Giovedì 25 Aprile 2024
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I Cappuccini


Tommaso da Olera, mistico del Cuore di Gesù

Ricorre oggi il primo anniversario della beatificazione del carismatico cappuccino bergamasco

 

Di Padre Rodolfo Saltarin

 

ROMA, 21 Settembre 2014 (Zenit.org) - Non è per niente facile presentare in poche battute la complessa e articolata figura del cappuccino bergamasco Tommaso da Olera o da Bergamo (1563-1631), anticipatore delle rivelazioni fatte alla suora visitandina Margherita-Maria Alacoque nel 1675 da Gesù in persona, che le ha mostrato il suo Cuore.

 

Ci proviamo, tentando di dire l´essenziale e così incuriosire tu che leggi. Il nostro Tommaso, beatificato lo scorso anno a Bergamo Alta, nella cattedrale di sant´Alessandro, nel tardo pomeriggio il 21 settembre, è un cappuccino non sacerdote del Seicento, che il Signore ha condotto per mano anche al di là delle Alpi.

 

Non è stato soltanto nel convento di Verona, dove ha superato brillantemente l´anno di noviziato e, negli anni successivi, ha dato prova di realizzare con grande impegno l´arduo ideale della vita religiosa e di voler camminare speditamente, nell´epoca d´oro dei cappuccini, sul difficile crinale dell´ascetica e mistica.

 

Dopo venticinque anni, i superiori lo inviarono ‘di famiglia´ a Vicenza, dove continuò il pesante ufficio della cerca: stendere la mano per ricevere del pane per frati e poveri, ma soprattutto cercare giovani donne, desiderose di consacrarsi a Dio nella vita contemplativa. Diventò l´apostolo della vita consacrata.

 

A Rovereto, dove giunse ‘di famiglia´ sette anni dopo, continuò il doppio incarico, quello assegnatogli dai superiori, di cercare pane, e quello assegnatogli da Dio, di cercare di anime. Se a Vicenza, per suo intervento diretto, nacque il monastero delle cappuccine, a Rovereto nacque il monastero delle clarisse.

 

A Padova fu ‘di famiglia´ solo per un anno, da una primavera all´altra, con l´ufficio di portinaio. L´anno da portinaio lo possiamo considerare il suo "anno sabbatico". Nel frattempo la sua fama di uomo di Dio, interessato alla salvezza delle anime e disponibile alla volontà dei superiori, raggiungeva le terre del Nord.

 

Leopoldo V, arciduca del Tirolo, suggerito dal medico di corte Ippolito Guarinoni, nel 1618 chiese ai superiori maggiori di Venezia di inviare Tommaso nel convento di Innsbruck, per farlo diventare, oltre che frate della cerca lungo la valle dell´Inn, suo personale consigliere e, all´occorrenza, fidato ambasciatore.

 

A Innsbruck rimarrà fino alla morte, cioè per tredici anni. Andrà a Vienna, Monaco, Linz, Salisburgo, ma anche a Loreto e Roma. Oltre all´arciduca Leopoldo e alla sua sposa Claudia de´ Medici, i suoi amici spirituali furono illustri nomi della Chiesa e alte personalità dell´Impero,  l´imperatore Ferdinando II compreso.

 

Incontrare i valligiani nelle casupole e i minatori nelle miniere di sale o di carbone, come pure salire le sontuose scale dei palazzi dei vescovi e principi, per lui era una missione da compere nel nome del Signore. Sono loro a ringraziarlo per primi, avendo ricevuto delle certezze, nate dal suo diuturno colloquio con Dio.

 

Il mondo femminile di Verona, Vicenza, Rovereto e Innsbruck trovò in lui un sicuro riferimento spirituale. Per esempio: Bernardina Floriani, in seguito sr. Giovanna Maria della Croce; le arciduchesse dell´Istituto di Hall; la nobildonna luterana Eva Maria Rettinger, da lui convertita e poi diventata monaca a Salisburgo.Tommaso non fece solo miracoli materiali (famoso quello della botte da vuota a piena di vino buono, quand´era ‘di famiglia´ a Verona), ma anche celebri profezie: per esempio quella della esaltante vittoria di Praga (alla Montagna Bianca) dell´8 novembre 1620 e quella della rovinosa disfatta di Mantova nel 1630.      

 

Nato a Olera, piccola borgata medievale a pochi chilometri da Bergamo, concluse il suo pellegrinaggio a Innsbruck. Nella povera cella del convento consegnò la sua grande anima al Signore, circondato dai frati in lacrime (non prima di aver ricevuto l´autorizzazione a morire dal padre provinciale Serafino da Brunico).

 

Questo è stato l´iter geografico di Tommaso. Molto più interessante per noi è quello spirituale. Mentre negli anni della formazione era stato alla scuola del "nudo Crocifisso", nella vita di frate della cerca è rimasto alla scuola della "piaga del costato di Cristo". Suo stile era stare alla "mensa della contemplazione".

 

Non tenne per sé le "illuminazioni spirituali" che Dio gli elargiva in sovrabbondanza, ma le consegnò ai suoi amici anche mediante esortazioni scritte su fogli volanti. Tali manoscritti, custoditi nell´archivio dei cappuccini di Innsbruck, a partire dal duemila si pensò di stamparli in edizione critica con l´ed. Morcelliana.

 

L´Opera Omnia prevede quattro volumi. Due sono già a disposizione: Tommaso da Olera, Scritti, Selva di contemplazione e Scala di perfezione, a cura di A. Sana, Brescia 2005 e 2010. Gli altri due prossimamente: Concetti morali contro gl'eretici - Trattatelli ascetici ed Epistolario, a cura di A. Bartolomei Romagnoli.

 

Domanda: Tommaso dove aveva imparato a scrivere? Quando bussò al convento di Verona, per essere ricevuto fra i cappuccini di Venezia, era un diciasettenne che non sapeva né leggere né scrivere. Risposta: nei tre anni della formazione. Il superiore Francesco da Messina l´aveva giudicato un frate promettente.

 

Padre Giovenale da Brez, che per primo curò i suoi scritti (Augusta 1682 e Napoli 1683), di Tommaso  diceva, sia pure con enfasi secentesca: "Più dal interno Spirito insegnato [… egli fu] un colmo d´ogni sorte di virtù, [… un] abisso de humiltà, [ … da lui] scaturivano le grandi fiamme dell´amor di Dio e del prossimo".

 



 

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Messaggio Cristiano
Udienza Generale, 17 Aprile 2024

Catechesi. I vizi e le virtù. 15. La temperanza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi parlerò della quarta e ultima virtù cardinale: la temperanza. Con le altre tre, questa virtù condivide una storia che risale molto indietro nel tempo e che non appartiene ai soli cristiani. Per i greci la pratica delle virtù aveva come obbiettivo la felicità. Il filosofo Aristotele scrive il suo più importante trattato di etica indirizzandolo al figlio Nicomaco, per istruirlo nell’arte del vivere. Perché tutti cerchiamo la felicità eppure così pochi la raggiungono? Questa è la domanda. Per rispondere ad essa Aristotele affronta il tema delle virtù, tra le quali ha uno spazio di rilievo la enkráteia, cioè la temperanza. Il termine greco significa letteralmente “potere su sé stessi”. La temperanza è un potere su sé stessi. Questa virtù è dunque la capacità di autodominio, l’arte di non farsi travolgere da passioni ribelli, di mettere ordine in quello che il Manzoni chiama il “guazzabuglio del cuore umano”.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci dice che «la temperanza è la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati». «Essa – prosegue il Catechismo – assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore» (n. 1809).

Dunque, la temperanza, come dice la parola italiana, è la virtù della giusta misura. In ogni situazione, si comporta con saggezza, perché le persone che agiscono mosse sempre dall’impeto o dall’esuberanza alla fine sono inaffidabili. Le persone senza temperanza sono sempre inaffidabili. In un mondo dove tanta gente si vanta di dire quello che pensa, la persona temperante preferisce invece pensare quello che dice. Capite la differenza? Non dire quello che mi viene in mente, così… No, pensare a quello che devo dire. Non fa promesse a vanvera, ma assume impegni nella misura in cui li può soddisfare.

Anche con i piaceri, la persona temperante agisce con giudizio. Il libero corso delle pulsioni e la totale licenza accordata ai piaceri, finiscono per ritorcersi contro noi stessi, facendoci precipitare in uno stato di noia. Quanta gente che ha voluto provare tutto con voracità si è ritrovata a perdere il gusto di ogni cosa! Meglio allora cercare la giusta misura: ad esempio, per apprezzare un buon vino, assaporarlo a piccoli sorsi è meglio che ingurgitarlo tutto d’un fiato. Tutti sappiamo questo.

La persona temperante sa pesare e dosare bene le parole. Pensa a quello che dice. Non permette che un momento di rabbia rovini relazioni e amicizie che poi solo con fatica potranno essere ricostruite. Specialmente nella vita famigliare, dove le inibizioni si abbassano, tutti corriamo il rischio di non tenere a freno tensioni, irritazioni, arrabbiature. C’è un tempo per parlare e un tempo per tacere, ma entrambi richiedono la giusta misura. E questo vale per tante cose, ad esempio lo stare con gli altri e lo stare da soli.

Se la persona temperante sa controllare la propria irascibilità, non per questo la vedremo perennemente con il volto pacifico e sorridente. Infatti, qualche volta è necessario indignarsi, ma sempre nella giusta maniera. Queste sono le parole: la giusta misura, la giusta maniera. Una parola di rimprovero a volte è più salutare rispetto a un silenzio acido e rancoroso. Il temperante sa che nulla è più scomodo del correggere un altro, ma sa anche che è necessario: altrimenti si offrirebbe libero campo al male. In certi casi, il temperante riesce a tenere insieme gli estremi: afferma i principi assoluti, rivendica i valori non negoziabili, ma sa anche comprendere le persone e dimostra empatia per esse. Dimostra empatia.

Il dono del temperante è dunque l’equilibrio, qualità tanto preziosa quanto rara. Tutto, infatti, nel nostro mondo spinge all’eccesso. Invece la temperanza si sposa bene con atteggiamenti evangelici quali la piccolezza, la discrezione, il nascondimento, la mitezza. Chi è temperante apprezza la stima degli altri, ma non ne fa l’unico criterio di ogni azione e di ogni parola. È sensibile, sa piangere e non se ne vergogna, ma non si piange addosso. Sconfitto, si rialza; vincitore, è capace di tornare alla vita nascosta di sempre. Non cerca gli applausi, ma sa di avere bisogno degli altri.

Fratelli e sorelle, non è vero che la temperanza rende grigi e privi di gioie. Anzi, fa gustare meglio i beni della vita: lo stare insieme a tavola, la tenerezza di certe amicizie, la confidenza con le persone sagge, lo stupore per le bellezze del creato. La felicità con la temperanza è letizia che fiorisce nel cuore di chi riconosce e dà valore a ciò che più conta nella vita. Preghiamo il Signore perché ci dia questo dono: il dono della maturità, della maturità dell’età, della maturità affettiva, della maturità sociale. Il dono della temperanza.

Papa Francesco