I Cappuccini


I frati Cappuccini in missione nella Repubblica Centrafricana

E se tuo figlio ti chiedesse di diventare frate?

 

I frati Cappuccini in missione nella Repubblica Centrafricana

 

Una difficile missione in uno dei Paesi più complessi e destabilizzati al mondo: la Repubblica Centrafricana. E' quella che portano avanti frati Cappuccini del Centro Missioni Estere del convento di San Bernardino a Genova.



AVAMPOSTO VERSO IL CAMEROUN

 

Da 37 anni, nella diocesi di Bouar, i francescani portano aiuti e la parola di Dio a gente poverissimi e in che vive in condizioni difficile. La Repubblica Centrafricana è perennemente soffocata da guerre civili, scontri tribali, mancanza di viveri. Il Vescovo attuale è il frate Cappuccino Mons. Armando Gianni, che copre due Prefetture: Nana-Mambere ed Ouham-Pende, Per la sua posizione strategica, al confine del Cameroun e del Ciad, Bouar è, ancora oggi, sede di un importante distaccamento militare.



 

L'IMPORTANZA DELLA CHIESA

 

A parte la grande strada nazionale che collega Bouar al Cameroun, le strade sono molte deficitarie, le piste sono sovente impraticabili specie nella stagione delle piogge. La realtà locale è rappresentata principalmente dalle Parrocchie. La Diocesi di Bouar può contare su 12 parrocchie. In più ci sono due scuole di catechisti (a Bokaranga e Ngaoundaye), un Collegio Femminile e tre seminari.



 

IL CENTRO AGRICOLO

 

In questo contesto i frati sono riusciti a compiere dei veri e propri miracoli. Frate Francesco Roncallo è il responsabile del Centro agricolo di Ngaoundaye: questo centro esiste da quasi 50 anni. Un miracolo in Africa, dove tutte le iniziative di questo genere hanno breve durata. Le sue tappe: coltivazione cotone e miglio; trazione animale e scuola agricola; allevamento maiali e galline, bovini ovini; coltivazione riso e soya; vivai ed alberi da frutta.



 

CULTURA E FORMAZIONE

 

Importante è l'impegno nei centri culturali e di formazione. Al Centro culturale St. Kisito a Bouar si fanno formazione delle donne; corsi d’alfabetizzazione; sessioni di cultura generale; film e televisione satellitare; biblioteca giovani e libri scolastici per i liceali.  Responsabili sono Rappael e Beatrice e studenti di St. Laurent.



ANNESSI ALLE PARROCCHIE

 

Al Centro culturale Parrocchia Bokaranga sono biblioteca, sala lettura e studio; sessione diritti dell’uomo, films e televisione satellitare e se ne occupano Padre Cipriano e Suor Emma. Al Centro culturale Ndim parrocchia ci sono biblioteca; sessioni formazione giovani, specialmente attività manuali (tegole, agricoltura); attività sportive. Il responsabile è Padre Georges.



 

TRA SPORT E FALEGNAMERIA

 

A questi si aggiungono un centro formazione informale a Ngaounday con biblioteca, sala di lettura e studio per liceali; tv e attività sportive. E ancora un Centro giovani a Mann con sessioni di vario genere per la gioventù del settore, per i catechisti ed i vari movimenti ecclesiali. E infine il Centro artigianale di Bokaranga dove sono formati annualmente una ventina di allievi alla falegnameria. 

 


Gelsomino Del Guercio



 

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Messaggio Cristiano
Udienza Generale - Piazza San Pietro Mercoledì, 10 Settembre 2025

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. III. La Pasqua di Gesù. 6. La morte. «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37)

Cari fratelli e sorelle,
buongiorno e grazie per la vostra presenza, una bella testimonianza!

Oggi contempliamo il vertice della vita di Gesù in questo mondo: la sua morte in croce. I Vangeli attestano un particolare molto prezioso, che merita di essere contemplato con l’intelligenza della fede. Sulla croce, Gesù non muore in silenzio. Non si spegne lentamente, come una luce che si consuma, ma lascia la vita con un grido: «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37). Quel grido racchiude tutto: dolore, abbandono, fede, offerta. Non è solo la voce di un corpo che cede, ma il segno ultimo di una vita che si consegna.

Il grido di Gesù è preceduto da una domanda, una delle più laceranti che possano essere pronunciate: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È il primo verso del Salmo 22, ma sulle labbra di Gesù assume un peso unico. Il Figlio, che ha sempre vissuto in intima comunione con il Padre, sperimenta ora il silenzio, l’assenza, l’abisso. Non si tratta di una crisi di fede, ma dell’ultima tappa di un amore che si dona fino in fondo. Il grido di Gesù non è disperazione, ma sincerità, verità portata al limite, fiducia che resiste anche quando tutto tace.

In quel momento, il cielo si oscura e il velo del tempio si squarcia (cfr Mc 15,33.38). È come se il creato stesso partecipasse a quel dolore, e insieme rivelasse qualcosa di nuovo: Dio non abita più dietro un velo, il suo volto è ora pienamente visibile nel Crocifisso. È lì, in quell’uomo straziato, che si manifesta l’amore più grande. È lì che possiamo riconoscere un Dio che non resta distante, ma attraversa fino in fondo il nostro dolore.

Il centurione, un pagano, lo capisce. Non perché ha ascoltato un discorso, ma perché ha visto morire Gesù in quel modo: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). È la prima professione di fede dopo la morte di Gesù. È il frutto di un grido che non si è disperso nel vento, ma ha toccato un cuore. A volte, ciò che non riusciamo a dire a parole lo esprimiamo con la voce. Quando il cuore è pieno, grida. E questo non è sempre un segno di debolezza, può essere un atto profondo di umanità.

Noi siamo abituati a pensare al grido come a qualcosa di scomposto, da reprimere. Il Vangelo conferisce al nostro grido un valore immenso, ricordandoci che può essere invocazione, protesta, desiderio, consegna. Addirittura, può essere la forma estrema della preghiera, quando non ci restano più parole. In quel grido, Gesù ha messo tutto ciò che gli restava: tutto il suo amore, tutta la sua speranza.

Sì, perché anche questo c’è, nel gridare: una speranza che non si rassegna. Si grida quando si crede che qualcuno possa ancora ascoltare. Si grida non per disperazione, ma per desiderio. Gesù non ha gridato contro il Padre, ma verso di Lui. Anche nel silenzio, era convinto che il Padre era lì. E così ci ha mostrato che la nostra speranza può gridare, persino quando tutto sembra perduto.

Gridare diventa allora un gesto spirituale. Non è solo il primo atto della nostra nascita – quando veniamo al mondo piangendo –: è anche un modo per restare vivi. Si grida quando si soffre, ma pure quando si ama, si chiama, si invoca. Gridare è dire che ci siamo, che non vogliamo spegnerci nel silenzio, che abbiamo ancora qualcosa da offrire.

Nel viaggio della vita, ci sono momenti in cui trattenere tutto dentro può consumarci lentamente. Gesù ci insegna a non avere paura del grido, purché sia sincero, umile, orientato al Padre. Un grido non è mai inutile, se nasce dall’amore. E non è mai ignorato, se è consegnato a Dio. È una via per non cedere al cinismo, per continuare a credere che un altro mondo è possibile.

Cari fratelli e sorelle, impariamo anche questo dal Signore Gesù: impariamo il grido della speranza quando giunge l’ora della prova estrema. Non per ferire, ma per affidarci. Non per urlare contro qualcuno, ma per aprire il cuore. Se il nostro grido sarà vero, potrà essere la soglia di una nuova luce, di una nuova nascita. Come per Gesù: quando tutto sembrava finito, in realtà la salvezza stava per iniziare. Se manifestata con la fiducia e la libertà dei figli di Dio, la voce sofferta della nostra umanità, unita alla voce di Cristo, può diventare sorgente di speranza per noi e per chi ci sta accanto.

LEONE XIV