Cronaca Bianca |
Fermo è in moto
Migliaia le persone, dopo il terremoto, ospitate nelle strutture alberghiere della costa: il movimento diocesano è accanto a loro in questa difficile fase.
Un concentrato di città e borghi medievali tra i più belli del Paese, di tradizioni antiche, di tesori naturalistici e d’arte e dei segni di una cultura millenaria che ha intrecciato la Storia con le storie di una popolazione laboriosa, legata alle proprie origini. Questo è il centro Italia, su cui si è abbattuta la triste sequela di terremoti che dall’estate scorsa continua a scuotere la terra.
La sola provincia di Fermo, nelle Marche, raggruppa ben quaranta Comuni, dalla catena dei Monti Sibillini fino alle spiagge di sabbia e ghiaia della costa, bagnata dal Mare Adriatico. Nelle notti limpide, dal duecentesco Duomo di Fermo (300 metri sul livello del mare, 10 km dalla costa) si possono vedere addirittura le luci della dirimpettaia Croazia.
Anche l’Arcidiocesi ha origini antiche: costituita alla fine del 1500, ma risalente al III secolo, è la più popolosa delle diocesi marchigiane e riunisce oltre 120 parrocchie, appartenenti a 58 comuni delle tre Province di Ascoli Piceno, Fermo e Macerata. Proprio in questo contesto ha mosso i suoi primi passi, nel 1973, il Movimento diocesano, diramazione del Movimento dei Focolari, che opera a servizio della Chiesa locale, proponendosi di irradiare il carisma dell’unità, per concorrere a realizzare, insieme alle altre realtà ecclesiali, una “Chiesa comunione”.
In tutto il fermano, il terremoto ha causato crolli, evacuazioni e tanta paura. Anche 200 chiese sono state chiuse per inagibilità. Loredana, del movimento diocesano, racconta l’esperienza fianco a fianco con le persone terremotate. «Sulla costa, numerosi campeggi e villaggi turistici ospitano circa 25 mila persone. In un campeggio di Porto S. Elpidio si è insediato il centro operativo della Protezione civile per questa zona. La cittadina ha accolto oltre mille persone, famiglie intere con bambini e anziani, ma diverse migliaia sono transitate di qui prima di essere indirizzate in altre strutture della costa. Per acquistare i beni di prima necessità abbiamo fatto una colletta tra noi animatori, quindi abbiamo organizzato un piccolo bar a disposizione degli sfollati e dei volontari. Superata questa fase di emergenza, il sindaco e l’assessore alla cultura hanno convocato i rappresentanti degli istituti scolastici per chiedere un supporto all’organizzazione di attività ludiche e laboratoriali. Del movimento diocesano eravamo presenti in tre, ma sapevamo di poter contare sull’aiuto di tanti. Con loro abbiamo organizzato attività per i bambini e lezioni per i ragazzi, trovando ogni giorno le educatrici e portando i dolci preparati dalle nostre mamme e nonne. Durante questo periodo, abbiamo stretto relazioni molto forti con gli insegnanti, i bambini, i ragazzi e le loro famiglie. Molti sfollati sono persone anziane. A Monte san Giusto, ad esempio, erano stati accolti circa 120 sfollati, e tra questi 42 anziani di una casa di riposo, di cui 30 in carrozzina. Due di noi (una assistente sociale e una guardia municipale) si sono prodigate, mettendosi in ascolto profondo delle loro esigenze. Molte le iniziative personali. I giovani di Porto S. Elpidio, per esempio, hanno realizzato a Natale tanti piccoli alberelli che hanno regalato alle famiglie ospitate in un campeggio. Infine, abbiamo raccolto un contributo di 1200 euro per il progetto “RImPRESA”, per sostenere piccole attività produttive dell’entroterra».
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO ALLE POPOLAZIONI COLPITE DAL TERREMOTO 5 Gennaio 2017
Don Luciano Avenati, parroco dell’abbazia di San Eutizio a Norcia: «Sono qui a testimoniare la sofferenza che ha fortemente segnato la gente del territorio in cui vivo, come anche gli altri territori di tutta la zona della Valnerina colpiti dal terremoto. Ma soprattutto voglio testimoniare la fortezza d’animo, il coraggio, la tenacia, e insieme la pazienza, la solidarietà nell’aiuto vicendevole della mia gente – ha aggiunto il parroco – e quindi la fede che trova in questi atteggiamenti l’espressione di una grande umanità. Devo dire dunque che sono orgoglioso della mia gente. E se io sono stato un sostegno per loro, loro sono stati la mia forza». Abbiamo vissuto insieme dormendo in macchina, poi nelle tende, poi nelle roulottes, ed ora qualcuno comincia a sistemarsi in piccole casette”. In tutto questo, ha sottolineato il parroco, «siamo cresciuti nelle relazioni umane e fraterne; sono avvenute alcune riconciliazioni; in una parola abbiamo perso le case ma siamo diventati una grande famiglia. E in questi giorni di Natale ci siamo detti più volte che non dobbiamo sentirlo come il più brutto della nostra vita, ma forse il più vero, quello che ci fa sentire più vicini a Gesù che è nato fuori casa (e noi siamo fuori casa), e che ha piantato la tenda in mezzo a noi (e noi siamo stati e in parte siamo ancora nelle tende). Siamo terremotati nel corpo ma non nell’anima». Da qui il «grazie» al Papa per la «sua vicinanza, affetto, preghiera», per il sostegno dato con «la sua visita, e il suo ricordo continuo e dal suo aiuto concreto fatto pervenire anche a noi parroci».
La testimonianza di una famiglia: da quel giorno la nostra vita non è più la stessa. «Sostenerci con la preghiera affinché ricostruiamo i cuori ancor prima delle case”: è la preghiera che Raffaele e Iole Festa, famiglia terremotata di Cascello, una piccola frazione di Amatrice (Rieti), ha rivolto a Papa Francesco.
Raffaele e Iole, insieme ai loro due figli, Leonardo e Lavinia, hanno portato la loro testimonianza al Papa, rievocando quella notte del 24 agosto, “quando il terremoto ha cambiato ogni cosa. Ricordo la scossa che, in quegli interminabili secondi, nel cuore della notte ha fatto tremare tutti e tutto. In un primo momento io e mia moglie ci siamo subito abbracciati ma, appena razionalizzato che era stato il terremoto a svegliarci, al buio e senza pensarci troppo siamo andati a tirare fuori dalla camera i bambini per uscire da casa”.
“Da quel giorno – ha concluso Raffaele – la nostra vita certamente non è più la stessa. La casa dei nostri sogni è ormai demolita, ma la nostra vita è salva!
Tuttavia, la fortuna di essere usciti vivi da quell'inferno non potrà mai cancellare il dolore di aver perso tanti amici”.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Io ho scritto qui le due testimonianze che abbiamo ascoltato, e ho sottolineato qualche espressione, qualche parola, che mi ha toccato il cuore, e di questo voglio parlare.
Una parola che è stata come un ritornello, quella del ricostruire. Quello che Raffaele ha detto molto concisamente e molto forte: “Ricostruire i cuori ancor prima delle case”. Ricostruire i cuori. “Ricostruire – ha detto Don Luciano – il tessuto sociale e umano della comunità ecclesiale”. Ri-costruire. Mi viene in mente quell’uomo che ho trovato, non ricordo in quale dei paesi che ho visitato in quella giornata [quando si è recato nei luoghi terremotati, il 4 ottobre 2016], ha detto: “Per la terza volta incomincerò a costruire la mia casa”. Ricominciare, non lasciarsi andare – “ho perso tutto” –, amareggiare… Il dolore è grande! E ricostruire col dolore… Le ferite del cuore ci sono! Qui, alcune settimane fa, ho incontrato la piccola Giulia, con i suoi genitori, che aveva perso il fratello, con la sorellina… Poi ho incontrato quella coppia di sposi che ha perso i gemellini… E adesso incontro voi che avete perso gente della vostra famiglia. I cuori sono feriti. Ma c’è la parola che abbiamo sentito oggi da Raffaele: ricostruire i cuori, che non è “domani sarà meglio”, non è ottimismo, no, non c’è posto per l’ottimismo qui: sì per la speranza, ma non per l’ottimismo. L’ottimismo è un atteggiamento che serve un po’ in un momento, ti porta avanti, ma non ha sostanza. Oggi serve la speranza, per ricostruire, e questo si fa con le mani, un’altra parola che mi ha toccato.
Raffaele ha parlato delle “mani”: il primo abbraccio con le mani a sua moglie; poi quando prende i bambini per tirarli fuori dalla casa: le mani. Quelle mani che aiutano i famigliari a liberarsi dai calcinacci; quella mano che lascia il suo figlio in braccio, nelle mani di non so chi per andare ad aiutare un altro. “Poi c’era la mano di qualcuno che mi ha guidato”, ha detto. Le mani. Ricostruire, e per ricostruire ci vogliono il cuore e le mani, le nostre mani, le mani di tutti. Quelle mani con le quali noi diciamo che Dio, come un artigiano, ha fatto il mondo. Le mani che guariscono. A me piace, agli infermieri, ai medici, benedire le mani, perché servono per guarire. Le mani di tanta gente che ha aiutato a uscire da questo incubo, da questo dolore; le mani dei Vigili del Fuoco, tanto bravi, tanto bravi... E le mani di tutti quelli che hanno detto: “No, io do del mio, do il meglio”. E la mano di Dio alla domanda “perché?” – ma sono domande che non hanno risposta, la cosa è andata così.
Un’altra parola che è uscita è la ferita, ferire: “Noi siamo rimasti lì per non ferire di più la nostra terra”, ha detto il parroco. Bello. Non ferire di più quello che è ferito. E non ferire con parole vuote, tante volte, o con notizie che non hanno il rispetto, che non hanno la tenerezza davanti al dolore. Non ferire. Ognuno ha sofferto qualcosa. Alcuni hanno perso tanto, non so, la casa, anche i figli o i genitori, quel coniuge… Ma non ferire. Il silenzio, le carezze, la tenerezza del cuore ci aiuta a non ferire.
E poi si fanno miracoli nel momento del dolore: “Ci sono state riconciliazioni”, ha detto il parroco. Si lasciano da parte antiche storie e ci ritroviamo insieme in un’altra situazione. Ritrovarsi: col bacio, con l’abbraccio, con l’aiuto mutuo…, anche con il pianto. Piangere da soli fa bene, è un’espressione davanti a noi stessi e a Dio; ma piangere insieme è meglio, ci ritroviamo piangendo insieme.
Queste sono le cose che mi sono venute al cuore quando ho letto e sentito queste testimonianze.
Un’altra frase, detta anch’essa da Raffaele: “Oggi la nostra vita non è la stessa. E’ vero, siamo usciti salvi, ma abbiamo perso”. Salvi, ma sconfitti. E’ una cosa nuova questa strada di vita. La ferita si guarisce, le ferite guariranno, ma le cicatrici rimarranno per tutta la vita, e saranno un ricordo di questo momento di dolore; sarà una vita con una cicatrice in più. Non è la stessa di prima. Sì, c’è la fortuna di essere usciti vivi, ma non è lo stesso di prima.
Poi, Don Luciano ha fatto accenno alle virtù, alle virtù vostre: “Voglio testimoniare – ha detto – la fortezza d’animo, il coraggio, la tenacia e insieme la pazienza, la solidarietà nell’aiuto vicendevole della mia gente”. E questo si chiama essere “ben nati”, non so se in italiano si usa questo [modo di dire], in spagnolo si usa “bien nacido”, nato bene, una persona che è nata bene. E lui, come pastore, dice: “Sono orgoglioso della mia gente”. Anch’io devo dire che sono orgoglioso dei parroci che non hanno lasciato la terra, e questo è buono: avere pastori che quando vedono il lupo non fuggono.
Abbiamo perso, sì, abbiamo perso tante cose: casa, famiglie, ma siamo diventati una grande famiglia in un altro modo.
E c’è un’altra parola che è stata detta due volte soltanto, un po’ di passaggio, ma era un po’ il nocciolo di queste due testimonianze: vicinanza. “Siamo stati vicini e rimaniamo vicini l’uno all’altro”. E la vicinanza ci fa più umani, più persone di bene, più coraggiosi. Una cosa è andare soli, sulla strada della vita, e una cosa è andare per mano con l’altro, vicino all’altro. E questa vicinanza voi l’avete sperimentata.
E poi un’altra parola che si è perduta nel discorso, ricominciare, senza perdere la capacità di sognare, sognare il riprendersi, avere il coraggio di sognare una volta in più.
Queste sono le cose che più hanno toccato il cuore delle due testimonianze, e per questo ho voluto prendere le vostre parole per farle mie, perché nella vostra situazione il peggio che si può fare è fare un sermone, il peggio. Soltanto, [ho voluto] prendere quello che dice il vostro cuore e farlo proprio e dirlo con voi, e fare una riflessione un po’ su questo.
Voi sapete che vi sono vicino. E vi dico una cosa: quando mi sono accorto di quello che era accaduto quella mattina, appena svegliato ho trovato un biglietto dove si parlava delle due scosse; due cose ho sentito: ci devo andare, ci devo andare; e poi ho sentito dolore, molto dolore. E con questo dolore sono andato a celebrare la Messa quel giorno.
Grazie per essere venuti oggi e in alcune udienze di questi mesi. Grazie per tutto quello che voi avete fatto per aiutarci, per costruire, ricostruire i cuori, le case, il tessuto sociale; anche per ricostruire [riparare] col vostro esempio l’egoismo che è nel nostro cuore che non abbiamo sofferto questo. Grazie tante a voi. E sono vicino a voi.
“Come sacerdote, come vescovo, come Papa”. Così voleva andare Papa Francesco tra i terremotati di Amatrice, così si è presentato questa mattina alle 9.10, recandosi in una golf grigia dai vetri oscurati nella cittadina appenninica devastata dal sisma del 24 agosto scorso. Il Santo Padre ha dedicato quasi un’intera giornata per abbracciare le vittime della catastrofe, spostandosi anche nei comuni marchigiani di Accumoli, Pescara del Tronto, Arquata del Tronto e in quello umbro di San Pellegrino da Norcia. Tutte zone messe in ginocchio da quelle tremende scosse, alcune quasi interamente rase al suolo.
Prima tappa del pellegrinaggio ad Amatrice che il Pontefice ha voluto compiere proprio nel giorno della Festa del suo Santo Patrono, è stata la scuola ‘Romolo Capranica’ allestita in una tensostruttura. Lì ha incontrato i maestri e i bambini e ragazzi delle scuole medie ed elementari: li ha abbracciati uno ad uno, ha ascoltato i loro racconti di terrore e speranza, ha guardato i disegni che gli hanno regalato.
I piccoli, grazie al grande lavoro svolto da agosto dalla Protezione Civile, sono riusciti ad iniziare la scuola contemporaneamente agli altri comuni delle Marche, per ora nei tendoni visto che è ancora in corso la costruzione dei container. Al fianco al Papa sin dal suo arrivo c’era il vescovo di Rieti, monsignor Domenico Pompili, al quale il Santo Padre aveva telefonato poche ore dopo il terremoto per dargli conforto.
Parlando da un piccolo microfono con altoparlante, Bergoglio ha spiegato il motivo per cui ha ritardato di oltre un mese la sua visita. “Ho pensato bene nei primi giorni di questi tanti dolori che la mia visita, forse, era più un ingombro che un aiuto, che un saluto. Non volevo dare fastidio, per questo ho lasciato passare un pochettino di tempo affinché si sistemassero alcune cose, come la scuola” ha spiegato. Tuttavia, ha aggiunto, “dal primo momento ho sentito che dovevo venire da voi! Semplicemente per dire che vi sono vicino, che vi sono vicino, niente di più, e che prego, prego per voi! Vicinanza e preghiera, questa è la mia offerta a voi”.
“Dobbiamo andare avanti nonostante tanti cari che ci hanno lasciato”, ha incoraggiato il Papa, “dobbiamo andare sempre avanti insieme perché da soli è difficile, aiutatevi l’un l’altro. Si cammina meglio insieme. Da soli no”. “Che il Signore benedica tutti voi – ha concluso il Pontefice – la Madonna vi custodisca in momento tristezza, andiamo avanti, ci sono tanti cari che ci hanno lasciato. Sono caduti qui, sotto le macerie preghiamo la Madonna per loro”.
Scortato dai Vigili del fuoco e dal sindaco Sergio Pirozzi, il Santo Padre si è quindi incamminato lungo Corso Umberto I, ‘zona rossa’ della città, particolarmente colpita dal cratere del terremoto, ora chiusa per motivi di sicurezza. Davanti a quel panorama di edifici in rovina, di polvere e macerie, si è quindi soffermato da solo, in silenzio, in preghiera, per pochi istanti.
Quindi, ha salutato il responsabile della Comunicazione di emergenza del Corpo dei Vigili del Fuoco. “Prego perché voi non dobbiate lavorare, il vostro è un lavoro doloroso. Vi ringrazio per quello che fate” ha detto, e lui stesso ha chiesto di fare una foto con i vigili presenti. Perché “loro sono quelli che salvano la gente”, e quindi è il minimo premiarli con una foto ricordo.
Lo stesso affetto il Pontefice l’ha rivolto ai malati, per lo più anziani non autosufficienti e sfollati a causa del terremoto, ricoverati nella RSA San Raffaele di Borbona, in provincia di Rieti. Il Papa ha visitato la struttura dopo la tappa ad Amatrice, trascorrendo lì anche il pranzo; subito dopo ha compiuto una breve sosta al Comando dei Vigili del Fuoco a Cittàreale, campo base per le zone terremotate, per poi raggiungere Accumoli, intorno alle 13, dove non si è sottratto agli abbracci e ai saluti delle numerose persone (tra cui il sindaco) affollate davanti al tendone che funge ora da casa, da scuola, da riparo.
Toccante l’immagine di Papa Francesco che prega immobile davanti alla Chiesa di San Francesco distrutta dal terremoto. Dopo questo momento così intenso, il Pontefice ha salutato Accumoli per spostarsi a Pescara del Tronto e Arquata del Tronto, accompagnato da mons. Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno. La diocesi marchigiana, insieme a quella di San Benedetto del Tronto, ospita attualmente 300 terremotati di Accumoli, Amatrice e Arquata. Secondo gli ultimi dati, sono oltre 1440 le vittime del sisma che assiste la Protezione civile, mentre si procede con le diverse verifiche di agibilità. La priorità è infatti di ridare prima possibile una vita normale a questa gente e di smantellare al più presto i campi visto che le temperature stanno scendendo visibilmente.
Durante il tragitto, il Santo Padre ha voluto fare tre soste: tutte le volte per stringere anche solo una mano delle persone radunate in piccoli gruppi lungo la strada. Ad Arquata del Tronto ,il Papa è arrivato quindi poco dopo le 14: anche qui un bagno di folla con oltre 100 persone; anche qui un saluto personale ad ognuno, a cominciare dai bambini vestiti con i grembiulini rosa e blu. Inizialmente disorientati, i piccoli si sono messi a loro agio quando il più spigliato del gruppo ha rotto il ghiaccio dicendo al Papa: “Oggi è la tua festa, no? Auguri!”.
Francesco ha pregato con loro e poi, come ad Amatrice, ha ribadito: “Ho voluto esservi vicino in questo momento e dire a voi che vi porto nel cuore e so, so della vostra sofferenza e delle vostre angosce e so anche dei vostri morti e sono con voi e per questo ho voluto oggi essere qui”. Il Vescovo di Roma ha chiesto di pregare insieme il Signore “perché vi benedica e preghiamo anche per i vostri cari che sono rimasti lì… e sono andati in cielo”. Dopo l’Ave Maria e la benedizione, un’altra parola di conforto: “Coraggio, sempre avanti, sempre avanti. I tempi cambieranno e si potrà andare avanti. Io vi sono vicino, sono con voi”.
L’ultimo step di queste sei ore all’insegna della misericordia è stata la visita a San Pellegrino di Norcia, in Umbria, dove ad accompagnare il Papa c’era l’arcivescovo di Spoleto-Norcia, mons. Renato Boccardo. Francesco è voluto andare nel cuore della catastrofe, la chiesa di San Pellegrino, fortemente danneggiata e dichiarata ‘zona rossa’, dove ha innalzato l’ennesima preghiera a Dio in silenzio e solitudine. Subito dopo il saluto alle centinaia di persone che lo attendevano fuori, alle quali, usando il microfono della polizia, ha detto: “Saluto tutti voi. Sono stato vicino a voi e mi sento molto vicino in questo momento di tristezza e prego per voi e chiedo al Signore che dia la forza di andare avanti. E adesso vi invito a pregare tutti insieme l’Ave Maria”.
Alle 15.30 Papa Francesco è ripartito per Roma in automobile. Tutta la visita si è svolta, dunque, secondo il suo desiderio di mostrare il più possibile vicinanza e solidarietà a questa gente distrutta. Così aveva annunciato ai giornalisti nella conferenza stampa di domenica scorsa, nel volo Baku-Roma, sottolineando anche di volersi recare “privatamente, da solo, come sacerdote, come vescovo, come Papa. Ma da solo”.
Senza fotografi, dunque, né pubblico o telecamere. Tanto che il Pontefice aveva sviato sulla data del 4 ottobre – nonostante alcuni siti specializzati l’avessero già preannunciata – affermando che erano in ballo tre possibili date per la visita, una delle quali era la prima domenica di Avvento.
Nonostante questo, nel corso della mattinata numerose troupe televisive e fotografi si sono inevitabilmente radunati al seguito del Papa per immortalare questa pagina storica del suo pontificato, che ha richiamato alla mente la visita di Giovanni Paolo II in Irpinia, il 23 novembre 1980, a 48 ore dal sisma, e quella di Benedetto XVI del 28 aprile a L’Aquila, dopo tre settimane da quelle terribili scosse che provocarono 309 vittime, 1.600 feriti e oltre 10 miliardi di euro di danni stimati.
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