A tutto campo |
Le donne nella Bibbia
Dedicato a tutte le donne!
22/07/2015
Pena sospesa e riesame del caso: queste le disposizioni della Corte suprema del Pakistan dopo la prima sentenza del processo di appello, terzo e definitivo grado di giudizio, per il caso di Asia Bibi, la madre pakistana cristiana, condannata a morte per blasfemia in Pakistan. Nell‘udienza svoltasi questa mattina, 22 luglio, a Lahore, riferisce all‘agenzia Fides Joseph Nadeem, tutore della famiglia della donna, un collegio giudicante ha dichiarato "ammissibile" il ricorso presentato dall‘avvocato della donna, il legale musulmano Saiful Malook. Il caso sarà quindi riesaminato dalla Suprema Corte che entrerà nel merito delle questioni sollevate dalla difesa. Nel frattempo, fino alla prossima udienza, non ancora fissata, la pena di morte per Asia è stata sospesa. Presente in aula, Joseph Nadeem, a capo della "Renaissance Education Foundation", che cura le spese legali e assiste la famiglia di Asia, racconta che l‘udienza si è svolta in un clima sereno. "Quello di oggi - afferma - è un passo avanti importante. Siamo molto soddisfatti. Ora è il momento di pregare insieme il Signore di sciogliere i cuori di quanti sono coinvolti in questo caso, inclusi i giudici, e pregare perché sia fatta giustizia e Asia venga rilasciata. Preghiamo perché Asia sia sempre rafforzata dalla grazia dello Spirito Santo. E preghiamo per la sua liberazione".
Fonte: Sir
Roma, 17 Luglio 2015 (ZENIT.org)
È detenuta da oltre 2.200 giorni Asia Bibi, la donna cristiana pakistana condannata a morte per blasfemia. Sulla donna, reclusa nel carcere di Multan, nella provincia del Punjab, in attesa del pronunciamento della Corte Suprema, penderebbe una taglia equivalente a soli 80 euro per chi la uccidesse in cella o dopo l’eventuale scarcerazione. A denunciarlo, nei giorni scorsi, è stato il marito Ishaq Masih, in un’intervista ai media britannici.
Sulle condizioni attuali della madre pakistana, si è espresso anche Paul Bhatti, presidente dell’Alleanza delle minoranze religiose pakistane ed ex ministro pakistano delle Minoranze, che - in un'intervista alla Radio Vaticana - racconta le pressioni che vive la cristiana.
"Asia Bibi è una donna povera, lontana dai suoi figli … questa è la sua situazione", racconta, "anche la minaccia che lei sa che può morire in qualsiasi momento. Chiaramente, ci sono stati momenti di speranza e di delusione, perché a un certo punto, quando il suo caso è stato sentito nel Tribunale di Lahore, sembrava che forse ci fosse qualche spiraglio, che poi dopo non c’è stato più".
Asia vive attualmente in isolamento, "anche perché - spiega l'ex ministro - si teme che anche in carcere possano esserci atti di violenza come è accaduto alcuni mesi fa a Rawalpindi, quando uno dei poliziotti ha sparato a due persone che erano state accusate di blasfemia". Bhatti si dice comunque certo "che l’organizzazione del carcere e le forze dell’ordine in qualche modo abbiano un’attenzione particolare per Asia Bibi anche in funzione, probabilmente, della pressione internazionale che subisce tuttora il nostro governo".
"Noi - prosegue - stiamo seguendo il caso di Asia Bibi che però rappresenta la condizione anche di tanti altri cristiani o di altre minoranze. C’è Sawan Masih che è stato accusato dopo l’attentato di Lahore, che è ancora in prigione anche lui; ci sono tantissimi altri giovani che sono stati accusati falsamente e dei quali forse potrei dire che vivono anche peggio!". Il nostro lavoro - afferma perciò il presidente dell’Alleanza delle minoranze religiose pakistane - "è trovare una soluzione al problema per cui possiamo aiutare queste vittime innocenti e possiamo fare in modo che questo tipo di odio possa finire, in Pakistan. Su questo noi stiamo lavorando su vari fronti, con il governo attuale: con il dialogo interreligioso, con il curriculum scolastico…".
Circa il contributo che la comunità internazionale può offrire alla situazione della Bibi, Paul Bhatti chiede una maggiore attenzione al caso e un lavoro comune "per fare passi concreti in modo che questo odio, queste discriminazioni che stanno nascendo con le persecuzioni dei cristiani ma anche di altre minoranze finiscano". "Asia Bibi - aggiunge - è un caso, ma ci sono tante persone innocenti, anche giornalisti, che vengono giustiziate o uccise da persone che vogliono imporre una determinata filosofia loro – non dico neanche religiosa, nemmeno radicale: una filosofia terroristica, un’ideologia di violenza … Così, come comunità internazionale, inclusa in modo particolare la Comunità europea, si unisca e faccia dei passi concreti".
Oggi si muore ancora nel Nome santo del Signore Gesù. Sono migliaia i martiri cristiani di questi tempi, più numerosi che agli inizi del cristianesimo e, come allora, si muore per la propria fede cristiana a tutte le età e in ogni condizione. Ma anche oggi è vero quanto asseriva Tertulliano: il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani.Forse questo livido tramonto di sangue è foriero di un’alba luminosa di un cristianesimo più diffuso più vero più convinto sia nella nostra vecchia Europa sia nel nuovo mondo. Il sacrificio questi nuovi martiri ci invita ad essere anche noi nella quotidianità del nostro tempo testimoni della bellezza, della verità e della luce di Gesù Cristo e del Vangelo.
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Quattro ragazzi cristiani irakeni sono morti martiri, immolati per la loro fedeltà alla fede cristiana, mantenuta anche a costo della vita. A rivelare l’orribile storia è stato Cannon Andrew White, religioso britannico residente a Baghdad. Molti cristiani irakeni sono stati posti di fronte alla terribile alternativa tra la conversione e la morte.
I quattro bambini, tutti di età inferiore ai quindici anni, hanno risposto che avrebbero seguito Gesù fino alla morte. E per questo hanno pagato con la vita, fiduciosi che ad attenderli oltre la vita terrena c’è il volto sorridente di Dio, che li ama da sempre. Martiri di Cristo, pregate per noi, così deboli nella fede; intercedete per noi perchè non soccombiamo alle insinuazioni de male che ci vogliono allontanare dalla verità evangelica e dalla Chiesa.
Sr.Teresa
Tre monaci e un pugno di studenti – una mezza dozzina – continuano a vivere in uno dei più antichi monasteri del mondo, quello di San Matteo, collocato in uno dei luoghi – attualmente – più pericolosi del mondo: la piana di Ninive, in Iraq, nella zona nord del Paese, teatro dell’invasione da parte dei terroristi dello Stato Islamico. E in effetti la posizione di San Matteo è veramente precaria: si trova a pochi chilometri dalla linea del fronte che oppone l’Isis alle forze dei peshmerga curdi, ed è costantemente esposto al pericolo di una scorreria o di un attacco devastante. Nel 2014, quando ad agosto i fondamentalisti dilagarono in Iraq, conquistando Mosul e una larga parte del territorio della piana di Ninive, vicino al monte Alfalf, culla secolare della cristianità irachena, molti monaci e abitanti del vicino villaggio si unirono alle centinaia di migliaia che con ogni mezzo cercarono scampo e rifugio nelle zone ancora libere. Ma non tutti.
«Possiamo vedere le battaglie, e le incursioni aeree davanti a noi, da qui – racconta uno dei monaci, Yousif Ibrahim – specialmente di notte. Il cielo si illumina di notte. Ma sicuramente non abbiamo paura. Dio ci protegge». La protezione terrena è offerta dal militari curdi, i peshmerga, che rappresentano il sottile schermo che divide il Monastero, e quei pochi civili rimasti, dal cadere nelle mani dell’Isis. Ibrahim e i suoi confratelli hanno fatto voto di restare lì fino a quando l’ultimo cristiano non avrà abbandonato l’Iraq. Allora prenderanno in considerazione l’idea di partire per l’esilio. «Il pastore non può abbandonare il suo gregge», ha dichiarato a un intervistatore televisivo del programma televisivo statunitense «60 Minutes».
La tranquillità di spirito di Ibrahim è condivisa dai sei allievi del Monastero che hanno scelto di condividere la sorte dei monaci, e di restare. «Non abbiamo paura – ha dichiarato uno di essi, Sahr Karaikos – perché i nostri insegnanti ci danno una sensazione di pace, qui; ma sappiamo che siamo sulla linea del fronte, e lo Stato Islamico potrebbe essere qui in pochi secondi. E non voglio neanche pensare o parlare della distruzione che lo Stato Islamico potrebbe causare, se prendessero il nostro monastero. Loro non sanno che cosa è la storia, vogliono distruggere la storia». San Matteo è aggrappato ai fianchi di una montagna punteggiata da caverne; ed è stato un luogo di rifugio per i cristiani sin dal IV secolo d.C.. Mosul è a soli venti chilometri, e lo scorso anno i cortili e le stanze dei monaci hanno ospitato centinaia di persone fuggite da Mosul; la prima tappa di un esodo che ancora non è terminato. Il Monastero fu fondato nel 363 da un eremita, Mar Mattai (Matteo) che era sfuggito alla persecuzione di Giuliano l’Apostata. Sul monte Alfalf, dove stabilì la sua dimora, fu raggiunto da un gruppo di discepoli siriaci. Il monastero è ancora retto dalla Chiesa siriaca. Le liturgie al monastero di San Matteo si svolgono in aramaico, la lingua che Gesù parlava.
Il monastero di San Matteo nella piana di Ninive era famoso per la sua biblioteca. Nel corso dei secoli (e in particolare dopo un attacco nel XII secolo da parte di tribù curde) una parte dei suoi tesori letterari è stata trasferita a Mosul. E negli ultimi mesi molte reliquie e libri ospitati nel Monastero, alcuni dei quali risalgono ai primi secoli del cristianesimo, sono stati trasferiti al sicuro, a nord, nelle zone controllate dai curdi. La stessa sorte è toccata alle ossa di Mar Mattai, nel timore che un’eventuale conquista da parte dei terroristi dell’Isis potesse condurre alla loro distruzione. «San Matteo è arrivato qui perché stava fuggendo una persecuzione, ma la persecuzione ci segue. Non possiamo sfuggirla, dobbiamo essere fermi di fronte alla nostra storia. Se le persone non hanno conoscenza del loro passato, non avranno un futuro perché non sapranno quali sono le loro origini, da dove vengono». Il monastero di San Matteo fino a oggi è sopravvissuto agli imperi Ottomano e Persiano, agli invasori mongoli e alla conquista curda. Sopravvivrà anche all’Isis? I terroristi rifiutano di vivere con chi non è musulmano, e cercano di estirpare le radici del cristianesimo dal territorio. Nicodemus Sharaf, arcivescovo della Chiesa siriaca di Mosul, ora controllata dall’Isis, ha dichiarato: «Ci prendono tutto, ma non possono togliere Dio dai nostri cuori, quello non possono farlo». (Vatican Insider)
Roma, 14 Maggio 2015 (ZENIT.org)
Ha tuonato come una bomba il discorso che suor Diana Momeka, religiosa domenicana irachena a Mosul, ha rivolto ieri al Parlamento statunitense riunito a Washington. Con coraggio e umiltà, testimone degli orrori vissuti nel suo paese ma anche della speranza del suo popolo, la suora - a cui le autorità Usa avevano rifiutato in un primo momento il visto, come riferito dall'agenzia Asia News - ha denunciato il “genocidio umano e culturale” che subiscono i cristiani in Iraq ormai da circa un anno. Ovvero da quel maledetto giugno 2014, in cui un gruppo sconosciuto di terroristi, in seguito autoproclamatosi Stato Islamico in Iraq e in Siria (Isis), ha invaso la piana di Ninive, trascinando “l’intera regione sull’orlo di una terribile catastrofe”.
Catastrofe che suor Diana ha vissuto in prima persona, vedendosi passare davanti agli occhi in questi mesi scene di inaudita barbarie: uomini, donne, bambini "sradicati e cacciati a forza", costretti a lasciare le proprie abitazioni "con nient’altro che i propri vestiti"; edifici demoliti, chiese depredate e bombardate, reperti archeologici e luoghi sacri, patrimonio dell'umanità, ridotti ad un cumulo di macerie.
"La persecuzione che la nostra comunità si trova oggi a fronteggiare è la più brutale della nostra storia", ha affermato la domenicana, sottolineando che "piano dello Stato islamico è di svuotare la terra dai cristiani e ripulire il terreno di ogni minima prova che testimoni la nostra esistenza nel passato".
Un genocidio, appunto. Non meno cruento di quelli che la storia annovera tristemente e che continua a svolgersi ogni giorno, sotto gli occhi di tutti, ormai da un anno. Mancano infatti poche settimane all''anniversario' dell'assalto dell'Isis alla città di Mosul, dopo la quale i jihadisti si sono impadroniti "di una città dopo l'altra", mettendo la popolazione cristiana della regione "davanti a tre alternative: convertirsi all’islam; pagare un tributo (jizya) allo Stato islamico; abbandonare le città".
Da giugno in avanti, ha affermato la suora, "più di 120mila persone si sono ritrovate sfollate e senza casa nella regione del Kurdistan irakeno, lasciandosi alle proprie spalle il loro patrimonio e tutto ciò per cui avevano lavorato nel corso dei secoli. Questo sradicamento, la depredazione di ogni bene appartenuto sino ad allora ai cristiani, li ha resi profughi nel corpo e nell’anima, strappando via la loro umanità e la loro dignità".
"Non solo siamo stati derubati delle nostre case, proprietà e terre, ma è stato distrutto anche il nostro patrimonio", ha proseguito, ricordando 'crimini' come la distruzione di preziose aree archeologiche, anche di carattere sacro, come Mar Behnam e Sara, un monastero del IV secolo, o l'antichissimo monastero di San Giorgio a Mosul.
Tutto questo la domenicana lo ha definito semplicemente "una situazione grave". Ma grave è dir poco se si pensa che, attualmente, "i soli cristiani rimasti nella piana di Ninive sono quelli che sono stati trattenuti come ostaggi".
In mezzo a questi drammi, non manca però "la speranza", ha affermato suor Diana. "Grazie a Dio" e grazie anche alla Chiesa che "nella regione del Kurdistan si è fatta avanti e ha curato in prima persona i cristiani sfollati, facendo davvero del proprio meglio per far fronte al disastro". "Gli edifici appartenenti alla Chiesa - ha raccontato Momeka - sono stati aperti e messi a disposizione per fornire un riparo agli sfollati; hanno fornito loro cibo e altri generi di prima necessità, per far fronte ai bisogni immediati della gente; hanno anche fornito assistenza sanitaria gratuita".
Inoltre, "la Chiesa ha lanciato appelli cui hanno risposto molte organizzazioni umanitarie, le quali hanno fornito aiuti alle migliaia di persone in situazione di estremo bisogno. Oggi - ha detto la religiosa - siamo grati per tutto ciò che è stato fatto, con la maggior parte delle persone che hanno trovato un riparo in piccoli container prefabbricati o in alcune case".
Ma il lavoro da compiere è ancora tanto. La suora irachena si è rivolta pertanto alla comunità internazionale e al governo degli Stati Uniti, elencando una serie di iniziative da adottare "con la massima urgenza" affinché si possa "ripristinare, riparare e ricostruire la comunità cristiana in Iraq" . Anzitutto, ha detto, bisogna "liberare le nostre case dalla presenza del sedicente Stato islamico e favorire il nostro rientro"; poi deve essere promosso "uno sforzo comune e coordinato per ricostruire ciò che è stato distrutto - strade, acqua, forniture elettriche, ivi compresi i nostri monasteri e le nostre chiese". Infine bisogna "incoraggiare le imprese per contribuire alla ricostruzione dell’Iraq e del dialogo interreligioso".
Tutto questo, secondo suor Momeka, "può essere fatto attraverso le scuole, le accademie e progetti pedagogici ed educativi mirati". L'importante, ha concluso, è che tutti abbiano davvero a cuore che “la diplomazia e non il genocidio", e "il bene comune e non le armi”, dovranno determinare “il futuro dell’Iraq e di tutti i suoi figli”.
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Abuna Toufic dice che non vuole andare al nord, che è pericoloso, che sarebbe meglio continuare a ragionare sulle cose da fare qui a Beirut. Angiolo insiste e alla fine, come al solito, la spunta. Domani mattina andremo fino al convento delle suore francescane di Menjez, con o senza Abuna Toufic. Il frate ride, divertito e meravigliato da tanta determinazione e chiama le suore al telefono che si preparano ad accoglierci contente. Questo è proprio l’obiettivo di Angiolo: fare contente le suore. Addirittura troviamo un altro frate, il simpatico Abuna Jerzy Kray, vicario patriarcale a Cipro che decide di aggregarsi a noi per rendere, anche lui, omaggio a quelle suore coraggiose.
Menjez è un villaggio cristiano del nord, posto sulla linea di confine tra il Libano e la Siria a pochi chilometri di distanza da Homs. La zona è pericolosa, gli scontri sono frequenti; lungo la strada si trovano diversi campi profughi siriani. La guerra civile infuria ancora in Siria, cui si aggiunge il pericolo di rapimenti da parte dell’ISIS, o Daesh come dicono da queste parti, con conseguenze tristemente conosciute anche in occidente.
In questa situazione difficile ci sono quattro suore francescane che svolgono la loro missione pastorale a favore della popolazione locale. Gestiscono una scuola per diversamente abili e per ragazzi con problemi psichici e comportamentali e mandano avanti un convento dalle cui finestre si vedono chiaramente i villaggi siriani aldilà del wadi che segna il confine.
Il nucleo delle suore è composito: due sono cipriote, tra cui la madre superiora Suor Beatrice, una è italiana ed una è filippina. La presenza delle suore francescane in questo luogo sperduto risale al 1988. Da allora hanno costruito un convento molto grande e una bella scuola. Il convento, mi dice suor Beatrice, era stato costruito per accogliere le «vocazioni» della zona ma poi le vicende politiche e la recente guerra in Siria hanno bloccato tutto. Negli ultimi anni sono rimaste pressoché isolate, hanno avuto poche visite, quindi ci accolgono ancora più volentieri.
Il loro messaggio evangelico è importante per la gente del villaggio di Menjez ma anche per i villaggi vicini da cui provengono molti degli studenti. La scuola accoglie circa 270 ragazzi di cui almeno una sessantina con problemi di ritardo cognitivo e comportamentale.
Passata la città di Tripoli si incontrano i campi tendati dei profughi che sono stati installati abbastanza lontano dal confine, in territorio libanese. Da questi campi escono spesso bande di guerriglieri che, oltre a combattere il proprio nemico, creano grossi problemi sociali e di convivenza alla popolazione autoctona libanese.
Arriviamo al confine, superiamo la barriera della polizia libanese e percorriamo la «terra di nessuno»; pochi metri prima di affrontare la polizia siriana c’è un bivio e si gira a destra salendo verso Menjez. Abuna Toufic si ferma a parlare con un uomo e poi, riparte velocemente con la macchina e ci dice: volete sapere che cosa mi ha detto quell’uomo? Andate a Menjez per la strada nuova? Allora fate in fretta perché sparano!!!!
Con questo viatico poco rassicurante affrontiamo la strada in salita a velocità sostenuta. A un certo punto vediamo uscire dal lato della strada alcuni uomini armati ma con incredulità mi accorgo che sono cacciatori. Sì cacciatori, vestiti in tuta mimetica ma con il fucile da caccia e il carniere pieno di uccelli. È proprio buffo il mondo, in questo posto sperduto, afflitto dalla guerra, pericoloso, troviamo gente che viene a sparare per divertimento agli uccelli migratori. E lo fanno attraversando terreni pericolosi e case abbandonate crivellate dai colpi dell’artiglieria siriana.
È proprio vero che alle passioni non si comanda ma venire a caccia proprio qui mi sembra una follia.
Menjez è un villaggio di 1500 persone esclusivamente cristiano – maronita. Nel 1975, a seguito della difficile situazione politica libanese e delle persecuzioni nei confronti dei maroniti, tutti abbandonarono il villaggio e si trasferirono in Siria, aldilà del wadi. Il villaggio è stato bruciato durante la guerra civile libanese, come molti altri villaggi cristiani della zona. Poi, piano piano, sono ritornati ma non tutti. In Siria, fino a pochi anni fa, la condizione socio – economica dei cristiani era migliore e alcune famiglie sono rimaste di là e adesso sono nei guai.
Le suore sono felici della nostra visita e hanno preparato un pranzo «natalizio» per festeggiarci. Ovviamente ci raccontano la situazione e apprezzo davvero la loro lucidità e la loro forza nel portare avanti la propria missione nonostante la situazione e i numerosi appelli ad andarsene. Suor Annabelle mi dice che hanno la valigia pronta con il necessario nel caso in cui arrivassero i guerriglieri dell’ISIS. La paura è forte nella popolazione perché ISIS sembra che voglia espandersi verso occidente per arrivare fino al mare mediterraneo. Infatti dicono che ISIS, se arriverà, verrà fuori dal Wadi Khaled.
Il confine non è segnato e, soprattutto, non è sorvegliato per cui c’è stato un periodo, fino a due mesi fa mi dice suor Martina, in cui dalla Siria la gente scappava verso il Libano attraversando il wadi mentre dall’altra parte sparavano. Il convento si trova proprio sul ciglio del wadi, fuori dal villaggio, e quindi le suore si sono viste sparare addosso per diverse volte.
Suor Annabelle mi dice che è riuscita a sopportare questa situazione grazie alla preghiera.
Aldilà del magistero pastorale ed educativo la presenza di queste suore in questo luogo e in questo momento rappresenta un forte elemento di conforto e di fiducia per la popolazione locale che vede nella scuola e nel convento un attestato di considerazione, di aiuto e di vicinanza molto importante.
E Suor Beatrice non si ferma mai, nonostante qualche problema a una gamba. È stata recentemente operata ma è voluta tornare dalle sorelle a Menjez per tenere sotto controllo la scuola e gestire il convento.
Insieme a Padre Jerzy visitiamo la scuola. Le suore ci dicono che hanno bisogno di espandere le aule perché stanno arrivando sempre più bambini dai vari villaggi della zona dove le scuole sono chiuse a causa della guerra. La Fondazione ha deciso di aiutare queste suore sostenendo l’acquisto di alcune casette prefabbricate da adibire ad aule e da installare nell’ampio resede della scuola. Si tratta di casette prefabbricate che si trovano a Tripoli, nel piazzale del convento francescano, al momento chiuso, che visitiamo al rientro verso Beirut.
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