A tutto campo


Le donne nella Bibbia

Dedicato a tutte le donne!

 

Non mollare MAI.... ! 

 

Sii "audace" come  Ester, e coraggiosa abbastanza, per schierarti a difesa della verità, non temere di dire la tua opinione, lotta per il bene davanti all'opinione pubblica anche a costo di sacrificare te stessa. Se Dio ti ha portato in una posizione è per uno scopo. Non avere paura a prestare attenzione alla voce interiore. Sii come Rut, leale in tutte le tue relazioni, fai un miglio in più e non tornare indietro quando incontri difficoltà. Un giorno vedrai perché ne è valsa la pena.


Sii come  Lidia, lascia aperta la tua casa, lascia che le tue mani siano generose, lascia che il tuo cuore sia grande abbastanza per aiutare chiunque sia in difficoltà. La gioia è più grande se condivisa.  Sii come Hanna, non smettere mai di pregare. Non sarà mai inutile.      


Sii come Maria ,  umile e sottomessa. Non devi essere orgogliosa che Dio ti sta utilizzando, tu devi solo obbedire.  Sii come Dorcas, usa i tuoi talenti, per quanto piccoli sembrano, anche per portare un semplice sorriso sul volto di qualcuno. Non saprai mai quanto importante quel sorriso potrà essere stato. Sii come Abigail , ricordati come ogni decisione possa trasformare la tua vita intorno a te per il bene o per il male. Sii saggia.    
Sii come Elisabetta, non importa ciò che Dio fa, é Dio dei miracoli.    

          
Sii come Maria Maddalena, non lasciare che i tuoi errori e giudizi di altre persone ti impediscano di sperimentare la gioia di Dio.             
Sii come Rebecca, non dimenticare mai, che la vera bellezza è nella tua personalità. Attira tutte le persone che tu ami vicino a Dio attraverso il tuo carattere cristiano.
E infine: Sii come Sara, l'età non è importante, solo la fiducia e la fede che tutte le cose sono possibile con Dio secondo i suoi tempi. 

 

Condividi questo messaggio con le  amiche della tua vita, per incoraggiarle ad essere forti!

 

 

Asia Bibi, sospesa la pena

Pena sospesa e riesame del caso: queste le disposizioni della Corte suprema del Pakistan dopo la prima sentenza del processo di appello, terzo e definitivo grado di giudizio, per il caso di Asia Bibi, la madre pakistana cristiana, condannata a morte per blasfemia in Pakistan. Nell‘udienza svoltasi questa mattina, 22 luglio, a Lahore, riferisce all‘agenzia Fides Joseph Nadeem, tutore della famiglia della donna, un collegio giudicante ha dichiarato "ammissibile" il ricorso presentato dall‘avvocato della donna, il legale musulmano Saiful Malook. Il caso sarà quindi riesaminato dalla Suprema Corte che entrerà nel merito delle questioni sollevate dalla difesa. Nel frattempo, fino alla prossima udienza, non ancora fissata, la pena di morte per Asia è stata sospesa. Presente in aula, Joseph Nadeem, a capo della "Renaissance Education Foundation", che cura le spese legali e assiste la famiglia di Asia, racconta che l‘udienza si è svolta in un clima sereno. "Quello di oggi - afferma - è un passo avanti importante. Siamo molto soddisfatti. Ora è il momento di pregare insieme il Signore di sciogliere i cuori di quanti sono coinvolti in questo caso, inclusi i giudici, e pregare perché sia fatta giustizia e Asia venga rilasciata. Preghiamo perché Asia sia sempre rafforzata dalla grazia dello Spirito Santo. E preghiamo per la sua liberazione". 

 

Fonte: Sir

 

 

Roma, 17 Luglio 2015 (ZENIT.org)

 

È detenuta da oltre 2.200 giorni Asia Bibi, la donna cristiana pakistana condannata a morte per blasfemia. Sulla donna, reclusa nel carcere di Multan, nella provincia del Punjab, in attesa del pronunciamento della Corte Suprema, penderebbe una taglia equivalente a soli 80 euro per chi la uccidesse in cella o dopo l’eventuale scarcerazione. A denunciarlo, nei giorni scorsi, è stato il marito Ishaq Masih, in un’intervista ai media britannici.

 

Sulle condizioni attuali della madre pakistana, si è espresso anche Paul Bhatti, presidente dell’Alleanza delle minoranze religiose pakistane ed ex ministro pakistano delle Minoranze, che - in un'intervista alla Radio Vaticana - racconta le pressioni che vive la cristiana. 

 

"Asia Bibi è una donna povera, lontana dai suoi figli … questa è la sua situazione", racconta, "anche la minaccia che lei sa che può morire in qualsiasi momento. Chiaramente, ci sono stati momenti di speranza e di delusione, perché a un certo punto, quando il suo caso è stato sentito nel Tribunale di Lahore, sembrava che forse ci fosse qualche spiraglio, che poi dopo non c’è stato più".

 

Asia vive attualmente in isolamento, "anche perché - spiega l'ex ministro - si teme che anche in carcere possano esserci atti di violenza come è accaduto alcuni mesi fa a Rawalpindi, quando uno dei poliziotti ha sparato a due persone che erano state accusate di blasfemia". Bhatti si dice comunque certo "che l’organizzazione del carcere e le forze dell’ordine in qualche modo abbiano un’attenzione particolare per Asia Bibi anche in funzione, probabilmente, della pressione internazionale che subisce tuttora il nostro governo".

 

"Noi - prosegue - stiamo seguendo il caso di Asia Bibi che però rappresenta la condizione anche di tanti altri cristiani o di altre minoranze. C’è Sawan Masih che è stato accusato dopo l’attentato di Lahore, che è ancora in prigione anche lui; ci sono tantissimi altri giovani che sono stati accusati falsamente e dei quali forse potrei dire che vivono anche peggio!". Il nostro lavoro - afferma perciò il presidente dell’Alleanza delle minoranze religiose pakistane - "è trovare una soluzione al problema per cui possiamo aiutare queste vittime innocenti e possiamo fare in modo che questo tipo di odio possa finire, in Pakistan. Su questo noi stiamo lavorando su vari fronti, con il governo attuale: con il dialogo interreligioso, con il curriculum scolastico…".

 

Circa il contributo che la comunità internazionale può offrire alla situazione della Bibi, Paul Bhatti chiede una maggiore attenzione al caso e un lavoro comune "per fare passi concreti in modo che questo odio, queste discriminazioni che stanno nascendo con le persecuzioni dei cristiani ma anche di altre minoranze finiscano". "Asia Bibi - aggiunge - è un caso, ma ci sono tante persone innocenti, anche giornalisti, che vengono giustiziate o uccise da persone che vogliono imporre una determinata filosofia loro – non dico neanche religiosa, nemmeno radicale: una filosofia terroristica, un’ideologia di violenza … Così, come comunità internazionale, inclusa in modo particolare la Comunità europea, si unisca e faccia dei passi concreti".

 

Oggi si muore ancora nel Nome santo del Signore Gesù. Sono migliaia i martiri cristiani di questi tempi, più numerosi che agli inizi del cristianesimo e, come allora, si muore per la propria fede cristiana a tutte le età e in ogni condizione. Ma anche oggi è vero quanto asseriva Tertulliano: il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani.Forse questo livido tramonto di sangue è foriero di un’alba luminosa di un cristianesimo più diffuso più vero più convinto sia nella nostra vecchia Europa sia nel nuovo mondo. Il sacrificio   questi nuovi martiri ci invita ad essere anche noi nella quotidianità del nostro tempo testimoni della bellezza, della verità e della luce di Gesù Cristo e del Vangelo.

 

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Quattro ragazzi cristiani irakeni sono morti martiri, immolati per la loro fedeltà alla fede cristiana, mantenuta anche a costo della vita. A rivelare l’orribile storia è stato Cannon Andrew White, religioso britannico residente a Baghdad. Molti cristiani irakeni sono stati posti di fronte alla terribile alternativa tra la conversione e la morte.

 

I quattro bambini, tutti di età inferiore ai quindici anni, hanno risposto   che avrebbero seguito Gesù  fino alla morte. E per questo hanno pagato con la vita, fiduciosi che ad attenderli oltre la vita terrena c’è il volto sorridente di Dio, che li ama da sempre.  Martiri di Cristo, pregate per noi, così deboli nella fede;  intercedete per noi  perchè non soccombiamo alle insinuazioni de male che ci vogliono allontanare dalla verità evangelica e dalla Chiesa.

 

Sr.Teresa

 

 

Tre monaci e un pugno di studenti – una mezza dozzina – continuano a vivere in uno dei più antichi monasteri del mondo, quello di San Matteo, collocato in uno dei luoghi – attualmente – più pericolosi del mondo: la piana di Ninive, in Iraq, nella zona nord del Paese, teatro dell’invasione da parte dei terroristi dello Stato Islamico. E in effetti la posizione di San Matteo è veramente precaria: si trova a pochi chilometri dalla linea del fronte che oppone l’Isis alle forze dei peshmerga curdi, ed è costantemente esposto al pericolo di una scorreria o di un attacco devastante. Nel 2014, quando ad agosto i fondamentalisti dilagarono in Iraq, conquistando Mosul e una larga parte del territorio della piana di Ninive, vicino al monte Alfalf, culla secolare della cristianità irachena, molti monaci e abitanti del vicino villaggio si unirono alle centinaia di migliaia che con ogni mezzo cercarono scampo e rifugio nelle zone ancora libere. Ma non tutti.
 

«Possiamo vedere le battaglie, e le incursioni aeree davanti a noi, da qui – racconta uno dei monaci, Yousif Ibrahim – specialmente di notte. Il cielo si illumina di notte. Ma sicuramente non abbiamo paura. Dio ci protegge». La protezione terrena è offerta dal militari curdi, i peshmerga, che rappresentano il sottile schermo che divide il Monastero, e quei pochi civili rimasti, dal cadere nelle mani dell’Isis. Ibrahim e i suoi confratelli hanno fatto voto di restare lì fino a quando l’ultimo cristiano non avrà abbandonato l’Iraq. Allora prenderanno in considerazione l’idea di partire per l’esilio. «Il pastore non può abbandonare il suo gregge», ha dichiarato a un intervistatore televisivo del programma televisivo statunitense «60 Minutes».
 

La tranquillità di spirito di Ibrahim è condivisa dai sei allievi del Monastero che hanno scelto di condividere la sorte dei monaci, e di restare. «Non abbiamo paura – ha dichiarato uno di essi, Sahr Karaikos – perché i nostri insegnanti ci danno una sensazione di pace, qui; ma sappiamo che siamo sulla linea del fronte, e lo Stato Islamico potrebbe essere qui in pochi secondi. E non voglio neanche pensare o parlare della distruzione che lo Stato Islamico potrebbe causare, se prendessero il nostro monastero. Loro non sanno che cosa è la storia, vogliono distruggere la storia». San Matteo è aggrappato ai fianchi di una montagna punteggiata da caverne; ed è stato un luogo di rifugio per i cristiani sin dal IV secolo d.C.. Mosul è a soli venti chilometri, e lo scorso anno i cortili e le stanze dei monaci hanno ospitato centinaia di persone fuggite da Mosul; la prima tappa di un esodo che ancora non è terminato. Il Monastero fu fondato nel 363 da un eremita, Mar Mattai (Matteo) che era sfuggito alla persecuzione di Giuliano l’Apostata. Sul monte Alfalf, dove stabilì la sua dimora, fu raggiunto da un gruppo di discepoli siriaci. Il monastero è ancora retto dalla Chiesa siriaca. Le liturgie al monastero di San Matteo si svolgono in aramaico, la lingua che Gesù parlava.
 

Il monastero di San Matteo nella piana di Ninive era famoso per la sua biblioteca. Nel corso dei secoli (e in particolare dopo un attacco nel XII secolo da parte di tribù curde) una parte dei suoi tesori letterari è stata trasferita a Mosul. E negli ultimi mesi molte reliquie e libri ospitati nel Monastero, alcuni dei quali risalgono ai primi secoli del cristianesimo, sono stati trasferiti al sicuro, a nord, nelle zone controllate dai curdi. La stessa sorte è toccata alle ossa di Mar Mattai, nel timore che un’eventuale conquista da parte dei terroristi dell’Isis potesse condurre alla loro distruzione. «San Matteo è arrivato qui perché stava fuggendo una persecuzione, ma la persecuzione ci segue. Non possiamo sfuggirla, dobbiamo essere fermi di fronte alla nostra storia. Se le persone non hanno conoscenza del loro passato, non avranno un futuro perché non sapranno quali sono le loro origini, da dove vengono». Il monastero di San Matteo fino a oggi è sopravvissuto agli imperi Ottomano e Persiano, agli invasori mongoli e alla conquista curda. Sopravvivrà anche all’Isis? I terroristi rifiutano di vivere con chi non è musulmano, e cercano di estirpare le radici del cristianesimo dal territorio. Nicodemus Sharaf, arcivescovo della Chiesa siriaca di Mosul, ora controllata dall’Isis, ha dichiarato: «Ci prendono tutto, ma non possono togliere Dio dai nostri cuori, quello non possono farlo». (Vatican Insider)

 

 

 

Roma, 14 Maggio 2015 (ZENIT.org)

 

Ha tuonato come una bomba il discorso che suor Diana Momeka, religiosa domenicana irachena a Mosul, ha rivolto ieri al Parlamento statunitense riunito a Washington. Con coraggio e umiltà, testimone degli orrori vissuti nel suo paese ma anche della speranza del suo popolo, la suora - a cui le autorità Usa avevano rifiutato in un primo momento il visto, come riferito dall'agenzia Asia News - ha denunciato il “genocidio umano e culturale” che subiscono i cristiani in Iraq ormai da circa un anno. Ovvero da quel maledetto giugno 2014, in cui un gruppo sconosciuto di terroristi, in seguito autoproclamatosi Stato Islamico in Iraq e in Siria (Isis), ha invaso la piana di Ninive, trascinando “l’intera regione sull’orlo di una terribile catastrofe”. 

 

Catastrofe che suor Diana ha vissuto in prima persona, vedendosi passare davanti agli occhi in questi mesi scene di inaudita barbarie: uomini, donne, bambini "sradicati e cacciati a forza", costretti a lasciare le proprie abitazioni "con nient’altro che i propri vestiti"; edifici demoliti, chiese depredate e bombardate, reperti archeologici e luoghi sacri, patrimonio dell'umanità, ridotti ad un cumulo di macerie. 

 

"La persecuzione che la nostra comunità si trova oggi a fronteggiare è la più brutale della nostra storia", ha affermato la domenicana, sottolineando che "piano dello Stato islamico è di svuotare la terra dai cristiani e ripulire il terreno di ogni minima prova che testimoni la nostra esistenza nel passato".

 

Un genocidio, appunto. Non meno cruento di quelli che la storia annovera tristemente e che continua a svolgersi ogni giorno, sotto gli occhi di tutti, ormai da un anno. Mancano infatti poche settimane all''anniversario' dell'assalto dell'Isis alla città di Mosul, dopo la quale i jihadisti si sono impadroniti "di una città dopo l'altra", mettendo la popolazione cristiana della regione "davanti a tre alternative: convertirsi all’islam; pagare un tributo (jizya) allo Stato islamico; abbandonare le città". 

 

Da giugno in avanti, ha affermato la suora, "più di 120mila persone si sono ritrovate sfollate e senza casa nella regione del Kurdistan irakeno, lasciandosi alle proprie spalle il loro patrimonio e tutto ciò per cui avevano lavorato nel corso dei secoli. Questo sradicamento, la depredazione di ogni bene appartenuto sino ad allora ai cristiani, li ha resi profughi nel corpo e nell’anima, strappando via la loro umanità e la loro dignità". 

 

"Non solo siamo stati derubati delle nostre case, proprietà e terre, ma è stato distrutto anche il nostro patrimonio", ha proseguito, ricordando 'crimini' come la distruzione di preziose aree archeologiche, anche di carattere sacro, come Mar Behnam e Sara, un monastero del IV secolo, o l'antichissimo monastero di San Giorgio a Mosul. 

 

Tutto questo la domenicana lo ha definito semplicemente "una situazione grave". Ma grave è dir poco se si pensa che, attualmente, "i soli cristiani rimasti nella piana di Ninive sono quelli che sono stati trattenuti come ostaggi".

 

In mezzo a questi drammi, non manca però "la speranza", ha affermato suor Diana. "Grazie a Dio" e grazie anche alla Chiesa che "nella regione del Kurdistan si è fatta avanti e ha curato in prima persona i cristiani sfollati, facendo davvero del proprio meglio per far fronte al disastro". "Gli edifici appartenenti alla Chiesa - ha raccontato Momeka - sono stati aperti e messi a disposizione per fornire un riparo agli sfollati; hanno fornito loro cibo e altri generi di prima necessità, per far fronte ai bisogni immediati della gente; hanno anche fornito assistenza sanitaria gratuita".

 

Inoltre, "la Chiesa ha lanciato appelli cui hanno risposto molte organizzazioni umanitarie, le quali hanno fornito aiuti alle migliaia di persone in situazione di estremo bisogno. Oggi - ha detto la religiosa - siamo grati per tutto ciò che è stato fatto, con la maggior parte delle persone che hanno trovato un riparo in piccoli container prefabbricati o in alcune case". 

 

Ma il lavoro da compiere è ancora tanto. La suora irachena si è rivolta pertanto alla comunità internazionale e al governo degli Stati Uniti, elencando una serie di iniziative da adottare "con la massima urgenza" affinché si possa "ripristinare, riparare e ricostruire la comunità cristiana in Iraq" . Anzitutto, ha detto, bisogna "liberare le nostre case dalla presenza del sedicente Stato islamico e favorire il nostro rientro"; poi deve essere promosso "uno sforzo comune e coordinato per ricostruire ciò che è stato distrutto - strade, acqua, forniture elettriche, ivi compresi i nostri monasteri e le nostre chiese". Infine bisogna "incoraggiare le imprese per contribuire alla ricostruzione dell’Iraq e del dialogo interreligioso".
 
 
Tutto questo, secondo suor Momeka, "può essere fatto attraverso le scuole, le accademie e progetti pedagogici ed educativi mirati".  L'importante, ha concluso, è che tutti abbiano davvero a cuore che “la diplomazia e non il genocidio", e "il bene comune e non le armi”, dovranno determinare “il futuro dell’Iraq e di tutti i suoi figli”.

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Abuna Toufic dice che non vuole andare al nord, che è pericoloso, che sarebbe meglio continuare a ragionare sulle cose da fare qui a Beirut. Angiolo insiste e alla fine, come al solito, la spunta. Domani mattina andremo fino al convento delle suore francescane di Menjez, con o senza Abuna Toufic. Il frate ride, divertito e meravigliato da tanta determinazione e chiama le suore al telefono che si preparano ad accoglierci contente. Questo è proprio l’obiettivo di Angiolo: fare contente le suore. Addirittura troviamo un altro frate, il simpatico Abuna Jerzy Kray, vicario patriarcale a Cipro che decide di aggregarsi a noi per rendere, anche lui, omaggio a quelle suore coraggiose.

 

Menjez è un villaggio cristiano del nord, posto sulla linea di confine tra il Libano e la Siria a pochi chilometri di distanza da Homs. La zona è pericolosa, gli scontri sono frequenti; lungo la strada si trovano diversi campi profughi siriani. La guerra civile infuria ancora in Siria, cui si aggiunge il pericolo di rapimenti da parte dell’ISIS, o Daesh come dicono da queste parti, con conseguenze tristemente conosciute anche in occidente.

 

In questa situazione difficile ci sono quattro suore francescane che svolgono la loro missione pastorale a favore della popolazione locale. Gestiscono una scuola per diversamente abili e per ragazzi con problemi psichici e comportamentali e mandano avanti un convento dalle cui finestre si vedono chiaramente i villaggi siriani aldilà del wadi che segna il confine.

 

Il nucleo delle suore è composito: due sono cipriote, tra cui la madre superiora Suor Beatrice, una è italiana ed una è filippina. La presenza delle suore francescane in questo luogo sperduto risale al 1988. Da allora hanno costruito un convento molto grande e una bella scuola. Il convento, mi dice suor Beatrice, era stato costruito per accogliere le «vocazioni» della zona ma poi le vicende politiche e la recente guerra in Siria hanno bloccato tutto. Negli ultimi anni sono rimaste pressoché isolate, hanno avuto poche visite, quindi ci accolgono ancora più volentieri.

 

Il loro messaggio evangelico è importante per la gente del villaggio di Menjez ma anche per i villaggi vicini da cui provengono molti degli studenti. La scuola accoglie circa 270 ragazzi di cui almeno una sessantina con problemi di ritardo cognitivo e comportamentale.

 

Passata la città di Tripoli si incontrano i campi tendati dei profughi che sono stati installati abbastanza lontano dal confine, in territorio libanese. Da questi campi escono spesso bande di guerriglieri che, oltre a combattere il proprio nemico, creano grossi problemi sociali e di convivenza alla popolazione autoctona libanese.

 

Arriviamo al confine, superiamo la barriera della polizia libanese e percorriamo la «terra di nessuno»; pochi metri prima di affrontare la polizia siriana c’è un bivio e si gira a destra salendo verso Menjez. Abuna Toufic si ferma a parlare con un uomo e poi, riparte velocemente con la macchina e ci dice: volete sapere che cosa mi ha detto quell’uomo? Andate a Menjez per la strada nuova? Allora fate in fretta perché sparano!!!!

 

Con questo viatico poco rassicurante affrontiamo la strada in salita a velocità sostenuta. A un certo punto vediamo uscire dal lato della strada alcuni uomini armati ma con incredulità mi accorgo che sono cacciatori. Sì cacciatori, vestiti in tuta mimetica ma con il fucile da caccia e il carniere pieno di uccelli. È proprio buffo il mondo, in questo posto sperduto, afflitto dalla guerra, pericoloso, troviamo gente che viene a sparare per divertimento agli uccelli migratori. E lo fanno attraversando terreni pericolosi e case abbandonate crivellate dai colpi dell’artiglieria siriana.

 

È proprio vero che alle passioni non si comanda ma venire a caccia proprio qui mi sembra una follia.

 

Menjez è un villaggio di 1500 persone esclusivamente cristiano – maronita. Nel 1975, a seguito della difficile situazione politica libanese e delle persecuzioni nei confronti dei maroniti, tutti abbandonarono il villaggio e si trasferirono in Siria, aldilà del wadi. Il villaggio è stato bruciato durante la guerra civile libanese, come molti altri villaggi cristiani della zona. Poi, piano piano, sono ritornati ma non tutti. In Siria, fino a pochi anni fa, la condizione socio – economica dei cristiani era migliore e alcune famiglie sono rimaste di là e adesso sono nei guai.

 

Le suore sono felici della nostra visita e hanno preparato un pranzo «natalizio» per festeggiarci. Ovviamente ci raccontano la situazione e apprezzo davvero la loro lucidità e la loro forza nel portare avanti la propria missione nonostante la situazione e i numerosi appelli ad andarsene. Suor Annabelle mi dice che hanno la valigia pronta con il necessario nel caso in cui arrivassero i guerriglieri dell’ISIS. La paura è forte nella popolazione perché ISIS sembra che voglia espandersi verso occidente per arrivare fino al mare mediterraneo. Infatti dicono che ISIS, se arriverà, verrà fuori dal Wadi Khaled.

 

Il confine non è segnato e, soprattutto, non è sorvegliato per cui c’è stato un periodo, fino a due mesi fa mi dice suor Martina, in cui dalla Siria la gente scappava verso il Libano attraversando il wadi mentre dall’altra parte sparavano. Il convento si trova proprio sul ciglio del wadi, fuori dal villaggio, e quindi le suore si sono viste sparare addosso per diverse volte.

 

Suor Annabelle mi dice che è riuscita a sopportare questa situazione grazie alla preghiera.

 

Aldilà del magistero pastorale ed educativo la presenza di queste suore in questo luogo e in questo momento rappresenta un forte elemento di conforto e di fiducia per la popolazione locale che vede nella scuola e nel convento un attestato di considerazione, di aiuto e di vicinanza molto importante.

 

E Suor Beatrice non si ferma mai, nonostante qualche problema a una gamba. È stata recentemente operata ma è voluta tornare dalle sorelle a Menjez per tenere sotto controllo la scuola e gestire il convento.

 

Insieme a Padre Jerzy visitiamo la scuola. Le suore ci dicono che hanno bisogno di espandere le aule perché stanno arrivando sempre più bambini dai vari villaggi della zona dove le scuole sono chiuse a causa della guerra. La Fondazione ha deciso di aiutare queste suore sostenendo l’acquisto di alcune casette prefabbricate da adibire ad aule e da installare nell’ampio resede della scuola. Si tratta di casette prefabbricate che si trovano a Tripoli, nel piazzale del convento francescano, al momento chiuso, che visitiamo al rientro verso Beirut.

 



 

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Messaggio Cristiano
UDIENZA GENERALE, Piazza San Pietro 5 novembre 2025

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. IV. La Risurrezione di Cristo e le sfide del mondo attuale. 3. La Pasqua dà speranza alla vita quotidiana

Cari fratelli e sorelle, buongiorno! E benvenuti tutti.

La Pasqua di Gesù è un evento che non appartiene a un lontano passato, ormai sedimentato nella tradizione come tanti altri episodi della storia umana. La Chiesa ci insegna a fare memoria attualizzante della Risurrezione ogni anno nella domenica di Pasqua e ogni giorno nella celebrazione eucaristica, durante la quale si realizza nel modo più pieno la promessa del Signore risorto: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).

Per questo il mistero pasquale costituisce il cardine della vita del cristiano, attorno a cui ruotano tutti gli altri eventi. Possiamo dire allora, senza alcun irenismo o sentimentalismo, che ogni giorno è Pasqua. In che modo?

Sperimentiamo ora per ora tante esperienze diverse: dolore, sofferenza, tristezza, intrecciate con gioia, stupore, serenità. Ma attraverso ogni situazione il cuore umano brama la pienezza, una felicità profonda. Una grande filosofa del Novecento, Santa Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein, che ha tanto scavato nel mistero della persona umana, ci ricorda questo dinamismo di costante ricerca del compimento. «L’essere umano – ella scrive – anela sempre ad avere di nuovo in dono l’essere, per poter attingere ciò che l’attimo gli dà e al tempo stesso gli toglie» (Essere finito ed Essere eterno. Per una elevazione al senso dell’essere, Roma 1998, 387). Siamo immersi nel limite, ma siamo anche protesi a superarlo.

L’annuncio pasquale è la notizia più bella, gioiosa e sconvolgente che sia mai risuonata nel corso della storia. Essa è il “Vangelo” per eccellenza, che attesta la vittoria dell’amore sul peccato e della vita sulla morte, e per questo è l’unica in grado di saziare la domanda di senso che inquieta la nostra mente e il nostro cuore. L’essere umano è animato da un movimento interiore, proteso verso un oltre che costantemente lo attrae. Nessuna realtà contingente lo soddisfa. Tendiamo all’infinito e all’eterno. Ciò contrasta con l’esperienza della morte, anticipata dalle sofferenze, dalle perdite, dai fallimenti. Dalla morte «nullu homo vivente po skampare», canta San Francesco (cfr Cantico di frate sole).

Tutto cambia grazie a quel mattino in cui le donne, recatesi al sepolcro per ungere il corpo del Signore, lo trovarono vuoto. La domanda rivolta dai Magi giunti dall’oriente a Gerusalemme: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei?» (Mt 2,1-2), trova la sua risposta definitiva nelle parole del misterioso giovane vestito di bianco che parla alle donne nell’alba pasquale: «Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. Non è qui. È risuscitato» (Mc 16,6).

Da quel mattino fino a oggi, ogni giorno, Gesù avrà anche questo titolo: il Vivente, come Lui stesso si presenta nell’Apocalisse: «Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre» (Ap 1,17-18). E in Lui noi abbiamo la sicurezza di poter trovare sempre la stella polare verso cui indirizzare la nostra vita di apparente caos, segnata da fatti che spesso ci appaiono confusi, inaccettabili, incomprensibili: il male, nelle sue molteplici sfaccettature, la sofferenza, la morte, eventi che riguardano tutti e ciascuno. Meditando il mistero della Risurrezione, troviamo risposta alla nostra sete di significato.

Davanti alla nostra umanità fragile, l’annuncio pasquale si fa cura e guarigione, alimenta la speranza di fronte alle sfide spaventose che la vita ci mette davanti ogni giorno a livello personale e planetario. Nella prospettiva della Pasqua, la Via Crucis si trasfigura in Via Lucis. Abbiamo bisogno di assaporare e meditare la gioia dopo il dolore, di ri-attraversare nella nuova luce tutte le tappe che hanno preceduto la Risurrezione.

La Pasqua non elimina la croce, ma la vince nel duello prodigioso che ha cambiato la storia umana. Anche il nostro tempo, segnato da tante croci, invoca l’alba della speranza pasquale. La Risurrezione di Cristo non è un’idea, una teoria, ma l’Avvenimento che sta a fondamento della fede. Egli, il Risorto, mediante lo Spirito Santo continua a ricordarcelo, perché possiamo essere suoi testimoni anche dove la storia umana non vede luce all’orizzonte. La speranza pasquale non delude. Credere veramente nella Pasqua attraverso il cammino quotidiano significa rivoluzionare la nostra vita, essere trasformati per trasformare il mondo con la forza mite e coraggiosa della speranza cristiana.

Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo,
La pace sia con voi!

GIUBILEO DEGLI STUDENTI

Cari ragazzi, care ragazze, buongiorno!

Che gioia incontrarvi! Grazie a voi! Ho atteso questo momento con grande emozione: la vostra compagnia, infatti, mi fa ricordare gli anni nei quali insegnavo matematica a giovani vivaci come voi. Vi ringrazio per aver risposto così, per essere qui oggi, per condividere le riflessioni e le speranze che, attraverso di voi, consegno ai nostri amici sparsi in tutto il mondo.

Vorrei cominciare ricordando Pier Giorgio Frassati, uno studente italiano che, come sapete, è stato canonizzato durante quest’anno giubilare. Col suo animo appassionato per Dio e per il prossimo, questo giovane santo coniò due frasi che ripeteva spesso, quasi come un motto, lui diceva: “Vivere senza fede non è vivere, ma vivacchiare” e ancora: “Verso l’alto”. Sono affermazioni molto vere e incoraggianti. Anche a voi, perciò, dico: abbiate l’audacia di vivere in pienezza. Non accontentatevi delle apparenze o delle mode: un’esistenza appiattita su quel che passa non ci soddisfa mai. Invece, ognuno dica nel proprio cuore: “Sogno di più, Signore, ho voglia di più: ispirami tu!”. Questo desiderio è la vostra forza ed esprime bene l’impegno di giovani che progettano una società migliore, della quale non accettano di restare spettatori. Vi incoraggio, perciò, a tendere costantemente “verso l’alto”, accendendo il faro della speranza nelle ore buie della storia. Come sarebbe bello se un giorno la vostra generazione fosse riconosciuta come la “generazione plus”, ricordata per la marcia in più che saprete dare alla Chiesa e al mondo.

Questo, cari ragazzi, non può rimanere il sogno di una persona sola: uniamoci allora per realizzarlo, testimoniando insieme la gioia di credere in Gesù Cristo. Come possiamo riuscirci? La risposta è essenziale: attraverso l’educazione, uno degli strumenti più belli e potenti per cambiare il mondo.

L’amato Papa Francesco, cinque anni fa, ha lanciato il grande progetto del Patto Educativo Globale, e cioè un’alleanza di tutti coloro che, a vario titolo, lavorano nell’ambito dell’educazione e della cultura, per coinvolgere le giovani generazioni in una fraternità universale. Voi, infatti, non siete solo destinatari dell’educazione, ma i suoi protagonisti. Perciò oggi vi chiedo di allearvi per aprire una nuova stagione educativa, nella quale tutti — giovani e adulti — diventiamo credibili testimoni di verità e di pace. Per questo vi dico: siete chiamati a essere truth-speakers e peace-makers, persone di parola e costruttori di pace. Coinvolgete i vostri coetanei nella ricerca della verità e nella coltivazione della pace, esprimendo queste due passioni con la vostra vita, con le parole e con i gesti quotidiani.

In proposito, all’esempio di san Pier Giorgio Frassati unisco una riflessione di san John Henry Newman, un santo studioso, che presto sarà proclamato Dottore della Chiesa. Egli diceva che il sapere si moltiplica quando viene condiviso e che è nella conversazione delle menti che si accende la fiamma della verità. Così la vera pace nasce quando tante vite, come stelle, si uniscono e formano un disegno. Insieme possiamo formare costellazioni educative, che orientano il cammino futuro.

Da ex professore di matematica e fisica, permettetemi di fare con voi qualche calcolo. Avrete l’esame di matematica tra poco forse? Vediamo… Sapete quante stelle ci sono nell’universo osservabile? È un numero impressionante e meraviglioso: un sestilione di stelle – un 1 seguito da 21 zeri! Se le dividessimo tra gli 8 miliardi di abitanti della Terra, ogni uomo avrebbe per sé centinaia di miliardi di stelle. Ad occhio nudo, nelle notti limpide, possiamo scorgerne circa cinquemila. Anche se le stelle sono miliardi di miliardi, vediamo solo le costellazioni più vicine: queste però ci indicano una direzione, come quando si naviga per mare.

Da sempre i viaggiatori hanno trovato la rotta nelle stelle. I marinai seguivano la Stella Polare; i Polinesiani attraversavano l’oceano memorizzando mappe stellari. Secondo i contadini delle Ande, che ho incontrato da missionario in Perù, il cielo è un libro aperto che segna le stagioni della semina, della tosatura, dei cicli della vita. Persino i Magi hanno seguito una stella per arrivare a Betlemme ad adorare Gesù Bambino.

Come loro, anche voi avete stelle-guida: i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti, i buoni amici, bussole per non perdervi nelle vicende liete e tristi della vita. Come loro, siete chiamati a diventare a vostra volta luminosi testimoni per chi vi sta accanto. Ma, come dicevo, una stella da sola resta un punto isolato. Quando si unisce alle altre, invece, forma una costellazione, come la Croce del Sud. Così siete voi: ognuno è una stella, e insieme siete chiamati a orientare il futuro. L’educazione unisce le persone in comunità vive e organizza le idee in costellazioni di senso. Come scrive il profeta Daniele, «quelli che avranno insegnato a molti la giustizia risplenderanno come le stelle in eterno» (Dn 12,3): che meraviglia: siamo stelle, sì, perché siamo scintille di Dio. Educare significa coltivare questo dono.

L’educazione, infatti, ci insegna a guardare in alto, sempre più in alto. Quando Galileo Galilei puntò il cannocchiale al cielo, scoprì mondi nuovi: le lune di Giove, le montagne della Luna. Così è l’educazione: un cannocchiale che vi permette di guardare oltre, di scoprire ciò che da soli non vedreste. Non fermatevi, allora, a guardare lo smartphone e i suoi velocissimi frammenti d’immagini: guardate al Cielo, guardate verso l’alto.

Cari giovani, voi stessi avete suggerito la prima delle nuove sfide che ci impegnano nel nostro Patto Educativo Globale, esprimendo un desiderio forte e chiaro; avete detto: “Aiutateci nell’educazione alla vita interiore.” Sono rimasto veramente colpito da questa richiesta. Non basta avere grande scienza, se poi non sappiamo chi siamo e qual è il senso della vita. Senza silenzio, senza ascolto, senza preghiera, perfino le stelle si spengono. Possiamo conoscere molto del mondo e ignorare il nostro cuore: anche a voi sarà capitato di percepire quella sensazione di vuoto, di inquietudine che non lascia in pace. Nei casi più gravi, assistiamo a episodi di disagio, violenza, bullismo, sopraffazione, persino a giovani che si isolano e non vogliono più rapportarsi con gli altri. Penso che dietro a queste sofferenze ci sia anche il vuoto scavato da una società incapace di educare la dimensione spirituale, non solo tecnica, sociale e morale della persona umana.

Da giovane, sant’Agostino era un ragazzo brillante, ma profondamente insoddisfatto, come leggiamo nella sua autobiografia, Le Confessioni. Egli cercava dappertutto, tra carriera e piaceri, e ne combinava di tutti i colori, senza però trovare né verità né pace. Finché non ha scoperto Dio nel proprio cuore, scrivendo una frase densissima, che vale per tutti noi: «Il mio cuore è inquieto finché non riposa in Te». Ecco allora che cosa significa educare alla vita interiore: ascoltare la nostra inquietudine, non fuggirla né ingozzarla con ciò che non sazia. Il nostro desiderio d’infinito è la bussola che ci dice: “Non accontentarti, sei fatto per qualcosa di più grande”, “non vivacchiare, ma vivi”.

La seconda delle nuove sfide educative è un impegno che ci tocca ogni giorno e del quale voi siete maestri: l’educazione al digitale. Ci vivete dentro, e non è un male: ci sono opportunità enormi di studio e comunicazione. Non lasciate però che sia l’algoritmo a scrivere la vostra storia! Siate voi gli autori: usate con saggezza la tecnologia, ma non lasciate che la tecnologia usi voi.

Anche l’intelligenza artificiale è una grande novità – una delle rerum novarum, cioè delle cose nuove – del nostro tempo: non basta tuttavia essere “intelligenti” nella realtà virtuale, ma bisogna essere umani con gli altri, coltivando un’intelligenza emotiva, spirituale, sociale, ecologica. Perciò vi dico: educatevi ad umanizzare il digitale, costruendolo come uno spazio di fraternità e di creatività, non una gabbia dove rinchiudervi, non una dipendenza o una fuga. Anziché turisti della rete, siate profeti nel mondo digitale!

A questo riguardo, abbiamo davanti un attualissimo esempio di santità: San Carlo Acutis. Un ragazzo che non si è fatto schiavo della rete, usandola invece con abilità per il bene. San Carlo unì la sua bella fede alla passione per l’informatica, creando un sito sui miracoli eucaristici, e facendo così di Internet uno strumento per evangelizzare. La sua iniziativa ci insegna che il digitale è educativo quando non ci rinchiude in noi stessi, ma ci apre agli altri: quando non ti mette al centro, ma ti concentra su Dio e sugli altri.

Carissimi, arriviamo infine alla terza nuova grande sfida che oggi vi affido e che sta al cuore del nuovo Patto Educativo Globale: la educazione alla pace. Vedete bene quanto il nostro futuro venga minacciato dalla guerra e dall’odio che dividono i popoli. Questo futuro può essere cambiato? Certamente! Come? Con un’educazione alla pace disarmata e disarmante. Non basta, infatti, far tacere le armi: occorre disarmare i cuori, rinunciando a ogni violenza e volgarità. In tal modo, un’educazione disarmante e disarmata crea uguaglianza e crescita per tutti, riconoscendo l’uguale dignità di ogni ragazzo e ragazza, senza mai dividere i giovani tra pochi privilegiati che hanno accesso a scuole costosissime e tanti che non accesso all’educazione. Con grande fiducia in voi, vi invito a essere operatori di pace anzitutto lì dove vivete, in famiglia, a scuola, nello sport e tra gli amici, andando incontro a chi proviene da un’altra cultura.

Per concludere, carissimi, il vostro sguardo non sia rivolto alle stelle cadenti, cui si affidano desideri fragili. Guardate ancora più verso l’alto, verso Gesù Cristo, «il sole di giustizia» (cfr Lc 1,78), che vi guiderà sempre nei sentieri della vita.

LEONE XIV