Testimoni del nostro tempo


Il Papa si unisce alla campagna mondiale per la liberazione di Dawit Isaak

Il giornalista e scrittore svedese-eritreo è imprigionato illegalmente in carcere in Eritrea, senza che sia stato mai avviato un processo

L’ONU chiede il rilascio del giornalista eritreo, Dawit Isaak, imprigionato nel 2001

Pubblicato il 11 maggio 2017 alle 9:25 in Africa Eritrea

 

Le Nazioni Unite hanno invitato il governo eritreo a liberare il giornalista, drammaturgo e scrittore, Dawit Isaak, che è stato imprigionato nel 2001 durante una crisi politica.

 

Il vincitore del premio per la libertà di stampa dell’UNESCOGuillermo Cano del 2017 è stato visto l’ultima volta nel 2005 dal momento del suo arresto e attualmente non si sa dove si trovi.

 

Mercoledì 10 maggio, la relatrice speciale dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti dell’uomo in Eritrea, Sheila B. Keetharuth, ha dichiarato: “Il caso di Isaak è emblematico di tutti coloro che sono stati sottoposti a sparizioni forzate dal governo dell’Eritrea e che non sono stati più trovati“. “Il governo dell’Eritrea ha l’obbligo di fornire urgentemente informazioni sul destino e sul luogo di permanenza di tutti coloro che sono stati privati della libertà fisica”, ha detto mentre ha invitato le autorità di Asmara a liberare senza condizioni Isaak e tutti gli altri detenuti arrestati illegalmente.

 

Dawit Isaak, 52 anni, è uno dei fondatori del primo quotidiano indipendente in Eritrea, chiamato “Setit”, creato a seguito del suo ritorno nel paese dopo l’indipendenza del 1993. È cittadino della Svezia, dove ha vissuto dal 1987.

 

Il 23 settembre 2001, Isaak è stato arrestato nella sua casa di Asmara e imprigionato insieme ad altri giornalisti indipendenti del cosiddetto gruppo G-15. I giornalisti chiedevano al governo e al presidente, Isayas Afeworki, riforme democratiche. “Gli arresti di Dawit Isaak e dei suoi colleghi rimangono il segno più visibile della repressione della libertà di pensiero. Le autorità dell’Eritrea continuano a soffocare tutte le forme di espressione che potrebbero essere percepite come critiche contro  il governo e le sue politiche“, ha dichiarato Sheila B. Keetharuth.

 

Molte sono le voci che dicono che Dawit Isaak sia morto. In occasione della Giornata Mondiale della Libertà Stampa di quest’anno, il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres ha chiesto la fine della repressione dei giornalisti che li ha definiti la “voce di chi non ha voce”.

 

La Giornata Internazionale è stata proclamata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1993 in seguito a una Raccomandazione adottata alla 26a Sessione della Conferenza Generale dell’UNESCO nel 1991.

 

Il presidente dell'Eritrea, Isayas Afeworki. Fonte: Wikimedia Commons

                      Il presidente dell’Eritrea, Isayas Afeworki.

 

 

ROMA, 08 Luglio 2014 (Zenit.org) - Anche Papa Francesco si è associato alla campagna internazionale per chiedere la liberazione di Dawit Isaak, giornalista svedese-eritreo imprigionato in Eritrea dal 2001, senza mai aver visto avviare un processo. "Mando le mie benedizioni e saluti a lui e alla sua famiglia", ha detto il Papa, secondo quanto riferito dal quotidiano svedese Expressen. "Spero con tutto il mio cuore che il caso di Dawit venga risolto - ha aggiunto (video Expressen.se) - spero che si chiarisca tutto. Si tratta di una persona che sta soffrendo molto in questa situazione". Il redattore capo, Thomas Mattson, ha espresso in un editoriale il suo apprezzamento per la vicinanza manifestata dal Pontefice.

 

Isaak è stato arrestato nel settembre del 2001, insieme a 21 giornalisti eritrei, per aver costituito un gruppo politico che avanzava richieste di democratizzazione delle istituzioni del paese. Da 13 anni è quindi trattenuto illegalmente in carcere in Eritrea. Il regime del paese lo considera un traditore, mentre Amnesty International lo definisce un "prigioniero di coscienza" e più volte ha chiesto il suo rilascio immediato e incondizionato.

 

Diversi media svedesi importanti hanno ripetutamente rivolto degli appelli alle autorità eritree affinché avviino il processo di liberazione di Isaak. Nell'aprile 2009, inoltre, quattro società editoriali svedesi - Aftonbladet , Dagens Nyheter, Expressen e Svenska Dagbladet - hanno firmato una petizione per la liberazione del giornalista, consegnata immediatamente all'ambasciata eritrea. 

 

Nell'aprile 2002, poi, il CPJ - Committe to Protect Journalists ha reso noto che l'uomo è stato ricoverato in seguito a un duro trattamento subito in prigione. Il governo eritreo tuttavia smentiva l'accusa, sostenendo che ai prigionieri è garantita una reclusione idonea ai diritti umani e al rispetto della persona.

 

Si spera che dopo aver attirato l'attenzione anche del Vescovo di Roma si possa accendere un barlume di speranza per Dawit Isaak. Oltre a Papa Francesco, sono numerosi gli esponenti della scena mondiale che hanno espresso il proprio sostegno per la liberazione dello scrittore, tra cui celebrità come Bruce Springsteen e Madonna. L'Unione Europea, pure, più volte ha rivolto appelli alla Unione africana affinché Isaak possa tornare nella sua casa di Goteborg dalla moglie Sofia e dai tre figli.

 



 

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Udienza Generale - Piazza San Pietro Mercoledì, 10 Settembre 2025

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. III. La Pasqua di Gesù. 6. La morte. «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37)

Cari fratelli e sorelle,
buongiorno e grazie per la vostra presenza, una bella testimonianza!

Oggi contempliamo il vertice della vita di Gesù in questo mondo: la sua morte in croce. I Vangeli attestano un particolare molto prezioso, che merita di essere contemplato con l’intelligenza della fede. Sulla croce, Gesù non muore in silenzio. Non si spegne lentamente, come una luce che si consuma, ma lascia la vita con un grido: «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37). Quel grido racchiude tutto: dolore, abbandono, fede, offerta. Non è solo la voce di un corpo che cede, ma il segno ultimo di una vita che si consegna.

Il grido di Gesù è preceduto da una domanda, una delle più laceranti che possano essere pronunciate: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È il primo verso del Salmo 22, ma sulle labbra di Gesù assume un peso unico. Il Figlio, che ha sempre vissuto in intima comunione con il Padre, sperimenta ora il silenzio, l’assenza, l’abisso. Non si tratta di una crisi di fede, ma dell’ultima tappa di un amore che si dona fino in fondo. Il grido di Gesù non è disperazione, ma sincerità, verità portata al limite, fiducia che resiste anche quando tutto tace.

In quel momento, il cielo si oscura e il velo del tempio si squarcia (cfr Mc 15,33.38). È come se il creato stesso partecipasse a quel dolore, e insieme rivelasse qualcosa di nuovo: Dio non abita più dietro un velo, il suo volto è ora pienamente visibile nel Crocifisso. È lì, in quell’uomo straziato, che si manifesta l’amore più grande. È lì che possiamo riconoscere un Dio che non resta distante, ma attraversa fino in fondo il nostro dolore.

Il centurione, un pagano, lo capisce. Non perché ha ascoltato un discorso, ma perché ha visto morire Gesù in quel modo: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). È la prima professione di fede dopo la morte di Gesù. È il frutto di un grido che non si è disperso nel vento, ma ha toccato un cuore. A volte, ciò che non riusciamo a dire a parole lo esprimiamo con la voce. Quando il cuore è pieno, grida. E questo non è sempre un segno di debolezza, può essere un atto profondo di umanità.

Noi siamo abituati a pensare al grido come a qualcosa di scomposto, da reprimere. Il Vangelo conferisce al nostro grido un valore immenso, ricordandoci che può essere invocazione, protesta, desiderio, consegna. Addirittura, può essere la forma estrema della preghiera, quando non ci restano più parole. In quel grido, Gesù ha messo tutto ciò che gli restava: tutto il suo amore, tutta la sua speranza.

Sì, perché anche questo c’è, nel gridare: una speranza che non si rassegna. Si grida quando si crede che qualcuno possa ancora ascoltare. Si grida non per disperazione, ma per desiderio. Gesù non ha gridato contro il Padre, ma verso di Lui. Anche nel silenzio, era convinto che il Padre era lì. E così ci ha mostrato che la nostra speranza può gridare, persino quando tutto sembra perduto.

Gridare diventa allora un gesto spirituale. Non è solo il primo atto della nostra nascita – quando veniamo al mondo piangendo –: è anche un modo per restare vivi. Si grida quando si soffre, ma pure quando si ama, si chiama, si invoca. Gridare è dire che ci siamo, che non vogliamo spegnerci nel silenzio, che abbiamo ancora qualcosa da offrire.

Nel viaggio della vita, ci sono momenti in cui trattenere tutto dentro può consumarci lentamente. Gesù ci insegna a non avere paura del grido, purché sia sincero, umile, orientato al Padre. Un grido non è mai inutile, se nasce dall’amore. E non è mai ignorato, se è consegnato a Dio. È una via per non cedere al cinismo, per continuare a credere che un altro mondo è possibile.

Cari fratelli e sorelle, impariamo anche questo dal Signore Gesù: impariamo il grido della speranza quando giunge l’ora della prova estrema. Non per ferire, ma per affidarci. Non per urlare contro qualcuno, ma per aprire il cuore. Se il nostro grido sarà vero, potrà essere la soglia di una nuova luce, di una nuova nascita. Come per Gesù: quando tutto sembrava finito, in realtà la salvezza stava per iniziare. Se manifestata con la fiducia e la libertà dei figli di Dio, la voce sofferta della nostra umanità, unita alla voce di Cristo, può diventare sorgente di speranza per noi e per chi ci sta accanto.

LEONE XIV