Il silenzio educativo
Come accompagnare e sostenere la crescita dei figli responsabilmente?
Quando i genitori abdicano al compito educativo, delegando baby sitter, tecnologia e televisione. Cosa significa per i genitori avere un progetto educativo?
di Carolina Rossi e Giulia Palombo
21 luglio 2015
La storia. Marcello, 9 anni, definito “iperattivo” a scuola e in tutti i suoi contesti di vita. Non riesce a star fermo un attimo e le insegnanti ormai hanno rinunciato non investendo più su di lui, sebbene lo ritengano un ragazzo molto intelligente. Tant’è che spesso per fargli sbollire il suo bisogno di evasione lo lasciano uscire dalla classe per qualche ora. Anche al gruppo del catechismo Marcello è quello che non rispetta le regole, cerca continuamente di smontare ogni cosa e ogni iniziativa dell’adulto. E continua fino a quando chi ne è responsabile non lo redarguisce o arriva ad esasperarsi. Come mai? I genitori di Marcello non riescono ad occuparsi molto di lui, perché da sempre presi principalmente dal lavoro e da loro stessi. Anche loro da bambini non sono stati adeguatamente seguiti, ed ora fanno i conti con il bisogno di recuperare quella parte di vita attiva e di figli protagonisti persa precedentemente. Così, il loro tempo e le loro attenzioni, oltre al lavoro, sembrano principalmente orientate alla ricerca di spazi personali, che non gli permettono di “attenzionare” adeguatamente il figlio ed i suoi bisogni. La baby sitter sembra essere stata incaricata di occuparsi di loro e quando mamma e papà sono a casa, la tv e i videogiochi la fanno da padroni, gli unici strumenti capaci di fermare Marcello. La modalità disimpegnata che utilizzano nella cura del figlio contribuisce ampiamente a strutturarne il comportamento. Poco calore e poco controllo, scarsa comunicazione sono gli elementi alla base di uno stile educativo e relazionale di tipo disimpegnato/trascurante, che poco fa sentire al figlio di poter “esistere” emotivamente, che non offre adeguati strumenti di comprensione del mondo e delle regole, disorientando.
Il silenzio educativo. All’interno della propria famiglia ogni bambino sperimenta il proprio essere unico ed irripetibile e affronta l’itinerario evolutivo dall’infanzia all’adolescenza, fino alla giovane età, nutrendosi delle profonde relazioni che stabilisce con chi si prende cura di lui e lo aiuta a crescere.
Il rapporto con la madre e con il padre e, più in generale, con la storia familiare è un’esperienza ricca da un punto di vista affettivo, in cui ciascuno impara che ha valore per se stesso al di là del livello di prestazioni che può dare, ma allo stesso tempo fornisce al figlio precisi orizzonti di senso.
Dare calore, sostegno, ma anche direzione alla crescita in modo che il piccolo, e poi l’adolescente, si sviluppi e raggiunga una piena identità adulta è il principale compito dei genitori.
Se è proprio questa la funzione che si richiede ai genitori, è facile ed intuitivo capire che l’educazione dei figli non può essere lasciata al caso o “all’istinto”, ma richiede impegno e dedizione per l’elaborazione e l’attuazione di quello che è un vero e proprio “progetto” educativo.
La storia di Marcello ci mostra come a volte si perda di vista la progettualità educativa nei confronti dei propri figli, ed evidenzia le conseguenze che questo può avere sulla loro crescita. Le tante ore che Marcello trascorre davanti alla tv da solo sono un modo per i suoi genitori per tenerlo buono e tranquillo, ma di sicuro non rientrano in un progetto di crescita per lui. Rappresenta il modo più semplice ed immediato per raggiungere un obiettivo tutto dei genitori.
Quella di usare la tv come intrattenimento per un figlio non può essere ritenuta una scelta ponderata e ragionata. Molte famiglie vivono la solitudine educativa e la difficoltà di soffermarsi sulle tematiche legate allo sviluppo e ai bisogni dei figli.
Quante volte piuttosto che guardare negli occhi dei figli chiedendosi di cosa abbiano veramente bisogno, da genitori ci si ritrova a dare risposte precostituite, basate sull’abitudine o dettate da standard personali? Quante volte da genitori si danno regole, che poi dal genitore stesso non sono rispettate? O ancora, quante volte da genitori si incontrano difficoltà nel “condurre” i figli, nel dare loro una prospettiva e una direzione verso cui tendere? Spesso prevale l’insicurezza sui criteri e sugli obiettivi educativi con cui orientarsi nelle difficili e, oggi, assai complesse scelte. Ancor più spesso domina l’incertezza nell’orientamento perché anche l’adulto non sa cosa desiderare per sé e per i figli. Tante volte il timore di non saper dare risposte adeguate fa si che si evitino alcuni argomenti.
Consigli. È fondamentale cercare di attivarsi per costruire/fruire di spazi di approfondimento e confronto sulle tematiche genitoriali: nessun genitore può ritenersi competente sempre ed in ogni caso e durante le differenti fasi evolutive attraversate dal figlio, ma anche dal proprio compito. Sentire altri genitori accanto e arricchirsi dell’altrui esperienza è sempre utile.
Partendo dalla consapevolezza che i figli vanno innanzitutto conosciuti e riconosciuti, occorre darsi degli obiettivi alla luce della conoscenza dei differenti bisogni e delle differenti fasi del percorso formativo e di sviluppo dei propri figli.
È necessario e fondamentale riflettere in coppia sulla proposta dei riferimenti valoriali che fanno da cornice e da guida al progetto educativo.
Altresì, risulta importante attrezzarsi per anticipare le domande sempre più mature ed evolute dei figli: non bisogna aspettare che siano i figli a porci le domande intorno ai temi importanti, o far sì che quando arrivano a noi con i grandi temi ci trovino impreparati.
Non è necessario demonizzare tv e video giochi, piuttosto è fondamentale riflettere e far riflettere sull’uso che di questi strumenti della tecnologia si fa. Guardare insieme la televisione è importantissimo perché i bambini hanno tante domande e avere la possibilità di chiedere al genitore e di trovare risposta permette al piccolo di guardare la televisione con un atteggiamento di fruizione attiva e critica. Anche commentare insieme i programmi può essere stimolante come occasione di confronto su tanti temi.
È sicuramente fondamentale in qualità di genitori dare l’esempio, ossia evitare di guardare tv spazzatura, selezionare i programmi televisivi, fare un uso mirato della tecnologia, evitare da adulti di utilizzare la tv come intrattenimento passivo personale.
Affidare i bambini a nonni o a baby sitter non è necessariamente negativo; occorre però esserci anche quando si è assenti, ossia mantenere sempre la dovuta attenzione e regia sui bisogni del proprio bambino, sulla strutturazione e sulla qualità del suo tempo, sui messaggi che gli vengono offerti, sulle attività svolte, insomma occorre prendersi cura di ogni attimo che vede l’assenza del genitore. Un figlio che sa di essere pensato sa anche di essere amato.
Insieme per crescere. I genitori esercitano nei confronti dei propri figli una “responsabilità” educativa, quella che Erikson (1968) definisce “generatività” cioè una caratteristica precipua dell’adulto che esprime “interessamento in costante espansione verso le nuove generazioni”. Generare, codice tipico della famiglia, non va confinato nel generare figli propri, ma esteso al prendersi cura responsabilmente delle nuove generazioni.
I genitori responsabili e padroni del proprio ruolo sanno che ogni parola, ogni gesto, ogni azione può e deve avere un preciso significato e un risvolto educativo, sanno che sia “il detto” che “il non detto” degli adulti veicolano sempre degli insegnamenti. Essi cercano di sviluppare la capacità di leggere gli eventi e gli episodi familiari in chiave educativa, cercando di cogliere nelle emozioni, nei vissuti, il tentativo di imparare a vivere, di voler crescere e diventare grandi.
Roma, 07 Luglio 2015 (ZENIT.org)
“La famiglia, come chiesa domestica, è il luogo primo dove avviene la trasmissione della fede. È lì che spesso si scopre e si sviluppa la vocazione al sacerdozio e alla vita consacrata. Allo stesso tempo la famiglia può essere il luogo dove una nascente vocazione può essere soffocata, se non è adeguatamente accompagnata e sostenuta". Lo ha affermato don Michel Remery, vice segretario generale del CCEE, in apertura dei lavori ieri pomeriggio dell’Incontro Europeo Vocazioni in corso a Praga.
"Se si perde di vista l’idea che l’istituzione famigliare, è essenzialmente una comunità di fede per il benessere della coppia e dei loro figli, questo ha un effetto diretto sulla naturale armonia della vita familiare, e con essa sulla quantità e la qualità delle vocazioni”, ha avvertito Remery.
“Quando un giovane o una giovane - ha aggiunto - esprime un desiderio crescente di seguire Cristo in modo radicale attraverso un cammino di discernimento al sacerdozio o alla vita consacrata, la famiglia può sentirsi inadeguata e sola nell’accompagnare le domande, i dubbi e le sfide connessi con una scelta di vita così radicale".
Oggi giorno, ha proseguito il sacerdote, "una tale scelta viene considerata come poco attrattiva e strana, tanto che spesso la stessa famiglia cristiana pone ostacoli e divieti ai giovani che considerano una tale vocazione. Chiaramente, il cammino verso la vocazione è un cammino personale di Dio con la persona chiamata, e la scelta è solo suo o sua. Allo stesso tempo, come cristiani, non siamo soli, e abbiamo bisogno dell’aiuto degli altri".
Pertanto, secondo il vice segretario generale del CCEE, "è necessario che l’intera comunità cristiana, la Chiesa, sappia accompagnare ed aiutare le famiglie a compiere insieme un cammino di discernimento e di maturazione di una eventuale vocazione alla vita consacrata o al sacerdozio”.
A confrontarsi sul tema Come accompagnare i giovani al sacerdozio e alla vita consacrata nella famiglia oggi sono giunti a Praga 72 partecipanti, di cui nove vescovi, assieme ai responsabili per la pastorale vocazionale e ai delegati delle Conferenze episcopali in Europa e delle Congregazioni religiose, provenienti da 20 Paesi europei e dalla Commissione per la Vita consacrata degli USA.
I lavori, che si svolgono a porte chiuse, si concluderanno giovedì 9 luglio con l’approvazione di un comunicato finale che sarà proposto in varie lingue nella mattinata di venerdì 10 luglio.
MESSAGGIO PER LA GIORNATA MONDIALE DI PREGHIERA PER LE VOCAZIONI
Tema: L’esodo, esperienza fondamentale della vocazione
Cari fratelli e sorelle!
La quarta Domenica di Pasqua ci presenta l’icona del Buon Pastore che conosce le sue pecore, le chiama, le nutre e le conduce. In questa Domenica, da oltre 50 anni, viviamo la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni. Ogni volta essa ci richiama l’importanza di pregare perché, come disse Gesù ai suoi discepoli, «il signore della messe…mandi operai nella sua messe» (Lc 10,2). Gesù esprime questo comando nel contesto di un invio missionario: ha chiamato, oltre ai dodici apostoli, altri settantadue discepoli e li invia a due a due per la missione (Lc 10,1-16). In effetti, se la Chiesa «è per sua natura missionaria» (Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Ad gentes, 2), la vocazione cristiana non può che nascere all’interno di un’esperienza di missione. Così, ascoltare e seguire la voce di Cristo Buon Pastore, lasciandosi attrarre e condurre da Lui e consacrando a Lui la propria vita, significa permettere che lo Spirito Santo ci introduca in questo dinamismo missionario, suscitando in noi il desiderio e il coraggio gioioso di offrire la nostra vita e di spenderla per la causa del Regno di Dio.
L’offerta della propria vita in questo atteggiamento missionario è possibile solo se siamo capaci di uscire da noi stessi. Perciò, in questa 52ª Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, vorrei riflettere proprio su quel particolare “esodo” che è la vocazione, o, meglio, la nostra risposta alla vocazione che Dio ci dona. Quando sentiamo la parola “esodo”, il nostro pensiero va subito agli inizi della meravigliosa storia d’amore tra Dio e il popolo dei suoi figli, una storia che passa attraverso i giorni drammatici della schiavitù in Egitto, la chiamata di Mosè, la liberazione e il cammino verso la terra promessa. Il libro dell’Esodo – il secondo libro della Bibbia –, che narra questa storia, rappresenta una parabola di tutta la storia della salvezza, e anche della dinamica fondamentale della fede cristiana. Infatti, passare dalla schiavitù dell’uomo vecchio alla vita nuova in Cristo è l’opera redentrice che avviene in noi per mezzo della fede (Ef 4,22-24). Questo passaggio è un vero e proprio “esodo”, è il cammino dell’anima cristiana e della Chiesa intera, l’orientamento decisivo dell’esistenza rivolta al Padre.
Alla radice di ogni vocazione cristiana c’è questo movimento fondamentale dell’esperienza di fede: credere vuol dire lasciare sé stessi, uscire dalla comodità e rigidità del proprio io per centrare la nostra vita in Gesù Cristo; abbandonare come Abramo la propria terra mettendosi in cammino con fiducia, sapendo che Dio indicherà la strada verso la nuova terra. Questa “uscita” non è da intendersi come un disprezzo della propria vita, del proprio sentire, della propria umanità; al contrario, chi si mette in cammino alla sequela del Cristo trova la vita in abbondanza, mettendo tutto sé stesso a disposizione di Dio e del suo Regno. Dice Gesù: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19,29). Tutto ciò ha la sua radice profonda nell’amore. Infatti, la vocazione cristiana è anzitutto una chiamata d’amore che attrae e rimanda oltre sé stessi, decentra la persona, innesca «un esodo permanente dall’io chiuso in sé stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio» (Benedetto XVI, Lett. Enc. Deus Caritas est, 6).
L’esperienza dell’esodo è paradigma della vita cristiana, in particolare di chi abbraccia una vocazione di speciale dedizione al servizio del Vangelo. Consiste in un atteggiamento sempre rinnovato di conversione e trasformazione, in un restare sempre in cammino, in un passare dalla morte alla vita così come celebriamo in tutta la liturgia: è il dinamismo pasquale. In fondo, dalla chiamata di Abramo a quella di Mosè, dal cammino peregrinante di Israele nel deserto alla conversione predicata dai profeti, fino al viaggio missionario di Gesù che culmina nella sua morte e risurrezione, la vocazione è sempre quell’azione di Dio che ci fa uscire dalla nostra situazione iniziale, ci libera da ogni forma di schiavitù, ci strappa dall’abitudine e dall’indifferenza e ci proietta verso la gioia della comunione con Dio e con i fratelli. Rispondere alla chiamata di Dio, dunque, è lasciare che Egli ci faccia uscire dalla nostra falsa stabilità per metterci in cammino verso Gesù Cristo, termine primo e ultimo della nostra vita e della nostra felicità.
Questa dinamica dell’esodo non riguarda solo il singolo chiamato, ma l’azione missionaria ed evangelizzatrice di tutta la Chiesa. La Chiesa è davvero fedele al suo Maestro nella misura in cui è una Chiesa “in uscita”, non preoccupata di sé stessa, delle proprie strutture e delle proprie conquiste, quanto piuttosto capace di andare, di muoversi, di incontrare i figli di Dio nella loro situazione reale e di com-patire per le loro ferite. Dio esce da sé stesso in una dinamica trinitaria di amore, ascolta la miseria del suo popolo e interviene per liberarlo (Es 3,7). A questo modo di essere e di agire è chiamata anche la Chiesa: la Chiesa che evangelizza esce incontro all’uomo, annuncia la parola liberante del Vangelo, cura con la grazia di Dio le ferite delle anime e dei corpi, solleva i poveri e i bisognosi.
Cari fratelli e sorelle, questo esodo liberante verso Cristo e verso i fratelli rappresenta anche la via per la piena comprensione dell’uomo e per la crescita umana e sociale nella storia. Ascoltare e accogliere la chiamata del Signore non è una questione privata e intimista che possa confondersi con l’emozione del momento; è un impegno concreto, reale e totale che abbraccia la nostra esistenza e la pone al servizio della costruzione del Regno di Dio sulla terra. Perciò la vocazione cristiana, radicata nella contemplazione del cuore del Padre, spinge al tempo stesso all’impegno solidale a favore della liberazione dei fratelli, soprattutto dei più poveri. Il discepolo di Gesù ha il cuore aperto al suo orizzonte sconfinato, e la sua intimità con il Signore non è mai una fuga dalla vita e dal mondo ma, al contrario, «si configura essenzialmente come comunione missionaria» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 23).
Questa dinamica esodale, verso Dio e verso l’uomo, riempie la vita di gioia e di significato. Vorrei dirlo soprattutto ai più giovani che, anche per la loro età e per la visione del futuro che si spalanca davanti ai loro occhi, sanno essere disponibili e generosi. A volte le incognite e le preoccupazioni per il futuro e l’incertezza che intacca la quotidianità rischiano di paralizzare questi loro slanci, di frenare i loro sogni, fino al punto di pensare che non valga la pena impegnarsi e che il Dio della fede cristiana limiti la loro libertà. Invece, cari giovani, non ci sia in voi la paura di uscire da voi stessi e di mettervi in cammino! Il Vangelo è la Parola che libera, trasforma e rende più bella la nostra vita. Quanto è bello lasciarsi sorprendere dalla chiamata di Dio, accogliere la sua Parola, mettere i passi della vostra esistenza sulle orme di Gesù, nell’adorazione del mistero divino e nella dedizione generosa agli altri! La vostra vita diventerà ogni giorno più ricca e più gioiosa!
La Vergine Maria, modello di ogni vocazione, non ha temuto di pronunciare il proprio “fiat” alla chiamata del Signore. Lei ci accompagna e ci guida. Con il coraggio generoso della fede, Maria ha cantato la gioia di uscire da sé stessa e affidare a Dio i suoi progetti di vita. A lei ci rivolgiamo per essere pienamente disponibili al disegno che Dio ha su ciascuno di noi; perché cresca in noi il desiderio di uscire e di andare, con sollecitudine, verso gli altri (cfr Lc 1,39). La Vergine Madre ci protegga e interceda per tutti noi.
Dal Vaticano, 29 marzo 2015
Domenica delle Palme
Franciscus
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