunista di Enver Hoxha, che aveva proclamato l’ateismo di Stato perseguitando cristiani cattolici e ortodossi ma anche musulmani e sufi bektashi.

 

L’incontro tra il Papa e don Ernest era avvenuto durante i Vespri celebrati da Francesco con il clero e i religiosi riuniti nella cattedrale di Tirana dedicata a San Paolo, nell’ambito della sua visita pastorale in Albania. Come consuetudine, l’omelia del Papa era preceduta da alcune testimonianze: quella di don Ernest, appunto, e  di un’altra sopravvissuta, suor Maira Kaleta.

 

Ascoltando quei racconti, Bergoglio aveva messo da parte il discorso scritto; qualsiasi parola sarebbe sembrata superflua davanti a tale testimonianza di fede e martirio. “Oggi abbiamo toccato i martiri”, disse in quell’occasione il Pontefice. E confidò: “In questi due mesi, mi sono preparato per questa visita, leggendo la Storia della persecuzione in Albania. E per me è stata una sorpresa: io non sapevo che il vostro popolo avesse sofferto tanto… L’Albania è una terra di martiri!”.

 

Poi, nel momento in cui Simoni gli si avvicinò per baciare l’anello piscatorio, il Papa ritrasse la mano per baciare invece la sua. La mano di un testimone di Cristo, la mano di un “martire”, come disse. Un gesto seguito da un caloroso abbraccio, immortalato da una fotografia de L’Osservatore Romano divenuta storica.

 

Sempre con un bacio sulle mani Francesco ha accolto don Simoni lo scorso 20 aprile in piazza San Pietro, dove era venuto a salutarlo dopo l’Udienza generale del mercoledì per consegnargli un libro delle Paoline sulla sua vita. “Io mi ricordo di quello che lei ha detto nella cattedrale di Tirana”, gli disse il Santo Padre commosso.

 

Chi potrebbe dimenticare infatti i racconti di quell’anziano prete che, con pacatezza, ripercorreva  27 anni trascorsi dietro le sbarre. Frustato, picchiato con i manganelli, abusato psicologicamente con le continue pressioni ad abiurare, e fisicamente perché costretto ai lavori forzati.

 

La sua colpa? Essere un sacerdote, quindi  un “nemico del popolo”. Per questo fu arrestato nella notte di Natale del 1963 e sbattuto in cella d’isolamento. Presto ricevette una condanna a morte: “Mi dissero: tu sarai impiccato come nemico perché hai detto al popolo che moriremo tutti per Cristo se è necessario”, raccontava.

 

Al suo compagno di cella ordinarono di registrare “la prevedibile rabbia” contro il regime, ma dalla bocca del sacerdote uscirono sempre e solo parole di perdono e di preghiera per i suoi aguzzini. La sua pena fu perciò commutata in 25 anni di lavori forzati nelle gallerie buie delle miniere di Spac e poi nelle fogne di Scutari a spaccare pietre con una mazza di ferro pesante circa 20 kg.

 

Anche in quell’abisso non perse mai la fede, nella certezza che, come dice il Salmo che amava recitare a mente ogni mattina: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla”. Non interruppe mai il suo ministero, ma semplicemente lo visse “in un contesto speciale”.

 

Riuscì infatti a celebrare ogni giorno di nascosto la Messa recitando a memoria il rituale in latino, poi confessava gli altri carcerati divenendo padre spirituale di alcuni di loro e distribuì anche la comunione, con un’ostia cotta di nascosto su piccoli fornelli a petrolio che servivano per il lavoro. “Se non potevo utilizzare il fornello – ha spiegato Simoni – mettevo da parte un po’ di legna secca e accendevo il fuoco. Il vino lo sostituivo con il succo dei chicchi d’uva che spremevo; d’inverno utilizzavo delle boccette con il vino che mi portavano i parenti”.

 

La liberazione avvenne il 5 settembre 1990. Fuori dal carcere, don Ernest confermò il perdono ai suoi aguzzini per i quali – afferma – “invoca costantemente la misericordia del Padre”. Per anni ha servito nei villaggi, portando a tutti la sua testimonianza in modo da aiutare ad “allontanare l’odio e il diavolo dai cuori degli uomini” e “riconciliare molte persone in vendetta con la croce di Cristo”.

 

Oggi rimane ora uno degli unici due sacerdoti viventi testimoni dell’orrore che regnava nel Paese balcanico. Una voce preziosa che Bergoglio ha voluto inserire tra i membri del Collegio cardinalizio, quale segno di riconoscimento e vicinanza a tutte le Chiese oggi perseguitate o bagnate dal sangue di martiri.

 

 
Riproponiamo dall’Osservatore Romano le testimonianze di don Ernest Simoni e suor Maria Kaleta pronunciate davanti a papa Francesco domenica 21 settembre nella cattedrale di San Paolo a Tirana, Albania.
 
 
Haec dies quam fecit Dominus exultemus et laetemur in ea. Viva Cristo, viva la Chiesa. Sono don Ernest Simoni (Troshani). Sono un sacerdote di 84 anni. Nel dicembre del 1944 in Albania arrivò il partito comunista ateo, che aveva come principio l’eliminazione della fede e l’obbiettivo di eliminare il clero. Nella realizzazione di questo programma iniziarono subito gli arresti, le torture e le fucilazioni di centinaia di sacerdoti e laici, per sette anni di seguito, versando il sangue innocente di fedeli, alcuni dei quali, prima di essere fucilati, gridavano: «Viva Cristo Re».

 

Nel 1952 il governo comunista, con una mossa politica, voluta da Mosca (Stalin), cercò di riunire i sacerdoti che erano ancora vivi, per permettergli di esercitare liberamente la fede, a condizione che la Chiesa si staccasse da Papa e dal Vaticano. Questa intenzione del governo il clero non la accettò mai. Io continuai gli studi nel collegio dei francescani per dieci anni: dal 1938 al 1948. I nostri superiori furono fucilati dai comunisti, e per questo motivo fui costretto a concludere clandestinamente i miei studi di teologia. Dopo quattro anni fui preso nell’esercito, allo scopo di farmi sparire. Passai due anni in quel posto, anni che furono più terribili di una prigione. Ma il Signore mi salvò e il 7 aprile 1956 fui ordinato sacerdote. Il giorno dopo, domenica in Albis e festa della Divina misericordia, celebrai la prima messa. Per otto anni e mezzo ho svolto il mio ministero sacerdotale. Ma i comunisti decisero di togliermi di mezzo.

 

Perciò il 24 dicembre 1963, appena finii di celebrare la santa messa della vigilia di Natale nel villaggio di Barbullush, vicino Scutari, arrivarono quattro ufficiali della sicurezza e mi presentarono il decreto di arresto e di fucilazione. Mi misero le manette legando le braccia dietro la schiena e prendendomi a calci mi misero nella loro macchina. Dalla chiesa mi portarono nella stanza di isolamento dove mi lasciarono per tre mesi in una condizione disumana. Così legato mi portarono all’interrogatorio. Il capo mi disse: «Tu sarai impiccato come nemico perché hai detto al popolo che moriremo tutti per Cristo se è necessario». Mi strinsero i ferri ai polsi così fortemente che si fermarono i battiti del cuore e quasi morivo. Volevano che io parlassi contro la Chiesa e la gerarchia della Chiesa. Io non accettai. Dalle torture caddi quasi morto. Al vedermi così, mi liberarono. Il Signore volle che continuassi a vivere.

 

Tra le accuse c’era anche la celebrazione delle tre messe per l’anima del presidente americano John Kennedy ucciso un mese prima il mio arresto, Messe che io celebrai secondo le indicazioni di Paolo VI, date a tutti i sacerdoti del mondo. Io ero abbonato alla principale rivista russa «L’Union Sovietique» in lingua francese. Questo, intanto che l’Albania aveva rotto i rapporti con l’Unione sovietica. Come prova materiale dell’accusa presentarono al giudice la rivista nella quale si trovava la foto del presidente americano. La Divina provvidenza ha voluto che la mia condanna a morte non venisse eseguita. Nella stanza di isolamento portarono un altro prigioniero, un mio caro amico, allo scopo di spiarmi. Egli incominciò a parlare contro il partito, ma io comunque gli rispondevo che Cristo ci ha insegnato ad amare i nemici e a perdonarli e che noi dobbiamo impegnarci per il bene dei popolo. Queste mie parole arrivarono alle orecchie del dittatore, il quale dopo cinque giorni mi liberò dalla condanna a morte. Ma questa condanna fu sostituita da diciotto anni di prigione presso la miniera di Spaç. Dopo essere uscito dalla prigione, fui condannato nuovamente ai lavori forzati: per dieci anni —quindi fino alla caduta del regime — ho lavorato nei canali delle acque nere.

 

Durante il periodo della prigionia, ho celebrato la messa in latino a memoria, così come ho confessato e distribuito la comunione di nascosto.

 

Con la venuta della libertà religiosa il Signore mi ha aiutato a servire tanti villaggi e a riconciliare molte persone in vendetta con la croce di Cristo, allontanando l’odio e il diavolo dai cuori degli uomini.

 

Santità, certo di poter esprimere il desiderio di tutti i presenti, prego che, per intercessione della Santissima Madre di Cristo, il Signore vi dia vita, salute e forza nel guidare il grande gregge che è la Chiesa di Cristo. Amen

 

* * *

 

Sia Lodato Gesù Cristo.

 

Sono suor Maria Kaleta e ho 85 anni. All’età di dieci anni ho sentito la chiamata del Signore, senza sapere ancora cosa significasse essere religiosa. In famiglia ero l’unica figlia. Le preghiere e i consigli di mio zio sacerdote mi hanno aiutato a intraprendere questa strada. Lo zio si chiamava don Ndoc Suma, sacerdote che per molti anni ha sofferto in prigione e nei diversi campi di lavoro. Oggi sono contenta nel vedere che, nella lista dei martiri, il cui processo di canonizzazione è in corso, si trova il suo nome insieme a quello dell’unica donna, Maria Tuci, mia amica e anche lei stigmatina.

 

Per sette anni ho vissuto nel convento delle suore stigmatine, poi il governo ateista ci allontanò e così ritornai dai miei genitori e al servizio di mio zio, il quale si trovava in prigione. Dopo la morte dei miei genitori ho vissuta da sola, con il desiderio di mantenere viva la fede nel cuore dei fedeli, anche se in maniera nascosta.

 

Il Signore mi ha donato tanta fede così da poterla donare anche agli altri battezzando non solo i bambini dei villaggi, ma anche tutti coloro che si presentavano alla mia porta, e solo dopo aver avuto la certezza che non mi avrebbero denunciato.

 

Ci sono molti avvenimenti che mi hanno accompagnato durante questi anni e dove pubblicamente ho testimoniato la fede. Con semplicità di cuore ne vorrei raccontare uno. Stavo tornando a casa dal lavoro nelle cooperative. Lungo la strada sentii una voce che mi chiamava. Una donna con un bambino in braccio mi raggiunse di corsa. Mi chiese di battezzare il bambino che aveva in braccio. Dalla paura, poiché sapevo che era la moglie di un comunista, gli dissi che non avevo con che cosa battezzarlo, poiché eravamo lungo la strada. Ma dal grande desiderio che aveva, mi disse che nel canale li accanto c’era dell’acqua. Ma io gli dissi che non avevo con che cosa attingere l’acqua. Ma lei insisteva che io battezzassi la sua bambina. Allora, vedendo la sua fede, mi tolsi la scarpa, poiché era di plastica, e con quella presi l’acqua dal canale e battezzai la bambina.

 

Inoltre, grazie alla conoscenza dei sacerdoti ho avuto la fortuna di custodire in un comodino di casa il Santissimo Sacramento, che portavo alle persone malate e in punto di morte.

 

Ho svolto un servizio religioso, ma neanche io so come ho fatto. Ancora oggi, quando ci ripenso, mi sembra incredibile come abbiamo potuto sopportare tante terribili sofferenze, ma so che il Signore ci ha dato la forza, la pazienza e la speranza.

 

Così come nella parabola della zizzania il Signore aspetta. “Aspetta” la piena maturazione prima di separarla dal grano. Anche se il periodo è stato lungo e il lavoro nelle cooperative molto difficile, il Signore ha dato la forza a coloro che aveva chiamati. Infatti lui mi ha ricompensato di tutte le sofferenze, anche qui sulla terra. Dopo gli anni del regime si sono riaperte le Chiese e io ho avuto la fortuna di diventare religiosa, desiderio comune a tanti altri sacerdoti e suore.

 

In questo giorno speciale non saprei come ringraziare il Signore. Ho avuto il privilegio di incontrare Sua Santità e chiedere la sua benedizione per me, per lo zio prete e le suore stigmatine, per la parrocchia dove sono nata e dove ho svolto il mio servizio fino ad oggi, per i vescovi, i sacerdoti e i religiosi, per tutta la Chiesa e l’intero popolo albanese. Amen



 

Versione senza grafica
Versione PDF


<<<  Torna alla pagina precedente

Home - Cerca  
Messaggio Cristiano
Udienza Generale - Piazza San Pietro Mercoledì, 10 Settembre 2025

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. III. La Pasqua di Gesù. 6. La morte. «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37)

Cari fratelli e sorelle,
buongiorno e grazie per la vostra presenza, una bella testimonianza!

Oggi contempliamo il vertice della vita di Gesù in questo mondo: la sua morte in croce. I Vangeli attestano un particolare molto prezioso, che merita di essere contemplato con l’intelligenza della fede. Sulla croce, Gesù non muore in silenzio. Non si spegne lentamente, come una luce che si consuma, ma lascia la vita con un grido: «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37). Quel grido racchiude tutto: dolore, abbandono, fede, offerta. Non è solo la voce di un corpo che cede, ma il segno ultimo di una vita che si consegna.

Il grido di Gesù è preceduto da una domanda, una delle più laceranti che possano essere pronunciate: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È il primo verso del Salmo 22, ma sulle labbra di Gesù assume un peso unico. Il Figlio, che ha sempre vissuto in intima comunione con il Padre, sperimenta ora il silenzio, l’assenza, l’abisso. Non si tratta di una crisi di fede, ma dell’ultima tappa di un amore che si dona fino in fondo. Il grido di Gesù non è disperazione, ma sincerità, verità portata al limite, fiducia che resiste anche quando tutto tace.

In quel momento, il cielo si oscura e il velo del tempio si squarcia (cfr Mc 15,33.38). È come se il creato stesso partecipasse a quel dolore, e insieme rivelasse qualcosa di nuovo: Dio non abita più dietro un velo, il suo volto è ora pienamente visibile nel Crocifisso. È lì, in quell’uomo straziato, che si manifesta l’amore più grande. È lì che possiamo riconoscere un Dio che non resta distante, ma attraversa fino in fondo il nostro dolore.

Il centurione, un pagano, lo capisce. Non perché ha ascoltato un discorso, ma perché ha visto morire Gesù in quel modo: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). È la prima professione di fede dopo la morte di Gesù. È il frutto di un grido che non si è disperso nel vento, ma ha toccato un cuore. A volte, ciò che non riusciamo a dire a parole lo esprimiamo con la voce. Quando il cuore è pieno, grida. E questo non è sempre un segno di debolezza, può essere un atto profondo di umanità.

Noi siamo abituati a pensare al grido come a qualcosa di scomposto, da reprimere. Il Vangelo conferisce al nostro grido un valore immenso, ricordandoci che può essere invocazione, protesta, desiderio, consegna. Addirittura, può essere la forma estrema della preghiera, quando non ci restano più parole. In quel grido, Gesù ha messo tutto ciò che gli restava: tutto il suo amore, tutta la sua speranza.

Sì, perché anche questo c’è, nel gridare: una speranza che non si rassegna. Si grida quando si crede che qualcuno possa ancora ascoltare. Si grida non per disperazione, ma per desiderio. Gesù non ha gridato contro il Padre, ma verso di Lui. Anche nel silenzio, era convinto che il Padre era lì. E così ci ha mostrato che la nostra speranza può gridare, persino quando tutto sembra perduto.

Gridare diventa allora un gesto spirituale. Non è solo il primo atto della nostra nascita – quando veniamo al mondo piangendo –: è anche un modo per restare vivi. Si grida quando si soffre, ma pure quando si ama, si chiama, si invoca. Gridare è dire che ci siamo, che non vogliamo spegnerci nel silenzio, che abbiamo ancora qualcosa da offrire.

Nel viaggio della vita, ci sono momenti in cui trattenere tutto dentro può consumarci lentamente. Gesù ci insegna a non avere paura del grido, purché sia sincero, umile, orientato al Padre. Un grido non è mai inutile, se nasce dall’amore. E non è mai ignorato, se è consegnato a Dio. È una via per non cedere al cinismo, per continuare a credere che un altro mondo è possibile.

Cari fratelli e sorelle, impariamo anche questo dal Signore Gesù: impariamo il grido della speranza quando giunge l’ora della prova estrema. Non per ferire, ma per affidarci. Non per urlare contro qualcuno, ma per aprire il cuore. Se il nostro grido sarà vero, potrà essere la soglia di una nuova luce, di una nuova nascita. Come per Gesù: quando tutto sembrava finito, in realtà la salvezza stava per iniziare. Se manifestata con la fiducia e la libertà dei figli di Dio, la voce sofferta della nostra umanità, unita alla voce di Cristo, può diventare sorgente di speranza per noi e per chi ci sta accanto.

LEONE XIV