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Testimoni del nostro tempo


Mons. Anton Durcovici

Beatificazione

 

Sabato 17 maggio è stato beatificato mons. Anton Durcovici, vescovo romeno perseguitato dal regime comunista e morto in carcere nel 1951 per la sua fedeltà alla Chiesa e al Papato

 

Di Dario Citati

 

ROMA, 19 Maggio 2014 (Zenit.org) - La Romania è un Paese di frontiera tra mondo cattolico e ortodosso: culturalmente e linguisticamente parte dei popoli romanzi, i Romeni hanno sempre percepito sé stessi come un´isola latina nel mare slavo dell´Europa orientale. La maggioranza della popolazione professa però la fede cristiano-ortodossa, benché non manchi una cospicua minoranza cattolica di antica fondazione: l´arcidiocesi di Alba Iulia, in Transilvania, fu eretta come sede vescovile nell´XI secolo, in seguito all´espansione del Regno d´Ungheria governato dal sovrano Santo Stefano. Con l´avvento del comunismo nel secondo dopoguerra, ai cristiani di Romania di entrambe le confessioni toccò la medesima sorte di altri popoli entrati nell´orbita del socialismo reale.

 

Sabato 17 maggio è stato beatificato uno dei successori degli Apostoli che morirono nelle carceri comuniste romene a motivo della propria fede: il vescovo di Iaşi mons. Anton Durcovici. Era nato nel 1888 in Austria, nella località di Bad Deutsch-Altenburg allora parte dell´Impero asburgico, da madre croata e padre austriaco. Dopo aver studiato a Roma ed essere stato ordinato sacerdote in San Giovanni in Laterano nel 1910, dal 1924 al 1947 a Durcovici fu conferita la carica di Rettore del seminario Sfântul Duh («Spirito Santo») di Bucarest. Tutte le testimonianze concordano sul grande zelo pastorale e sulla profondità speculativa del suo insegnamento (1). Nominato vescovo di Iaşi da Pio XII già nel 1945, fu consacrato soltanto due anni dopo a motivo degli scontri costanti con i comunisti romeni che si acuirono negli anni successivi.

 

Tra 1948 e 1949, il governo di Bucarest impose infatti ai cattolici di rito bizantino e poi a quelli di rito latino di fondersi con gli ortodossi al fine di poter controllare meglio tutte le loro attività. Il governo dispose la confisca dei beni e delle proprietà ecclesiastiche, chiuse le scuole religiose e ordinò alla Securitate (i servizi segreti interni) di indagare e inquisire tutti gli esponenti del clero che si opponevano a queste misure coercitive (2). Dopo diversi interrogatori e intimidazioni, Anton Durcovici fu arrestato nel giugno 1949, mentre si recava a Bucarest, e condotto nella prigione di Sighetu Marmaţiei. La durezza della detenzione carceraria, che si abbatté su un uomo di oltre sessant´anni, fu una prova estrema: torture, privazioni di cibo e acqua, freddo e sporcizia. Il 10 dicembre 1951, Mons. Durcovici si rivolse con un filo di voce ad un altro sacerdote in carcere, don Rafael Friedrich, chiedendogli poco prima di spirare: Morior fame et siti, da mihi absolutionem («muoio di fame e di sete, dammi l´assoluzione»).

 

Il sacerdote gesuita Otto Farenkopf, che fu anch´egli compagno di prigionia di Mons. Durcovici a Sighetu Marmaţiei, ha lasciato una testimonianza importante sull´alimento della fede nelle durissime condizioni del carcere. Don Vasvári, un altro dei prelati detenuti, una notte sognò San Pio X: rammemorando l´esortazione di questo Papa alla Comunione frequente, i sacerdoti prigionieri con Mons. Durcovici celebrarono sei Messe con il pane e il vino di cui disponevano in cella ringraziando l´intercessione di Papa Sarto per la grazia infusa (3). Nell´abnegazione con cui Anton Durcovici sopportò le sofferenze sino alla morte, la speranza cristiana coincideva quindi con la fedeltà a Roma e con l´affermazione della regalità del Papa. In senso corrente, la definizione «Papa Re» viene utilizzata soprattutto per riferirsi al dominio temporale dei Pontefici sui territori italiani, finito con la breccia di Porta Pia. Ma in realtà quest´appellativo a suo modo esprime bene anche il legame indissolubile che esiste tra la professione della fede cattolica e la struttura monarchico-gerarchica della Chiesa fondata sul primato romano, in nome del quale è stato perpetrato il martirio di Anton Durcovici.

 

Tutta la perseveranza di questo eroico vescovo si fondò infatti su uno degli assiomi incomprimibili della Tradizione cattolica: così come non si può essere cristiani senza far parte della Chiesa, allo stesso modo non si può essere nella Chiesa se questa non è governata dal Romano Pontefice. Il primato del Papa non si riferisce infatti alla potestà d´ordine (cioè al potere di conferire i sacramenti, che egli amministra come vescovo di Roma in assoluta parità a qualsiasi altro vescovo), bensì alla suprema potestà di giurisdizione, ossia al mandato di governare la Chiesa promesso da Gesù all´Apostolo Pietro a Cesarea di Filippo (Mt 16, 15-19), conferitagli dopo la Resurrezione (Gv, 15-17), e da Pietro trasmessa quindi ai suoi successori secondo l´attestazione della letteratura sub-apostolica, dell´apologetica e della Patristica dei primi secoli.

 

Sia da un punto di vista teologico che storico, tale primato di giurisdizione (in cui rientra lo stesso potere di Magistero, ossia la facoltà di insegnare la dottrina impegnando i fedeli a diverso grado), è per i cattolici il sigillo di garanzia dell´unità e dell´indefettibilità della Chiesa e della fede stessa. Non è un caso che, nel combattere i cattolici, il governo comunista romeno cercò subito di separare dal Papa i vescovi e il popolo credente di Romania: si tratta della stessa strategia adottata dal comunismo cinese con la fondazione della «chiesa patriottica» e dagli avversari della Chiesa di tutti i tempi. Senza una «roccia» visibile, senza cioè un sovrano monarchico vicario di Cristo che esercita un potere qualitativamente diverso e superiore a tutti i confratelli nell´episcopato, la Chiesa si frantumerebbe infatti in una pluralità di «chiese locali», suscettibili delle facili ingerenze del potere politico, ciascuna con una propria dottrina, un proprio catechismo, un proprio modo di intendere e vivere la religione.

 

Anton Durcovici avrebbe potuto cedere alle pressioni e accettare di svolgere una qualche blanda attività pastorale senza entrare in collisione con il governo di Bucarest, nell´errata illusione che l´obbedienza al Magistero perenne dei Papi, che contemplava tra le altre cose la ferrea condanna dell´ideologia comunista, non fosse indispensabile per annunciare il Vangelo. Preferì invece restare fedele all´insegnamento che aveva ricevuto attraverso l´imposizione delle mani al momento dell´ordinazione, mostrando poi con la sua oblazione che il chicco di grano caduto in terra rimane solo, mentre se muore produce molto frutto (Gv, 12, 24).

 

Nel Regina Coeli di domenica 18 maggio, Papa Francesco ha ricordato la figura di Mons. Durcovici, indicandolo come un modello di vita da seguire. E il martirio di questo vescovo costituisce davvero un ottimo esempio di come il primato romano non sia un fatto meramente «amministrativo», una modalità di organizzazione ecclesiastica che può mutare nel tempo senza intaccare la dimensione della fede, ma al contrario ne costituisce l´indispensabile prerequisito. Mons. Durcovici aveva ben presente che il Papa, in quanto vescovo di Roma, partecipa con tutti gli altri vescovi del sacerdozio cristiano, ma che in quanto Papa solo a lui è dato di partecipare della regalità di Cristo. Il suo attaccamento al Papato non riguardava perciò la persona di nessun Pontefice in particolare, bensì la funzione di governo della Chiesa e la continuità dell´insegnamento nel tempo che, alle condizioni sancite dalla Tradizione, i Pastori Supremi che si succedono sulla Cattedra di Pietro esercitano sul popolo cristiano.

 

Dario Citati è Direttore del Programma di ricerca «Eurasia» dell´Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG)  [www.istituto-geopolitica.eu] e redattore della rivista Geopolitica [www.geopolitica-rivista.org].

 

NOTE

 

(1) Episcopul Anton Durcovici: model de educator şi pastor, http://www.durcovici.ro/articole.asp?id=iuc2013p150.

 

(2) Mons. Anton Durcovici, una gloria della chiesa del silenzio in Romania durante il comunismo, http://www.lucisullest.it/storia-mons-anton-durcovici-una-gloria-della-chiesa-del-silenzio-in-romania-durante-il-comunismo/.

 

(3) F. Doboş, Vita del vescovo Anton Durcovici. Martire della Chiesa Cattolica di Romania, Iaşi 2014, pp. 40-41.

 

 


Il vescovo che ha amato la chiesa e il popolo romeno

 

Anton Durcovici è nato in Austria nel 1888, figlio di padre croato e madre austriaca. La giovane madre rimasta vedova cadde nell´estrema indigenza e dovette emigrare in Romania per lavorare presso parenti agiati. Anton era uno dei suoi due figli e aveva solo sei anni quando emigrò. L´arcivescovo di Bucarest lo notò subito, invitandolo al seminario minore diocesano, dove spiccò per intelligenza e forza di volontà concludendo i suoi studi di cinque anni con un esame di maturità nec plus ultra. Il presule, entusiasta di questo ragazzo fuori dal comune, lo inviò a studiare a Roma. All'età di 24 anni il giovane Anton ha già preso tre dottorati: filosofia, teologia e diritto canonico. Viene ordinato sacerdote a San Giovanni in Laterano nel settembre 1910 e subito dopo torna in Romania. Scoppia però la I Guerra Mondiale e come i suoi connazionali austriaci (più tardi egli diventerà cittadino romeno a tutti gli effetti), viene internato per un paio di anni in un campo di concentramento nella piena forza della sua gioventù. Il tifo che contrasse in questo posto insalubre gli lascò segni per il resto dei suoi giorni.


Nel 1924 viene nominato rettore del Seminario di Bucarest. Per diverse vicissitudini l´arcivescovo di Bucarest dovette presentare le sue dimissioni mentre calava sulla Romania la notte comunista e così mons. Durcovici si trova a dirigere il cattolicesimo della capitale da vicario generale. Inizia dunque lo scontro che lo porterà al martirio. Si nega a stilare un documento d´indipendenza di Roma e di sottomissione alle autorità civili. Alcuni (pochi, solo 3) sacerdoti corrotti lo tradiscono e lo calunniano, ma tanto basta per costruire ingiusti capi d´accusa. Pio XII lo nomina vescovo di Iasi, capitale della Moldavia, e nell´aprile 1948 viene consacrato a Bucarest. Il prestigio di mons. Durcovici è immenso e la sua posizione rimane intransigente verso le pretese comuniste di addomesticare la Chiesa cattolica. «Il martirio di Anton Durcovici, vescovo di Iaşi, non è iniziato il 26 giugno 1949, data del suo arresto brutale a Bucarest, ma quasi due anni prima, subito dopo la sua nomina di vescovo di Iaşi» come scrive Don Cornel Adrian Benchea, sacerdote di origini romene e incardinato nella diocesi di Livorono, in uno studio su mons. Durcovici dal titolo Gli ultimi anni di un martire della Chiesa cattolica di Romania. Dopo la Rivoluzione del dicembre 1989, si è potuto accedere ai dossier della ex-polizia politica comunista, tristemente nota come Securitate.



584569 e 7512: due dossier speciali sul vescovo Durcovici



584569 è il numero del dossier personale di mons. Durcovici creato dalla Securitate nel periodo di pedinamento e sorvegliamento nei confronti del vescovo. 7512 è il numero del dossier penale di mons. Durcovici durante il periodo in carcere. L´intenzione della Polizia politica è stata premeditata dall´inizio, cioè di realizzare non solo un semplice dossier informativo di sorveglianza, ma un dossier di sorveglianza penale, per incriminare, arrestare e condannare il sorvegliato. «Si deve fare menzione del fatto – scrive Don Benchea – che l´intenzione della polizia politica era di sorvegliarlo individualmente, un´eccezione tra i chierici cattolici di allora che sarebbero stati implicati nelle investigazioni e poi arrestati in 'gruppi'. Il sistema di pedinamento e di sorveglianza promosso dalla Securità nel "caso Durcovici" è stato molto complesso. Gli uffici di informazioni dei servizi provinciali di Bacău e di Roman hanno seguito ogni passo del vescovo Durcovici durante le sue visite canoniche fatte nei villaggi e le comunità cattoliche delle province di Bacău e di Roman, ed a Iaşi è stato sempre sorvegliato dai marescialli di Securitate».
Le relazioni e le note informative scritte dagli ufficiali della Securitate contengono decine di accuse al vescovo Durcovici, per incriminarlo e mandarlo dinanzi alla Giustizia comunista. «Nei substrati dell´omelia fatta dal vescovo Durcovici a Luizi Călugăra il 15 settembre 1948 – evidenzia Don Benchea – gli ufficiali della Securità scoprivano 'la tendenza dei fedeli cattolici di approfondire il sentimento religioso fino al fanatismo. Il sentimento religioso nella massa di contadini cattolici è molto sviluppato, e queste omelie tenute dal clero cattolico hanno un grande effetto…'. In un´altra relazione redatta dalla Securità di Roman, il vescovo Durcovici era accusato di aver tracciato, con le sue omelie, 'una linea di condotta dei sacerdoti cattolici, incoraggiandoli ad azioni di istigazione mirante il regime democratico', o che le parole del vescovo fossero 'una precisazione della posizione anti-comunista e anti-governamentale della Chiesa cattolica'. Le visite canoniche fatte dal vescovo Durcovici nelle province di Bacău e di Roman e, con queste occasioni, le solennità religiose, sono state considerate dalla Securità come 'rafforzamento del misticismo religioso nelle masse, fino all´assurdo, e consolidamento dei rapporti con il Papa', fatti incompatibili con la linea politica del regime democratico popolare».


«D´ora in poi vedremo il vescovo molto raramente»: l'arresto.



Sono le parole del parroco di Bacau, il 25 febbraio 1949, nei confronti dei suoi fedeli dopo un incontro con il vescovo Durcovici. L´arresto del vescovo Durcovici è stato fatto dalla Securitate in un modo assolutamente illegale e segreto, senza mandato di arresto. «In una dichiarazione del 28 gennaio 1950, il sacerdote Rafael Friedrich – afferma Don Benchea riferendosi ai documenti della Securitate – descrive a sua volta le circostanze dell´arresto del vescovo Durcovici: "Il 24 giugno, mi ha pregato il vescovo Durcovici, di mantenermi libero la domenica di 26 giugno dalle funzioni parrocchiali domenicali, per poter accompagnarlo nel villaggio Popeşti Leordeni (vicino Bucarest), dove doveva amministrare il sacramento della Confermazione e aveva bisogno di me, essendo queste celebrazioni più ampie e richiedendo più sacerdoti aiutanti. Su questa strada verso Popeşti Leordeni sono stato arrestato, insieme con Sua Eccellenza, il 26 giugno 1949". Subito dopo l´arresto, l´intenzione del regime comunista era di consegnare il vescovo Durcovici alla Giustizia comunista. Però, considerando che non aveva sufficienti prove accusatorie, il secondo giorno dopo l´arresto, la Centrale della Securità di Bucarest sollecitava alla Direzione Regionale della Securità di Iaşi nuovi dati compromettenti sull´arrestato. Ecco un simile ordine: "In 48 ore inviate dichiarazioni non ritrattabili contro il nominato Anton Durcovici, dalle quali risulti l´attività anti-democratica e anti-sovietica del sopra nominato, il materiale possibilmente ottenuto dai sacerdoti detenuti che fanno parte del complotto cattolico".

 

Cominciava, il 26 giugno 1949, per il vescovo Durcovici un lungo Calvario che si sarebbe concluso in modo drammatico il 10-11 dicembre 1951 con la sua morte di martire nella prigione di Sighetu Marmaţiei (nella regione Transilvania).



«Mons. Durcovici morì assistito dai topi della prigione». La testimonianza di Ioan Ploscaru



La Securitate era convinta che il vescovo Durcovici non collaborasse con le autorità comuniste; per questo motivo decise, il 7 settembre 1951, di trasferirlo nella famosa prigione di Sighetu Marmaţiei (la più dura del regime comunista di Romania), dove era imprigionata in quel tempo l´alta società politica, culturale e religiosa di Romania. «Il 10 settembre 1951, il vescovo Anton Durcovici è stato trasportato da Jilava a Sighet, in massima discrezione, decisa dalla Securità. Il capo della prigione di Sighet, Vasile Ciolpan, ha ricevuto una decisione dalla Centrale della Securità di Bucarest di imprigionare, all´inizio, il vescovo Durcovici in una cella comune.

 

Partendo dal caso dello storico Gheorghe Brătianu, del sacerdote romano-cattolico Rafael Friedrich, ma anche di altre personalità imprigionate a Sighet, i cui dossier li abbiamo indagati, possiamo pensare che il vescovo A. Durcovici è stato amministrativamente condannato in assenza, senza essere informato dall´Alta Commissione Militare del Ministero dell´Interno».

 

Particolarmente toccante è la testimonianza diretta del vescovo greco cattolico Ioan Ploscaru, anche lui detenuto nel carcere di Sighetu Marmaţiei, in merito agli ultimi giorni e istanti di vita del vescovo Durcovici. Nel libro Catene e terrore. Un vescovo clandestino greco-cattolico nella persecuzione comunista in Romania (Edb, Bologna 2012, già recensito su «Orizzonti Culturali») Ioan Ploscaru dedica un capitolo dei suoi scritti alla morte del vescovo Anton Durcovici. «La direzione della prigione – scrive Ploscaru – lo aveva messo in isolamento quando si era resa conto che stava per morire. Fu proprio lasciato morire di fame, da solo, perché non se ne avesse notizia. Se il vescovo Durcovici fosse stato in cella insieme agli altri, forse avrebbero potuto aiutarlo, dandogli sollievo negli ultimi momenti di vita.

 

L'11 dicembre 1951 sentii padre Ioan Deliman, che scaricava carbone in cortile, mentre diceva ad alta voce in francese: monseigneur Durcovici est décédé. Dopo che fu portato via, di notte con la carretta che serviva per le immondizie, il giorno seguente bruciarono la paglia del materasso, come si soleva fare; poi misero il suo vestito a righe ad asciugare sul mucchio di legna che c'era nel cortile. Due giorni dopo un poliziotto mi condusse nella cella 13, perché facessi un po' di pulizia. Era la della dove era morto il vescovo Anton Durcovici. La prima impressione fu dolorosa. Con uno solo sguardo compresi la solitudine e la miseria in cui era morto.

 

Per tanto tempo – conclude Ploscaru – ringraziai nelle mie preghiere mons. Durcovici, perché dopo la sua morte le sue coperte mi avevano riscaldato e un vetro della sua cella preso grazie alla bontà del poliziotto, dal quale potevo godere la luce naturale, aveva trasformato l'ambiente funereo della cella. Mons. Anton Durcovici morì come un martire, assistito solo dai topi della prigione».





 

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Messaggio Cristiano
UDIENZA GENERALE - Aula Paolo VI Mercoledì, 18 Dicembre 2024

Ciclo – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. I. L’infanzia di Gesù. 1. Genealogia di Gesù (Mt 1,1-17). L’ingresso del Figlio di Dio nella storia

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi iniziamo il ciclo di catechesi che si svolgerà lungo tutto l’Anno giubilare. Il tema è “Gesù Cristo nostra speranza”: è Lui, infatti, la meta del nostro pellegrinaggio, e Lui stesso è la via, il cammino da percorrere.

La prima parte tratterà l’infanzia di Gesù, che ci viene narrata dagli Evangelisti Matteo e Luca (cfr Mt 1–2; Lc 1–2). I Vangeli dell’infanzia raccontano il concepimento verginale di Gesù e la sua nascita dal grembo di Maria; richiamano le profezie messianiche che in Lui si compiono e parlano della paternità legale di Giuseppe, che innesta il Figlio di Dio sul “tronco” della dinastia davidica. Ci è presentato Gesù neonato, bambino e adolescente, sottomesso ai suoi genitori e, nello stesso tempo, consapevole di essere tutto dedito al Padre e al suo Regno. La differenza tra i due Evangelisti è che mentre Luca racconta gli eventi con gli occhi di Maria, Matteo lo fa con quelli di Giuseppe, insistendo su una paternità così inedita.

Matteo apre il suo Vangelo e l’intero canone neotestamentario con la «genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1,1). Si tratta di una lista di nomi già presente nelle Scritture ebraiche, per mostrare la verità della storia e la verità della vita umana. In effetti, «la genealogia del Signore è costituita dalla storia vera, dove sono presenti alcuni nomi a dir poco problematici e si sottolinea il peccato del re Davide (cfr Mt 1,6). Tutto, comunque, finisce e fiorisce in Maria e in Cristo (cfr Mt 1,16)» (Lettera sul rinnovamento dello studio della storia della Chiesa, 21 novembre 2024). Appare poi la verità della vita umana che passa da una generazione all’altra consegnando tre cose: un nome che racchiude un’identità e una missione uniche; l’appartenenza a una famiglia e a un popolo; e infine l’adesione di fede al Dio d’Israele.

La genealogia è un genere letterario, cioè una forma adatta a veicolare un messaggio molto importante: nessuno si dà la vita da sé stesso, ma la riceve in dono da altri; in questo caso, si tratta del popolo eletto e chi eredita il deposito della fede dei padri, nel trasmettere la vita ai figli, consegna loro anche la fede in Dio.

Diversamente però dalle genealogie dell’Antico Testamento, dove appaiono solo nomi maschili, perché in Israele è il padre a imporre il nome al figlio, nella lista di Matteo tra gli antenati di Gesù compaiono anche le donne. Ne troviamo cinque: Tamar, la nuora di Giuda che, rimasta vedova, si finge prostituta per assicurare una discendenza a suo marito (cfr Gen 38); Racab, la prostituta di Gerico che permette agli esploratori ebrei di entrare nella terra promessa e conquistarla (cfr Gs 2); Rut, la moabita che, nel libro omonimo, resta fedele alla suocera, se ne prende cura e diventerà la bisnonna del re Davide; Betsabea, con cui Davide commette adulterio e, dopo aver fatto uccidere il marito, genera Salomone (cfr 2Sam 11); e infine Maria di Nazaret, sposa di Giuseppe, della casa di Davide: da lei nasce il Messia, Gesù.

Le prime quattro donne sono accomunate non dal fatto di essere peccatrici, come a volte si dice, ma di essere straniere rispetto al popolo d’Israele. Ciò che Matteo fa emergere è che, come ha scritto Benedetto XVI, «per il loro tramite entra … nella genealogia di Gesù il mondo delle genti – si rende visibile la sua missione verso ebrei e pagani» (L’infanzia di Gesù, Milano-Città del Vaticano 2012, 15).

Mentre le quattro donne precedenti sono menzionate accanto all’uomo che è nato da loro o a colui che l’ha generato, Maria, invece, acquista particolare risalto: segna un nuovo inizio, è lei stessa un nuovo inizio, perché nella sua vicenda non è più la creatura umana protagonista della generazione, ma Dio stesso. Lo si vede bene dal verbo «è nato»: «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo» (Mt 1,16). Gesù è figlio di Davide, innestato da Giuseppe in quella dinastia e destinato ad essere il Messia d’Israele, ma è anche figlio di Abramo e di donne straniere, destinato quindi ad essere la «Luce delle genti» (cfr Lc 2,32) e il «Salvatore del mondo» (Gv 4,42).

Il Figlio di Dio, consacrato al Padre con la missione di rivelare il suo volto (cfr Gv 1,18; Gv 14,9), entra nel mondo come tutti i figli dell’uomo, tanto che a Nazaret sarà chiamato «figlio di Giuseppe» (Gv 6,42) o «figlio del falegname» (Mt 13,55). Vero Dio e vero uomo.

Fratelli e sorelle, risvegliamo in noi la memoria grata nei confronti dei nostri antenati. E soprattutto rendiamo grazie a Dio, che, mediante la madre Chiesa, ci ha generati alla vita eterna, la vita di Gesù, nostra speranza.

Papa Francesco