I Cappuccini


'12 COME GLI APOSTOLI'

OGNI GIORNO I FRANCESCANI DI IMPERIA ACCOLGONO 12 BISOGNOSI ALLA LORO MENSA

«Ogni giorno accogliamo dodici persone. Un numero simbolico, dodici come gli apostoli. Le persone si devono prenotare e iscriversi nella lista. Gli altri si devono accontentare del cosiddetto sacchetto. Si dà quello che passa il convento. La provvidenza è grande e basta sempre per il primo e il secondo piatto, la frutta o il dolce. La lista si rinnova ogni settimana dando anche agli altri la possibilità di mangiare un piatto caldo. Quando il numero supera il 12 (succede spesso) ci comportiamo in questa maniera: se c’è una persona in più la accogliamo lo stesso per non mandarla da sola con il sacchetto. Se sono 14 o più, ne accogliamo 12 e agli altri diamo un sacchetto di viveri (un panino, una scatoletta di tonno, una di carne, un formaggino, un frutto, un dolce). Il numero medio dei poveri che bussano alla porta per mangiare è 14-15 per giorno».
 

Le parole di Fra Andrea, padre francescano e guardiano della chiesa-convento dei Cappuccini di piazza Roma, pubblicate sul bollettino parrocchiale “Ascoltami”, spiegano - più di ogni altra cosa - la situazione di grande difficoltà, sociale ed economica, di tanti, non solo extracomunitari o clochard, ma anche italiani. Gente di ogni età, costretta dagli eventi a chiedere un pasto caldo o un pacchetto viveri ai Cappuccini imperiesi.
 

«Noi frati cappuccini non abbiamo un’attività specifica: missioni, opere di carità, parrocchie, scuole, ospedali... - continua Fra Andrea - dobbiamo semplicemente sforzarci di fare da ponte tra gli uomini. La mensa dei poveri presso il nostro convento è una piccola testimonianza di questa realtà storica». Fra Andrea è un giovane francescano molto amato e apprezzato a Porto Maurizio, e non solo dai parrocchiani. Un anno fa, durante il tradizionale rito pasquale del Giovedì Santo, nel lavare i piedi ai poveri ha chiesto ai fedeli non le solite offerte in denaro ma viveri per la mensa. Il risultato? Decisamente positivo. Sono in continua crescita le offerte di generi alimentari di associazioni e privati. Tanto che, come sottolinea lo stesso Fra Andrea, «non abbiamo più bisogno di rivolgerci alle fondazioni».

 

Nelle ultime settimane è nato il progetto per una raccogliere fondi per rendere l’ambiente più accogliente e risistemare la sala da pranzo. Il locale sinora utilizzato è diventato troppo piccolo, viste e considerate le richieste di ospitalità in aumento. «Grazie a Dio, grazie ai benefattori che fanno carità e grazie ai poveri che, bussando alla porta e chiedendo il pane, ci aprono la porta del Paradiso», si congeda Fra Andrea. Tra i più assidui benefattori del convento ci sono i volontari dell’Ordine di Malta e gli operatori dell’Aido (associazione italiana donatori organi). «Il nostro è un progetto di aiuto verso i nostri concittadini che versano in stato di povertà», conferma Corrado Milintenda, portavoce del corpo italiano di soccorso dell’Ordine di Malta. Secolo XIX - Giorgio Bracco

 

 

 

 

NAPOLI, 20 Febbraio 2015 (Zenit.org) - Prima uscita fuori Roma per la "Sveglia francescana", il gruppo di evangelizzazione di strada creato da frati studenti del Seraphicum, che domani sera sarà dalle 21.30 nel centro di Napoli.

 

Il gruppo, composto da giovani frati di diverse nazionalità, è stato invitato ad animare la serata partenopea a piazza San Domenico Maggiore, nella zona di Spaccanapoli.  Un momento atteso in quanto si tratta della prima uscita ufficiale del gruppo fuori Roma, nato appena qualche mese fa ma già con un considerevole seguito, richieste di animazioni in diverse parti d'Italia e apprezzamento proprio per il modo gioioso ed efficace con cui riesce a parlare di Dio.

 

Musica, canti, balli, preghiere, confessioni e adorazione eucaristica nella chiesa di Sant'Angelo a Nilo caratterizzeranno il sabato sera in terra napoletana per questi nuovi "giullari di Dio" che, ripercorrendo la storia francescana, sembrano aver mutuato da san Francesco proprio quel modo di giubilare definito dal biografo Tommaso da Celano "alla maniera giullaresca".

 

Come ricorda fra Francesco Costa, docente emerito del Seraphicum e studioso di francescanesimo, in un articolo sulla predicazione francescana, Francesco di Assisi "voleva che i frati, andando in gruppo, dopo la predica di uno dei più capaci tra essi, «tutti insieme cantassero le laudi del Signore, come giullari di Dio», perché diceva: «Che cosa sono i servi di Dio se non i suoi giullari, che devono commuovere il cuore degli uomini ed elevarlo alla gioia spirituale? »".

 

Prossimo appuntamento in calendario, il 7 e 8 marzo a Susa (To).

 

Per informazioni sulla Sveglia francescana e sulle attività del gruppo: https://www.facebook.com/svegliafrancescana

 

 

 

 



 

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Messaggio Cristiano
Udienza Generale - Piazza San Pietro Mercoledì, 10 Settembre 2025

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. III. La Pasqua di Gesù. 6. La morte. «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37)

Cari fratelli e sorelle,
buongiorno e grazie per la vostra presenza, una bella testimonianza!

Oggi contempliamo il vertice della vita di Gesù in questo mondo: la sua morte in croce. I Vangeli attestano un particolare molto prezioso, che merita di essere contemplato con l’intelligenza della fede. Sulla croce, Gesù non muore in silenzio. Non si spegne lentamente, come una luce che si consuma, ma lascia la vita con un grido: «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37). Quel grido racchiude tutto: dolore, abbandono, fede, offerta. Non è solo la voce di un corpo che cede, ma il segno ultimo di una vita che si consegna.

Il grido di Gesù è preceduto da una domanda, una delle più laceranti che possano essere pronunciate: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È il primo verso del Salmo 22, ma sulle labbra di Gesù assume un peso unico. Il Figlio, che ha sempre vissuto in intima comunione con il Padre, sperimenta ora il silenzio, l’assenza, l’abisso. Non si tratta di una crisi di fede, ma dell’ultima tappa di un amore che si dona fino in fondo. Il grido di Gesù non è disperazione, ma sincerità, verità portata al limite, fiducia che resiste anche quando tutto tace.

In quel momento, il cielo si oscura e il velo del tempio si squarcia (cfr Mc 15,33.38). È come se il creato stesso partecipasse a quel dolore, e insieme rivelasse qualcosa di nuovo: Dio non abita più dietro un velo, il suo volto è ora pienamente visibile nel Crocifisso. È lì, in quell’uomo straziato, che si manifesta l’amore più grande. È lì che possiamo riconoscere un Dio che non resta distante, ma attraversa fino in fondo il nostro dolore.

Il centurione, un pagano, lo capisce. Non perché ha ascoltato un discorso, ma perché ha visto morire Gesù in quel modo: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). È la prima professione di fede dopo la morte di Gesù. È il frutto di un grido che non si è disperso nel vento, ma ha toccato un cuore. A volte, ciò che non riusciamo a dire a parole lo esprimiamo con la voce. Quando il cuore è pieno, grida. E questo non è sempre un segno di debolezza, può essere un atto profondo di umanità.

Noi siamo abituati a pensare al grido come a qualcosa di scomposto, da reprimere. Il Vangelo conferisce al nostro grido un valore immenso, ricordandoci che può essere invocazione, protesta, desiderio, consegna. Addirittura, può essere la forma estrema della preghiera, quando non ci restano più parole. In quel grido, Gesù ha messo tutto ciò che gli restava: tutto il suo amore, tutta la sua speranza.

Sì, perché anche questo c’è, nel gridare: una speranza che non si rassegna. Si grida quando si crede che qualcuno possa ancora ascoltare. Si grida non per disperazione, ma per desiderio. Gesù non ha gridato contro il Padre, ma verso di Lui. Anche nel silenzio, era convinto che il Padre era lì. E così ci ha mostrato che la nostra speranza può gridare, persino quando tutto sembra perduto.

Gridare diventa allora un gesto spirituale. Non è solo il primo atto della nostra nascita – quando veniamo al mondo piangendo –: è anche un modo per restare vivi. Si grida quando si soffre, ma pure quando si ama, si chiama, si invoca. Gridare è dire che ci siamo, che non vogliamo spegnerci nel silenzio, che abbiamo ancora qualcosa da offrire.

Nel viaggio della vita, ci sono momenti in cui trattenere tutto dentro può consumarci lentamente. Gesù ci insegna a non avere paura del grido, purché sia sincero, umile, orientato al Padre. Un grido non è mai inutile, se nasce dall’amore. E non è mai ignorato, se è consegnato a Dio. È una via per non cedere al cinismo, per continuare a credere che un altro mondo è possibile.

Cari fratelli e sorelle, impariamo anche questo dal Signore Gesù: impariamo il grido della speranza quando giunge l’ora della prova estrema. Non per ferire, ma per affidarci. Non per urlare contro qualcuno, ma per aprire il cuore. Se il nostro grido sarà vero, potrà essere la soglia di una nuova luce, di una nuova nascita. Come per Gesù: quando tutto sembrava finito, in realtà la salvezza stava per iniziare. Se manifestata con la fiducia e la libertà dei figli di Dio, la voce sofferta della nostra umanità, unita alla voce di Cristo, può diventare sorgente di speranza per noi e per chi ci sta accanto.

LEONE XIV