Testimoni del nostro tempo |
Eli, una vita accanto al "fuoco"
26 novembre 2018
Di Oreste Paliotti
Fonte: Città Nuova
Ci ha lasciati a 92 anni la più stretta confidente e collaboratrice di Chiara Lubich, la sua “testimone” per eccellenza. I funerali si svolgeranno al Centro Mariapoli di Castel Gandolfo, giovedì 29 novembre alle 10.30

«Chi sta vicino a me, sta vicino al fuoco», è uno dei detti di Gesù non riportati dai Vangeli canonici. Igino Giordani amava riferirlo anche alla fondatrice del Focolari, a Chiara Lubich, suggerendo così che la prossimità ad una carismatica come lei era sperimentare quel “fuoco” dello Spirito che Cristo è venuto ad accendere sulla terra.
Vivere accanto ad una persona portatrice di un fuoco del genere, partecipare con essa alla nascita e agli sviluppi di un’opera di Dio, fra le continue sorprese dello Spirito, è certo esaltante; ma comporta anche non sentirsi mai al livello del fondatore, il quale, “vedendo” già il dover essere della sua creatura, il suo disegno, vorrebbe bruciare le tappe per compierlo ma intanto deve adattarsi ai tempi di chi lo sta seguendo. E tanto più nel caso di una spiritualità collettiva come quella dei Focolari.
Finché Chiara ha vissuto, è stata questa l’esperienza di Eli Folonari, per oltre cinquant’anni sua segretaria personale (ma lei preferiva essere considerata piuttosto amica e confidente). Una posizione privilegiata che le ha consentito di assistere, giorno dopo giorno, alla straordinaria avventura di una donna che ha aperto nuove strade nel dialogo ecumenico, interreligioso e interculturale. Presenza silenziosa fino alla nascita al Cielo della fondatrice (14 marzo 2008), da allora Eli si è fatta parola per testimoniare il rapporto di Chiara con Dio, le passioni, gli interessi e l’anima di lei, il suo messaggio di pace e di fraternità universale, i suoi incontri con leader delle Chiese cristiane e di altre religioni, con personaggi della società civile e della cultura, ma anche con la gente comune. E soprattutto ci ha restituito la Chiara meno nota, quella della vita quotidiana.
Eli Folonari era nata nel 1926 a Milano da Luigi, proprietario di un’affermata azienda vinicola, e da Speranza. Dopo alcuni anni si erano trasferiti a Brescia. La sua era una famiglia benestante e numerosa dove Eli (ma il suo vero nome era Giulia) era primogenita di otto figli: quattro maschi e quattro femmine, di cui altri tre con lei hanno seguito la via del focolare. Una scelta, la sua, che ha origine nel suo primo incontro con la fondatrice: «Quando ho conosciuto Chiara nell’estate del 1951 a Tonadico, uscendo dalla chiesetta di quel paese ai piedi delle Dolomiti, sono stata fortemente impressionata dal suo sguardo. Dandomi la mano, mi ha detto soltanto “Buongiorno!”, ma subito quegli occhi mi hanno richiamato lo sguardo stesso di Gesù di cui parla il Vangelo».
Ferita da quello sguardo d’amore, contrariamente al giovane ricco dell’episodio evangelico Eli ha detto il suo sì a Gesù dietro le orme di Chiara, agli inizi del Movimento a Roma. E da allora non l’ha più lasciata, condividendo – come pochi altri – gioie, fatiche apostoliche, dolori fisici e spirituali. Ogni qualvolta le veniva chiesto di definire la sua vita con la Lubich, rispondeva: «È stata una lunga corsa con l’anima per starle dietro, sempre con la sensazione di mai poterla raggiungere. Con Chiara si passava di sorpresa in sorpresa, incalzata com’era dallo Spirito, la cui azione è imprevedibile». Ma subito dopo teneva a dire: «Non bisogna pensare però che la vita con Chiara fosse solo contemplazione: era anche una vita molto semplice, di famiglia. Ogni tanto, quando fra noi c’era una grande unità, lei si sentiva libera di scherzare, di fare battute umoristiche, sempre nell’amore. Ogni tanto, per svago, vedeva qualcosa alla tv, commentava una notizia o l’altra, usciva per una passeggiata; le piaceva anche fare la spesa…».
Il grande merito di Eli, che apparirà sempre più a distanza di tempo, è stato quello di aver custodito una mole sterminata di scritti e documenti relativi alla fondatrice dei Focolari. Non per nulla, subito dopo la scomparsa di lei, ha dato vita al Centro Chiara Lubich, di cui è stata responsabile per diversi anni. Ma anche le va riconosciuto di aver trasmesso fedelmente il messaggio genuino di Chiara. Come nell’ultima malattia della Lubich, caratterizzata da una di quelle misteriose “notti” dello spirito che spesso Dio permette in un’anima per identificarla con sé e renderla ancora più feconda per il bene della Chiesa e dell’umanità. Un periodo dolorosissimo di grazie “oscure”, per dirla col linguaggio dei mistici, nel quale Eli è stata per Chiara, oltre che amica e sorella, anche madre.
Un suo ricordo di allora: «Quando c’erano lettere, relazioni, domande da far arrivare a Chiara, io cercavo di immedesimarmi nella situazione, per esporle il brano più importante oppure una sintesi, in modo che lei potesse dare una risposta adeguata. Non sempre era facile, occorreva capire in profondità le intenzioni di chi scriveva». Nelle sue condizioni, Chiara poteva dare solo risposte molto stringate: a volte solo una breve frase o un solo concetto. Ed Eli: «A volte, pensando di capire quello che lei avrebbe voluto dire, mi veniva da spiegare meglio la cosa. Ma sarebbe stato dare una mia interpretazione. Allora lasciavo così come aveva detto Chiara: chi legge – pensavo – avrà la grazia di capire quello che deve capire. Insomma, io cercavo di essere il più possibile niente».
Custodire e al tempo stesso farsi da parte, sparire addirittura perché gli altri potessero avere un rapporto diretto con Chiara. Questa è stata l’”arte”, la grandezza di Eli, il cui nome “nuovo” – tratto dal grido di Gesù in croce – riecheggia il supremo annientamento di Cristo, per amore.
Neppure due anni dopo la morte della Lubich, avevo avuto il privilegio di incontrare più volte la Folonari, per raccoglierne i ricordi in funzione in un libro-intervista. Gli incontri avevano luogo in una saletta del focolare di Chiara a Rocca di Papa, dove Eli viveva con le focolarine rimaste: una casa dove tutto parla di Chiara, ora meta continua di visitatori. Ogni intervista (ho registrato per un totale di circa diciotto ore) prendeva spunto da un argomento particolare: per esempio, i rapporti di Chiara con gli ultimi papi o con altri carismatici, il suo stile nel portare avanti i “dialoghi” in cui è impegnato il Movimento… Ma, come sempre avviene in questi casi, il filo dei ricordi faceva prendere all’intervista direzioni inaspettate con l’affiorare di nuovi episodi e aneddoti interessanti.
L’ultima domanda mi era venuta spontanea: cosa sentiva di dire di personale Eli a Chiara ora che non l’aveva più presente fisicamente? Una pausa di commosso silenzio da parte della Folonari, poi: «Non mi aspettavo una domanda del genere! Mi sembra di aver detto così poco in questa intervista, tanto siamo piccoli di fronte alle cose di Dio. Comunque le direi: “Grazie, Chiara, per la vita divina in cui mi hai coinvolta, con le sue vette e i suoi abissi! Grazie perché, oltre ad aver colmato le mie aspirazioni di totale dedizione a Dio e di ricostruzione sociale, mi hai aperto e fatto vivere sorprese inimmaginabili, che spero continueranno insieme, con tutti i tuoi, in Paradiso».
Lì dove ora possiamo immaginare che Eli abbia raggiunto Chiara e i suoi.
Per approfondire la figura di Giulia “Eli” Folonari, Lo spartito scritto in cielo. Cinquant’anni con Chiara Lubich, a cura di Oreste Paliotti e Michele Zanzucchi, Città Nuova, Roma 2012.
Una mamma, una adolescente, una scienziata, una donna “luminosa”. Nella giornata internazionale loro dedicata, un breve profilo di quattro donne che, toccate dal carisma dell’unità, hanno fatto della loro vita un capolavoro per Dio. Di queste e altre è in corso la causa di beatificazione.
María Cecilia Perrín è una solare ragazza argentina, nata a Punta Alta (Buenos Aires) nel 1957. Dopo due anni di fidanzamento, vissuti intensamente con il desiderio di mettere solide basi cristiane alla nascente famiglia, si sposa con Luis nel 1983. Due anni dopo, mentre è in corso una gravidanza, le viene diagnosticato un cancro. Con il sostegno del marito e della famiglia sceglie di non seguire il consiglio di un “aborto terapeutico”. Muore all’età di 28 anni, dopo la nascita della bambina. Per sua espressa richiesta, le sue spoglie riposano presso la Mariapoli Lia (O’Higgins, Buenos Aires), luogo di gioia e di speranza. La sua reputazione di santità, l’eroismo nell’accettazione della malattia, l’esempio di vita cristiana e le molte grazie ricevute per sua intercessione hanno fatto iniziare, il 30 novembre 2005, la causa della sua beatificazione.
Maria Orsola Bussone, nata nel 1954 a Vallo Torinese, nel nord Italia, è una bambina aperta, generosa, sportiva. A 11 anni partecipa con la famiglia ad un incontro del Movimento parrocchiale a Rocca di Papa. Scrive a Chiara Lubich: «Voglio amare sempre, per prima, senza aspettarmi nulla, voglio lasciarmi adoperare da Dio come vuole Lui e voglio fare tutta la mia parte, perché quella è l’unica cosa che vale nella vita». Il 10 luglio 1970, a 15 anni, mentre partecipa come animatrice a un campo estivo con la parrocchia, muore colpita da una scarica elettrica, mentre si asciuga i capelli con un phon. La sua fama di santità si diffonde, molta gente accorre alla sua tomba per invocarne l’intercessione. Tramite il diario e le lettere si conosce la sua spiritualità profonda. Le viene intitolato il Centro parrocchiale alla cui costruzione aveva contribuito. Il 17 dicembre 2000 si è conclusa la fase diocesana della causa di beatificazione. Il 18 marzo 2015 Papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui è stata dichiarata Venerabile.
Margarita Bavosi nata nel 1941, è la terza figlia di una famiglia benestante di Buenos Aires (Argentina). La sua vita è felice fino a dieci anni, quando le muore improvvisamente la mamma. L’acuto dolore la spinge a chiedere alla Vergine Maria di prendere il suo posto. L’incontro con il carisma dell’unità è la risposta al suo desiderio di santità. Si dona a Dio nel focolare. Per tutti diventa “Luminosa”. Trascorre alcuni anni in Brasile, Argentina e Uruguay. Diventa corresponsabile del Movimento dei Focolari in Spagna. A 40 anni avverte un inspiegabile declino fisico, ma solo dopo tre anni arriva una prognosi precisa. Ben presto non riesce più a muoversi ma continua a costruire rapporti, facendo proprio il motto di S. Luigi Gonzaga “continuo a giocare”. La notte del 6 marzo 1985, tra lo stupore dei presenti, dice: «Eccomi Gesù, ho sempre cercato, in ogni momento, di fare tutto davanti a Te». Il 22 novembre 2008 si è chiusa la fase diocesana del processo di canonizzazione. A lei sono stati intitolati il centro del Movimento dei Focolari di Madrid e la cittadella internazionale nei pressi di New York.
Renata Borlone nasce il 30 maggio 1930 ad Aurelia (Civitavecchia, vicino Roma). Cresce in una famiglia non praticante ma unita, e a 10 anni assiste allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Assetata di verità, la cerca negli studi. Si iscrive alla Facoltà di Chimica, è una appassionata delle scienze. A 19 anni viene a contatto con la vita evangelica di alcune delle prime focolarine, appena trasferite a Roma, e attraverso loro le si fa evidente una certezza: Dio è amore! A 20 anni entra in focolare e per 40 anni è a servizio dell’Opera di Maria, con compiti di responsabilità in Italia e all’estero. Dal 1967 arriva alla Scuola di formazione di Loppiano dove trascorre 23 anni nella tensione costante alla santità. A 59 anni le viene annunciata una grave malattia, e i pochi mesi che le rimangono sono un’impennata in Dio. Pur nella sofferenza trasmette gioia e sacralità e ripete fino all’ultimo istante: “Voglio testimoniare che la morte è vita”. Il 27 febbraio 2011 si è chiusa la fase diocesana del processo di beatificazione.
Ora che finisce l’anno scolastico voglio comunicarvi qualcosa di ciò che sto vivendo”, così iniziava una lettera, Cecilia, rivolta ai suoi alunni, nel 1984. “Molte volte abbiamo detto che Dio è Amore. Adesso posso dirvi che è l’esperienza più profonda che sto vivendo. La situazione è difficile, ma non immaginate ciò che significa abbandonarsi a Lui e dirgli: fai tu, questa è la tua volontà, manifestati come Tu vuoi. Lui copre tutto, tutto; il Suo amore si fa sentire, si fa sentire veramente. È come sentire il cuore che ti scoppia. Sembra una pazzia, perché non è qualcosa che si può capire con la ragione: soffrire fisicamente e sperimentare che aldilà di questo grande dolore ti invade una gioia che non finisce più.
“Sento che nel dolore uno si stacca da tutto e rimane solo con la parte più intima di sé stesso; e lì c’è Dio… e Lui è l’Amore. Allora, se lo scopri e lo accetti, Lui ti riempie, ti prende con sé.
“Sapete che il tumore è una malattia mortale; io vi posso assicurare che per me è qualcosa che mi dà la vita, che mi ha fatto vedere la meraviglia di viverla come Dio te la va mostrando. Vedete com’è Gesù, si serve di strade così originali per raggiungerti…”.
Maria Cecilia Perrín nasce a Punta Alta (provincia di Buenos Aires – Argentina) il 22 febbraio del 1957, figlia di Angela e Manolo Perrín. È battezzata nella parrocchia di Maria Ausiliatrice il 27 febbraio del 1957; terza di cinque figli: María Inés e Jorge i più grandi, Eduardo e Teresa i più piccoli.
L’ambito famigliare nel quale si svolge la vita della giovane Cecilia è di profonde radici cristiane: famiglia aperta allo Spirito Santo, nella quale penetra profondamente la spiritualità di Chiara Lubich. È una delle prime famiglie che aderisce alla spiritualità del Movimento dei Focolari e Cecilia è fra le prime gen.
Il 20 maggio del 1983, dopo due anni di fidanzamento, Cecilia sposa Luis Buide. Nel febbraio del 1984, mentre è incinta, le viene diagnosticato un tumore. Prende la decisione di accettare la volontà di Dio appoggiandosi su quattro pilastri: una fede profonda, il suo amore a Gesù Abbandonato, l’affetto di suo marito, dei suoi familiari e amici, e la forza dell’unità con chi condivide il suo ideale di vita.
La diagnosi non lascia scampo. Nonostante ciò, prova una grande gioia per la nuova vita che porta in sé. I medici consigliano un “aborto terapeutico” per salvare la sua vita. Lei non prende nemmeno in considerazione questa possibilità, convinta – da cristiana – del valore supremo della vita che ha in grembo. Cosciente che sarebbe morta dopo il parto, pronuncia con forza il suo “Fiat”, serena davanti a Dio, accompagnata da tutta la comunità del Movimento dei Focolari.
Scrive: “Oggi ho potuto dire il mio sì a Gesù. Credo nel Suo amore aldilà di tutto, e che tutto è Amore suo. Mi affido a Lui”. Il 1° marzo del 1985, Maria Cecilia Perrin de Buide muore all’età di 28 anni.
Per suo espresso desiderio, riposa nel cimitero della Mariapoli Lia, a O’Higgins (Buenos Aires). E oggi, chi va al piccolo camposanto, non trova un luogo di morte e desolazione ma di speranza e di gioia.
La sua fama di santità, l’eroicità della sua fiducia in Dio, l’esempio della sua vita cristiana, e molte grazie che sono state attribuite alla sua intercessione, hanno messo in moto la causa di beatificazione. Il processo diocesano si trova già in una fase molto avanzata. Anche per il suo papà, Manolo Perrín, deceduto alcuni anni dopo, è iniziato il processo di beatificazione.
Sulla tomba di Cecilia si legge una sua frase rivolta a Gesù: “Le tue vie sono una pazzia, spezzano la mia umanità, ma sono le uniche che voglio percorrere.”
L'amore essenziale, schietto e concreto, come nelle prime comunità cristiane (3 agosto 1923-17 maggio 1995)
In un messaggio ai focolari Chiara Lubich l’ha definita: “Una delle principali colonne del Movimento, dotata di un particolarissimo compito”. Fin dal ’54, infatti, Giosi Guella curò e seguì l’aspetto della “comunione dei beni e del lavoro” di tutto il Movimento dei focolari. Ma è stata anche responsabile del Movimento a Trento, Roma, Milano, in Benelux e negli USA.
È il 23 aprile 1944 quando Giosi Guella viene invitata da un’amica a passare una domenica all’aperto con un gruppo di ragazze. È così che questa giovane di 21 anni, nata tra le montagne trentine, in un ambiente povero ma sano e ricco di valori, incontra per la prima volta «Ho avvertito la presenza di Dio in un modo talmente forte da poter dire che quel giorno Dio è diventato l’Ideale della mia vita», racconta Giosi. E ricorda che anche «Chiara era rimasta stupita perché, una settimana prima, mi aveva vista passare e mi aveva affidata a Gesù, perché mi portasse Lui, quando voleva, al suo Amore. Ed ero già arrivata!»
Da allora Giosi sceglie di seguire l’Ideale di Chiara. Affascinata fin da bambina dallo spirito coraggioso dei missionari, Giosi si getta con lo stesso ardore a sviluppare questa nuova opera di Dio: «Abbiamo cominciato ad aiutare in grande stile i poveri… Dare l’elemosina sulla strada non bastava: noi dovevamo risolvere il loro problema, dovevamo andare fino in fondo. Finivamo coll’arrivare a casa ciascuna con un povero e, se noi eravamo sette, a tavola (nel primo focolare di Trento, ndr) eravamo in quattordici!» È sempre Giosi a raccontare: «In seguito abbiamo compreso che ci sono anche altri poveri, poiché mancano di Dio. Non bastava che dessimo pane a sufficienza a chi ne aveva bisogno: soprattutto dovevamo dare Dio!»
Dio sì, ma insieme a tanti aspetti concreti: affitto, documenti, vitto, studi, vestiario, preventivi…Giosi ha sempre avuto ‘i piedi per terra’ e Chiara si accorge da subito di questa sua dote particolare. Perciò le affida lo sviluppo della comunione dei beni, che nel Movimento incipiente – come nelle prime comunità cristiane – si è attuata dall’inizio.
Come una calamita degli afflitti e dei poveri, Giosi davvero incarnava quel “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” (Mt 11,28), frase del Vangelo che Chiara aveva scelto per lei.
Giosi è stata in Italia, in Benelux e negli USA, dove ha contribuito all’espandersi del Movimento e ancora oggi è ricordata ancora con affetto e riconoscenza.
Quando le si è manifestata la malattia che l’ha portata il 17 maggio 1995 a raggiungere il Cielo, tutta una rete di persone che aveva aiutato si è stretta intorno a lei.
Ancora pochi giorni prima della sua morte, scriveva a Chiara: “Per i tuoi prossimi impegnativi incontri sta certa della mia unità e dell’offerta quotidiana”, rivelando in questo come in altri episodi, che la sua tensione a vivere per gli altri è rimasta fino alla fine.
Chi sono, oggi, tra noi quelli che Gesù chiamava “i più piccoli tra i miei fratelli”, gli ultimi?».
È con questa domanda che, insieme agli altri volontari di Dio della sua città, Hermann inizia negli anni ’70 la sua esperienza a Herten, città industriale nella parte nord-occidentale della Germania.
Proveniente da una famiglia di operai, dopo alcuni anni di lavoro in fabbrica e successivamente in seminario, nel ’72 ottiene il diploma di assistente sociale e trova la sua strada scegliendo di vivere la spiritualità dei focolari da volontario, impegnato nel sociale.
“Nessun uomo può vivere solo per sé”. Così Hermann aveva scritto a grandi lettere sul suo pulmino. E questo motto diventa la sua regola di vita. Come primo direttore della Caritas di Herten, svolge azioni di risanamento sociale sul territorio per l’integrazione dei rifugiati, per assicurare migliori condizioni di vita ai più emarginati: “Se nessuno è responsabile, sono io responsabile”.
Fondamentale per il suo agire è la condivisione spirituale con i volontari dei Focolari. Così uno di questi: «Hermann ci raccontava spesso le sue esperienze di vita, tutte ispirate alla concretezza del Vangelo».
I primi “piccoli” per cui Hermann inizia a spendersi insieme agli operatori della Caritas (di cui farà parte per oltre 20 anni), sono i senzatetto della baraccopoli di Herten, non esitando ad andare persino a vivere con loro. Dopo 14 anni di lavoro si riesce a trovare una sistemazione migliore alle 63 famiglie di baraccati e infine il quartiere può essere chiuso.
Sempre con la Caritas e con i finanziamenti pubblici, Hermann fa costruire un edificio composto da 5 appartamentini indipendenti per disabili e la Casa Francesco d’Assisi: una grande struttura con oltre 170 appartamenti per anziani in pieno centro città. «Di pace e tranquillità noi ne abbiamo anche già troppi!» gli avevano detto infatti gli anziani ospiti. I risultati sono sorprendenti per la dinamicità e l’indipendenza che viene loro garantita e vengono realizzati persino studi sul suo modo di operare.
L’ultima sua iniziativa, nel 1988, è a favore di 300 rifugiati politici, arrivati a Herten in quel periodo. Riferirà dopo qualche tempo: «C’è ora chi aiuta a cercare abitazioni, a ristrutturarle e tappezzarle. Molti miei concittadini sono diventati amici dei rifugiati. Appena si stabilivano rapporti personali tra le due parti, sparivano pregiudizi e paure».
È la malattia che infine lo colpisce a svelare, in modo particolare, quanto sia profondo l’animo di Hermann. Scrive a Chiara Lubich il 12 aprile 1990: “Ora il dolore c’è davvero, mi costa molto dire sempre di sì a Dio, non avrei creduto che costasse tanto. Ma devo amare sino alla fine. Solo se amo ed amiamo sino alla fine la gente crederà”.
Si spegne poco dopo, il 24 aprile. Ai suoi funerali, un musulmano siriano prega sulla sua bara; una alcolista, facendosi largo tra la grande folla, vi deposita un garofano rosso; tutta la comunità locale dei focolari si stringe intorno a lui e ancora adesso lo sente vivo con sé.
Nel 2004 nasce, ad opera della Caritas, la fondazione “Hermann Schäfers” che prolunga il suo operato nella città di Herten. Sul sito della fondazione si ricorda che la sua vita ed il suo lavoro hanno avuto questo fondamento: la convinzione profonda che “Dio è amore“.
|
| |
|