Aperta la beatificazione di padre Jacques, martire dell´Isis
Torturati, offesi, vilipesi, ricattati, picchiati, i cristiani offrono la loro sofferenza per la salvezza anche dei persecutori.
Il Papa ha autorizzato l’apertura della causa prima dei cinque anni dalla morte che vengono attesi di solito
Potrebbe salire presto agli onori degli altari padre Jacques Hamel, il sacerdote francese ucciso nel luglio 2016 in odio alla fede. Ottantasei anni, parroco della chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray, nei pressi di Rouen, è stato sgozzato da due jihadisti che hanno fatto irruzione nell’edificio sacro mentre egli stava officiando la Messa. L’attentato è stato rivendicato dalla sigla “Isis”.
Il 13 aprile scorso, giovedì santo, il vescovo di Rouen, mons. Dominique Lebrun, ha ufficialmente avviato il processo diocesano. La causa avrà modo di iniziare grazie all’autorizzazione concessa da Papa Francesco, nell’autunno scorso, di sospendere nella fattispecie la regola canonica che impone un tempo di almeno cinque anni dalla morte prima di aprire un processo di beatificazione.
“Se il risultato sarà positivo – si legge sul sito della diocesi di Rouen – il martirio di padre Jacques sarà ufficialmente riconosciuto per aver subito la morte in odium fidei, credendo fino alla fine a Gesù Cristo”.
La fase diocesana dell’iter prevede la raccolta di testimonianze e di documentazione in Francia. Terminata questa fase, il materiale raccolto verrà trasferito a Roma, alla Congregazione per le Cause dei Santi, per la seconda e ultima parte del processo.
Il 14 settembre 2016, un mese e mezzo dopo l’assassinio, Papa Francesco ha dedicato una Messa mattutina a Casa Santa Marta all’anziano parroco martire. In quell’occasione il Pontefice ha attestato il martirio e ha così sollecitato i fedeli: “Dobbiamo pregarlo eh! (…) è un martire, i martiri sono beati… Dobbiamo pregarlo che ci dia la fraternità, la mitezza, la pace, anche il coraggio di dire la verità: uccidere in nome di Dio è satanico”.
Nel gennaio scorso a Ermont, nella regione transalpina dell’Île-de-France, è stata dedicata una piazza a padre Jacques.
Mercoledì, 14 settembre 2016 Nella Croce di Gesù Cristo – oggi la Chiesa celebra la festa della Croce di Gesù Cristo – capiamo pienamente il mistero di Cristo, questo mistero di annientamento, di vicinanza a noi. Lui, «essendo nella condizione di Dio – dice Paolo –, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, a una morte di croce» (Fil 2,6-8). Questo è il mistero di Cristo. Questo è un mistero che si fa martirio per la salvezza degli uomini. Gesù Cristo, il primo Martire, il primo che dà la vita per noi. E da questo mistero di Cristo incomincia tutta la storia del martirio cristiano, dai primi secoli fino a oggi.
I primi cristiani hanno fatto la confessione di Gesù Cristo pagando con la loro vita. Ai primi cristiani era proposta l’apostasia, cioè: “Dite che il nostro dio è quello vero, non il vostro. Fate un sacrificio al nostro dio o ai nostri dei”. E quando non facevano questo, quando rifiutavano l’apostasia, venivano uccisi. Questa storia si ripete fino a oggi; e oggi nella Chiesa ci sono più martiri cristiani che non ai primi tempi. Oggi ci sono cristiani assassinati, torturati, carcerati, sgozzati perché non rinnegano Gesù Cristo. In questa storia, arriviamo al nostro père Jacques: lui fa parte di questa catena di martiri. I cristiani che oggi soffrono – sia nel carcere, sia con la morte o con le torture – per non rinnegare Gesù Cristo, fanno vedere proprio la crudeltà di questa persecuzione. E questa crudeltà che chiede l’apostasia – diciamo la parola – è satanica. E quanto sarebbe bene che tutte le confessioni religiose dicessero: “Uccidere in nome di Dio è satanico”.
Padre Jacques Hamel è stato sgozzato sulla Croce, proprio mentre celebrava il sacrificio della Croce di Cristo. Uomo buono, mite, di fratellanza, che sempre cercava di fare la pace, è stato assassinato come se fosse un criminale. Questo è il filo satanico della persecuzione. Ma c’è una cosa, in quest’uomo che ha accettato il suo martirio lì, con il martirio di Cristo, all’altare, c’è una cosa che mi fa pensare tanto: in mezzo al momento difficile che viveva, in mezzo anche a questa tragedia che lui vedeva venire, un uomo mite, un uomo buono, un uomo che faceva fratellanza, non ha perso la lucidità di accusare e dire chiaramente il nome dell’assassino, e ha detto chiaramente: “Vattene, Satana!”. Ha dato la vita per noi, ha dato la vita per non rinnegare Gesù. Ha dato la vita nello stesso sacrificio di Gesù sull’altare e da lì ha accusato l’autore della persecuzione: “Vattene, Satana!”.
E questo esempio di coraggio, ma anche il martirio della propria vita, di svuotare sé stesso per aiutare gli altri, di fare fratellanza tra gli uomini, aiuti tutti noi ad andare avanti senza paura. Che lui dal Cielo – perché dobbiamo pregarlo, è un martire!, e i martiri sono beati, dobbiamo pregarlo – ci dia la mitezza, la fratellanza, la pace, e anche il coraggio di dire la verità: uccidere in nome di Dio è satanico.
Papa Francesco
Cinquant’anni di servizio sacerdotale alle spalle e un carisma incredibile che lo aveva spinto a continuare a celebrare messa nonostante i suoi 86 anni. Il ricordo del parroco e dei fedeli: «Era un prete coraggioso per la sua età»
Il “testamento” di padre Jacques: «Pregate per vivere meglio insieme»
«Le vacanze sono un momento per prendere distanza dalle nostre attività abituali. Si tratta di un momento di relax, ma anche di guarigione, di incontri, di condivisione, di convivialità» scriveva a giugno padre Jacques in una lettera aperta pubblicata sul blog della parrocchia, in cui invitava i suoi concittadini a godere del tempo delle vacanze estive per «incontrare parenti e amici e per sperimentare qualcosa insieme».
«Un tempo per essere rispettosi degli altri, chiunque essi siano» scriveva ancora come un messaggio profetico che di poche settimane ha preceduto la sua atroce morte per mano dei due attentatori che hanno agito in una mattina di fine luglio.
«Pregate per coloro che sono più bisognosi, per la pace, per vivere meglio insieme [...] Lasciate che le vacanze ci permettano di fare rifornimento di gioia, amicizia e relax».
(Da il Sussidiario net. Paolo Vites, Domenica 22 maggio 2016 )
Come si fa a stare davanti a questo? Già, come si fa a stare davanti a tanto orrore che pare impossibile guardarlo, pensarlo, leggerlo? E' quanto scrive in un commento alla notizia pubblicata ieri sul sussidiario.net un lettore. Impossibile umanamente, sarebbe la risposta, anche se la domanda, forse, vuole suggerire che bisognerebbe agire in qualche modo per far sì che quanto accaduto non succeda più.
Non si può stare inermi davanti a una bambina di 12 anni bruciata viva. Oppure, ancora, come si fa a stare davanti a una testimonianza di fede che sembra andare indietro nel tempo, fino a quel giorno sul Calvario quando Gesù, morente sulla croce si rivolse a Dio: "Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno".
In un giorno come un altro, di un orrore cominciato nel giugno di due anni fa, quando i miliziani dell'Isis occupano e mettono le loro bandiere nere nella città irachena di Mosul, la seconda città per importanza dell'Iraq, quando tutto il mondo guarda attonito senza capire quello che sta succedendo laggiù. Chi sono questi assassini e che cosa vogliono? Nel mondo sta facendo irruzione un male nuovo, ma antico, belluino e cattivo, per il quale vale solo l'esempio dei campi di concentramento nazisti oppure delle stragi di donne, vecchie, bambini nella Bosnia musulmana. L'abbaglio del mondo occidentale sprofondato nel suo sonno farà scoprire solo troppo tardi cosa sta succedendo.
In un giorno che non sappiamo esattamente quale, ma che importa, i nuovi nazisti bussano alla porta di casa di una famiglia cristiana. Apre una donna, le dicono che deve pagare "subito" la tassa di sottomissione all'Islam o dovranno andarsene immediatamente. E' la jizya, come insegna il Corano, che nei secoli antichi permetteva ai non musulmani di vivere "protetti" e professare la propria fede in libertà, anche se con meno diritti civili dei musulmani. Adesso è una scusa, per imporre violenza e morte.
La donna dice loro: va bene, pago, lasciate solo che mia figlia esca dal bagno. In casa ci sono solo lei e la figlia di 12 anni, sta facendo la doccia. Non c'è il marito e padre, probabilmente già ucciso dagli uomini del califfato. No, paga subito, "immediatamente" dicono gli uomini in nero. Un momento solo, implora la donna. No neanche un secondo. Entrano in casa e vanno dritti nel bagno, danno fuoco alle tende, incendiano tutto.
Quando hanno saputo che in casa c'era una bambina hanno goduto all'idea di farla morire nel modo peggiore possibile: a che punto può arrivare il male? A un punto sconfinato. La mamma tra le fiamme prende la sua bambina, corre all'ospedale. E' tutta coperta di ustioni. Fa in tempo solo ad arrivare alla porta, la bambina sta esalando gli ultimi respiri. Fa in tempo a dire le sue ultime parole: "Mamma, perdonali".
Cosa permette a una bambina di 12 anni di morire con queste parole in bocca? Forse non era più lei a parlare, forse era Gesù sulla Croce a parlare, mentre attraverso le braccia della mamma la sorreggeva e la stava già portando via con sé in Paradiso. Forse era una fede immensa, quella dei piccoli santi innocenti, che non odiano nessuno. Anche se la tua carne è stata bruciata e stai provando il dolore più sconvolgente.
Forse è una fede vissuta per secoli in città e regioni dove cristiani e musulmani si sono accolti a vicenda, sostenuti, convissuto, rispettati, anche voluti bene.
Una fede che è stata tramandata all'ultima cristiana, una bambina di 12 anni, ma non nelle parole e nelle intenzioni, ma nella carne, che adesso brucia.
Una fede a cui l'hanno educata i genitori nella povertà e nella semplicità.
Una fede che sopravvive nella carne bruciata di una bambina.
Una fede che dice umilmente al mondo: perdonali. E' possibile questo a un essere umano, è possibile perdonare? E' una domanda che i cristiani devono porsi, perché non è scontato che siamo capaci di farlo. Certamente quelle parole della bambina sono l'unica certezza che un giorno in quelle terre oggi maledette si potrà tornare a vivere in pace: mamma, perdonali.
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Anselm, Marguerite, Judit, Reginette. I loro non erano volti noti al grande pubblico. Li conoscevano le persone – in gran parte disabili e anziani di famiglie troppo povere per poterli sfamare – per cui avevano scelto di spendere la vita. Gli altri no. I media mondiali hanno ignorato quei volti perfino quando sono stati sfregiati dai proiettili dell’odio fanatico, insieme a quelle di altre 12 persone. Facce invisibili di donne invisibili. Sono tante, troppe ancora nel mondo.
Per questo, l’Unione mondiale delle organizzazioni femminili cattoliche (Umofc/ Wucwo) ha voluto dedicare questo 8 marzo ad Anselm, Marguerite, Judit, Reginette, le suore massacrate ad Aden, in Yemen, venerdì scorso. Là erano andate – rispettivamente da India, Ruanda, Kenya e ancora Ruanda –, rapite dal carisma di Madre Teresa di Calcutta. Per assistere, come Missionarie della Carità, l’umanità ferita e scartata. Là hanno voluto restare, nonostante le ripetute minacce e la guerra civile, per non abbandonare i “loro” malati, quasi tutti di religione musulmana. E là sono morte per mano di un commando fondamentalista, forse appartenente al Daesh, che, accecato dal fanatismo ideologico, non ha risparmiato nemmeno i 12 collaboratori e dipendenti di fede islamica.
«Queste suore potremmo considerarle una sorta di punta dell’iceberg di ante persone», ha detto a Radio Vaticana Maria Giovanna Ruggeri, presidente dell’Unofc. E ha aggiunto: «Voglio ricordare le donne che in nome della propria fede vengono perseguitate, subiscono violenze di tutti i generi».
Un simbolo di coraggio femminile e un esempio per tutti, come ha sottolineato monsignor Nunzio Galantino, segretario della Conferenza episcopale italiana. Anselm, Marguerite, Judit, Reginette – come tante altre donne – hanno «scelto di rimanere accanto ai loro assistiti! Quante ne ho incontrato io nella mia vita. A loro va il mio grande affetto e la mia riconoscenza. Non solo oggi», ha scritto su Facebook monsignor Galantino. Il segretario della Cei ha espresso anche la propria «tristezza» per il silenzio dei media sulla strage. L’indifferenza della stampa nei confronti dell’eccidio è stata sottolineata pure dall’arcivescovo di Firenze, il cardinale Giuseppe Betori: «A parte l’Osservatore romano e Avvenire, nessuno ha dedicato loro due righe. Per loro non c’è memoria nella nostra società italiana». Il silenzio di tanta parte della stampa è stato stigmatizzato dal cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, che ieri sera in Duomo ha ribadito come «il martirio è il caso serio dell’essere cristiani». Forse si trattava di donne “scomode” – si legge sul sito www.azionecattolicamilano. it – capaci di testimoniare «ogni giorno la civiltà dell’amore, all’interno della guerra tra sunniti e sciiti». In omaggio alla forza delle quattro religiose, il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, celebrerà una Messa di suffragio nella chiesa di San Salvatore, nella città vecchia.
Cinque giorni dopo l’eccidio, nella casa delle Missionarie della Carità di Aden si respira l’assenza delle suore con il sari. Le religiose non ci sono più. La superiora, suor Sally, l’unica sopravvissuta per un soffio al massacro, «è fuori dal Paese e al sicuro, in un luogo protetto», hanno riferito ad AsiaNews fonti del Vicariato apostolico dell’Arabia meridionale. La struttura è sotto il controllo dei poliziotti, in attesa di trovare qualcuno che si occupi dei disabili e degli anziani rimasti.
Non c’è nemmeno il salesiano Tom Uzhunnalil, che collaborava con le missionarie. Il sacerdote indiano è scomparso il giorno dell’eccidio. Le autorità non impiegano esplicitamente la parola “sequestrato” perché non c’è stata ancora una richiesta di riscatto ma ormai è evidente che si tratta di un rapimento. Il sacerdote salesiano si era trasferito nella residenza a settembre, quando la sua parrocchia – la Sacra Famiglia di Aden – era stata incendiata. Non si era trattato di un incidente, bensì dell’apice di una serie di minacce nei confronti della comunità cattolica. Dallo scoppio della guerra civile, un anno e mezzo fa, la tensione nei confronti delle minoranze religiose era cresciuta esponenzialmente. La provincia di Bangalore, a cui apparteneva il religioso, aveva proposto ai salesiani di andar via. Tre avevano accettato. Due, tra cui padre Tom, sono rimasti. Appena qualche settimana fa, in un’e mail ai confratelli in India si era detto felice di quella scelta. «In Yemen – aveva scritto – ho trovato la mia autentica missione».
Da Avvenire: In odio alla fede. I particolari del massacro di Aden conducono a questa sola conclusione. È stata una strage decisa e attuata contro la sola presenza cristiana nello Yemen. Le suore uccise, e la cappella, il crocefisso, il tabernacolo, tutto metodicamente distrutto.
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ano le 8,30 di venerdì mattina, e alla Mother Theresa’s house gli ottanta ospiti, vecchi e disabili, fra cui anche bambini, stavano facendo colazione. I terroristi sono arrivati davanti all’edificio, che, nonostante le minacce già ricevute dalle suore, non era difeso nemmeno da un soldato. È stato facilissimo entrare, armi in pugno, e sorprendere le quattro sorelle e il personale dell’istituto: cuoche, infermiere, volontari, sia yemeniti che etiopi, diversi dei quali cristiani.
L’unica sopravvissuta alla strage è suor Sally, la superiora. Per un caso in quel momento si trovava in dispensa, e ha sentito l’autista che urlava, in inglese: «Nascondetevi, ci ammazzano», e poi uno sparo. L’uomo era già stato ucciso. La suora è rimasta, impietrita, dov’era, dietro a una porta, e incredibilmente gli assassini non l’hanno vista. «Vogliamo ammazzare i cristiani», ha gridato uno di loro. Poi tutti i presenti nella sala sono stati portati fuori, in giardino. Si sono sentite grida, e altri spari, cadenzati, uno dopo l’altro, e poi altri ancora, e poi il silenzio. Quando la polizia yemenita è arrivata, ha trovato sul terreno quindici morti: le suore e undici collaboratori. Questi ultimi sono stati tutti finiti con un colpo alla tempia, una autentica esecuzione. Le sorelle invece – suor Annselna, 57 anni, indiana, suor Margarita, 44 anni, ruandese, suor Reginette, 32 anni, pure ruandese, e suor Judith, 41 anni, keniota – sono state colpite al volto e sfigurate, e poi uccise.
Cadute a terra, prone, il loro corpi sono stati calpestati, i volti schiacciati a forza contro il suolo. Si stenta a scrivere questi particolari, che raccontano di un odio senza limiti. Nelle foto da Aden, le suore indossano ancora, sopra la veste bianca, il grembiule blu con cui servivano i malati. Uccise nell’atto di servire i poveri: è un vero martirio, quello di Aden, il secondo nel Paese, dopo che nel 1998 a Hodeidah altre tre consorelle erano state ammazzate a bastonate, mentre si recavano a far servizio in ospedale. Ma, compiuta la carneficina, gli assassini non erano ancora soddisfatti.
Sono rientrati nell’istituto e sono andati nella cappella, dove il salesiano Tom Uzhunnalil, 57 anni, un prete che da anni condivideva l’opera delle suore, stava pregando. Raffiche di spari, ancora: molti colpi, contro il crocefisso, sull’altare, sul tabernacolo, nel quale non sono poi state trovate più le ostie consacrate. Il messale e la Bibbia sono stati ridotti in brandelli. Il salesiano è stato rapito, e ad oggi non se ne hanno più notizie. Compiuta la strage, il commando se ne è andato indisturbato. Ora suor Sally, la superiora sopravvissuta, è stata portata fuori dallo Yemen. Nella casa sono rimasti solo gli ottanta ospiti, che per un giorno si sono rifiutati di mangiare. Smarriti chiedevano, come bambini, di essere imboccati dalle loro suore.
Al momento sono assistiti dal personale di Médecins Sans Frontières, presente con un suo centro a Aden. Madre Sally all’arrivo della polizia si è rifiutata di abbandonare i corpi delle sue sorelle, e ha preteso che fossero portati via insieme a lei. Ora sono all’ospedale pubblico di Aden, e si spera di poterle seppellire nel cimitero inglese della città, accanto alle tre sorelle uccise a Hodeidah. Ma in quell’ospedale arrivano ogni giorno decine di vittime della guerra, e si teme perfino che sia difficile evitare che le salme delle suore si confondano, nel gran numero di morti. Questi particolari, raccontati a Avvenire da una nostra fonte a Aden, raccontano di un martirio dei nostri giorni. Nell’assenza di qualsiasi protezione da parte del governo oggi al potere nella città, quello del presidente Abed Rabbo Mansour Hadi, sostenuto dall’Arabia Saudita.
Le suore di Madre Teresa, minacciate, avevano deciso di restare. Fedeli alle parole della fondatrice: «Vivere, e morire, con i poveri». E dalla Casa madre dell’Ordine, a Calcutta, arriva l’annuncio che le suore di Madre Teresa non abbandoneranno lo Yemen, dove hanno altre tre case, a Sanaa. Una ostinata volontà di rimanere accanto agli ultimi, che ha fatto sì che le suore siano molto amate dalla popolazione. Per loro la gente di Aden è scesa in strada, per protesta, davanti al Dipartimento della sicurezza. Chi ha compiuto la strage? Al-Qaeda si dice estranea. Daesh allora? Un massacro in odio dei cristiani. Ne ha parlato il Papa, all’Angelus: «Questi sono i martiri di oggi! Non sono copertine dei giornali, non sono notizie: questi danno il loro sangue per la Chiesa. Queste persone sono vittime dell’attacco di quelli che li hanno uccisi, e anche dell’indifferenza». L’indifferenza, già: sabato, nessun quotidiano italiano, tranne questo e L’Osservatore Romano, aveva una sola riga in prima pagina sulla carneficina di Aden.
Giornata di grande intensità emotiva e di fede quella di ieri al Meeting di Rimini.
Padre Douglas Al-Bazi, parroco di Mar Eillia ad Erbil, in Iraq, e padre Ibrahim Alsabagh, francescano parroco della comunità di Aleppo in Siria, hanno raccontato le loro storie e quelle di popolazioni che stanno soffrendo una persecuzione più sanguinosa dei primi secoli.
Nel presentare l’incontro don Stefano Alberto, docente di teologia all’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha commentato: “Proprio nella terra dove Dio, chiamando Abramo, ha destato la coscienza dell’uomo facendosi dare del Tu, si è manifestata una violenza cieca del fanatismo”.
Dopo aver ricordato che fino al 2003 in Iraq c’erano circa due milioni di cristiani e oggi ne sono rimasti poco più di duecentomila, padre Douglas Al-Bazi ha spiegato “Sono nato in questo paese e ho amici musulmani, noi cristiani siamo il sale di questo paese. Oltre tutto siamo la fascia più istruita della popolazione”.
Padre Douglas è stato rapito e torturato per nove giorni. La sua prigionia è stata durissima, è un miracolo che abbia avuto il coraggio di rimanere.
“Mi hanno spaccato il naso, - ha raccontato - colpito col martello in bocca e su una spalla e un disco della colonna vertebrale. Per quattro giorni sono stato lasciato senz’acqua. Tenevano alto il volume della televisione per non farsi sentire e mi colpivano ogni sera. Poi mi lasciavano incatenato con un lucchetto”.
Per sopravvivere e non perdere il senno e la fede, padre Douglas ha utilizzato dieci anelli della catena come Rosario e il lucchetto per il Padre nostro.
“Ci sono stati anche momenti di calma, - ha continuato - dove quelle stesse persone che mi picchiavano la sera poi mi interrogavano su come comportarsi con la moglie ed io dicevo loro di essere carini con lei”.
Interrompendo il racconto padre Douglas si è rivolto alla platea: “Vi sembro spaventato? La stessa cosa si può dire della mia gente Gesù ci ha detto di portare la propria croce, ma l’importante non è questo ma seguire, sfidare, impegnarsi. Se ci distruggeranno in Medio Oriente, l’ultima parola sarà ‘Gesù ci ha salvato'”.
In maniera sobria e intensa padre Douglas ha confessato che prima o poi lo uccideranno, e comunque se questo accadrà – ha chiesto – “pregate per la mia gente, aiutate e salvate la mia gente. Non sono preoccupato tanto per me quanto per la mia gente”.
Commovente e appassionata la testimonianza di padre Ibrahim.
Il religioso francescano ha raccontato delle terribili condizioni in cui si sopravvive ad Aleppo: “Viviamo nell’instabilità, mancano le risorse alimentari, scarseggia l’acqua, siamo sotto i bombardamenti e le malattie si diffondono”.
“Vengono a chiederci l’acqua che noi prendiamo dal pozzo del convento. Cerchiamo di cogliere in tutto questo i segni dello Spirito, condividendo questa esigenza e altri mille problemi e aprendo a tutti, cristiani e musulmani”.
Per far capire lo spirito con cui i cristiani continuano a fare il bene in un clima infernale, Padre Ibrahim ha raccontato il commento di un musulmano che viene a prendere l’acqua: “A guardare come la gente viene a prendere acqua, - ha detto - senza litigi, senza urlare, io mi meraviglio. Da altre parti ci si picchia e si grida. Voi siete diversi”.
E’ evidente che molti cristiani sognano di scappare, hanno paura. “Ma molti tra noi cristiani – ha spiegato il padre francescano - sono convinti che il Signore già ai tempi di san Paolo ha piantato l’albero della vita nel Medio Oriente. Noi non vogliamo portare via questo albero”.
Ad una donna che gli ha confessato il disagio e della preoccupazione per i tanti cristiani fuggiti, padre Ibrahim, ha risposto: “Non è stato forse il Signore che vuole cambiare la gente intorno a noi, perché il profumo di Cristo arrivi anche a loro? Non è un disagio, ma un compito che il Signore ci ha affidato”.
Per quanto riguarda i francescani di Aleppo, padre Ibrahim ha detto: “Amiamo di più, perdoniamo di più, ma non ce ne andiamo”.
Nonostante le tristi condizioni e le violenze del conflitto armato, padre Ibrahim ha parole di compassione e perdono.
“Non possiamo limitarci ad invitare a resistere. L’azione che portiamo è positiva: Gesù ci insegna nel Vangelo a elargire il perdono ai crocifissori anche quando non lo richiedono.”
Commosso fino alle lacrime, padre Ibrahim ha concluso “Non sappiamo quando finirà. La cosa importante è testimoniare Cristo. Testimoniare la vita cristiana amando, perdonando e pensando anche alla salvezza di chi ci fa il male. Offriamo la nostra sofferenza per la loro salvezza, preghiamo per loro.”
ROMA, 02 Settembre 2014 (Zenit.org) - Ancora una volta la terra irachena è stata bagnata da sangue cristiano. Fonti locali di Bartalah, città a a maggioranza siriaca della piana di Ninive occupata da settimane dai fondamentalisti sunniti, informano che i terroristi hanno torturato e ucciso ieri uno degli ultimi uomini di fede cristiana rimasti in città. Si tratta di Salem Matty Georgis, 43 anni, morto in seguito a percosse e torture fisiche da parte dei militanti dell'Isis dopo aver rifiutato di convertirsi alla religione islamica.
Come riferito da uno dei familiari al sito Ankawa.com, l'uomo soffriva di una malattia di cuore che non gli ha permesso di lasciare la città con la sua famiglia dopo l'occupazione dello Stato islamico dello scorso 7 agosto. Così è rimasto bloccato a Bartalah e non ha lasciato la sua casa per oltre tre settimane nutrendosi delle poche provviste rimaste.
Tutto fino a ieri, lunedì 1° settembre, fino a quando, cioè, la fame e la sete lo hanno costretto ad abbandonare la propria abitazione per andare in cerca di cibo e di acqua. Sulla strada principale della città, però, Salem si è imbattuto in una pattuglia dell'Isis appostata di fronte alla chiesa di Maria Vergine. L'uomo viene prima arrestato, poi i miliziani cercano di costringerlo a convertirsi all'Islam. Al netto rifiuto del cristiano, iniziano quindi a picchiarlo e torturarlo fino a procurargli la morte con le loro stesse mani.
Il corpo è stato abbandonato dagli assassini sul posto; sono stati poi alcuni arabi ancora residenti in città a trovarlo e seppellirlo. Le cerimonia funebre e le preghiere per l'anima di questo moderno martire - riferisce ancora Ankawa.come - si terranno venerdì prossimo ad Ankawa, nella Chiesa ortodossa siriaca di Alnoor.
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