Testimoni del nostro tempo


Don Silvano Cola

Con Chiara Lubich, iniziatore del movimento sacerdotale dei Focolari (22 gennaio 1928 - 17 febbraio 2007)

 

Nato a Camerino nelle Marche, ma trasferitosi dopo poco tempo a Torino per il lavoro del padre, a 22 anni Silvano Cola è già sacerdote, studia psicologia ed è impegnato con i ragazzi abbandonati ed in difficoltà della «città dei ragazzi» di Torino. «Mi pareva di essere arrivato al culmine – racconta – poi sono entrato in crisi, a tal punto che onestamente avevo deciso di lasciare il sacerdozio».

 

Proprio durante questa crisi profonda, la scoperta della spiritualità dell’unità. Fondamentale è l’incontro con Vittorio Sabbione – uno dei primi focolarini – a Torino. Vi è da subito uno scambio intensissimo di esperienze: «Qualche cosa di straordinario – ricorda Don Silvano – mai provato in vita mia». Tanto che, salutando Vittorio, gli disse con il linguaggio schietto che gli era caratteristico: «Io lavoro in mezzo ai delinquenti. Sono anch’io un mezzo delinquente e forse andrò all’inferno. Ma anche se andassi là, questa esperienza me la porterò dietro».

 

Dal ’63 don Silvano è a Roma. Nonostante abiti solo e in un misero appartamentino, dopo pochi mesi scrive scherzosamente a Chiara Lubich: “Vuoi sapere come è il mio focolare? È grande e pieno di luce”. Il giorno successivo la risposta è la copia di un arazzo che raffigura Gesù che lava i piedi agli Apostoli, emblema di un sacerdozio “al servizio”. Nel 1964 nascerà il primo focolare sacerdotale.

 

Da allora, Don Silvano collabora con Chiara al grande sviluppo del Movimento fra i sacerdoti. Proprio negli anni post-conciliari, accanto ai sacerdoti focolarini si sviluppano i sacerdoti volontari, chiamati a portare lo spirito dell’unità nel mondo ecclesiastico e la scuola sacerdotale, che offre la possibilità a presbiteri e seminaristi l’opportunità di fare un tirocinio pratico di “vita d’unità”. E poi il movimento parrocchiale e il movimento gen’s, nati per irradiare l’ideale dell’unità anche nelle parrocchie e fra i seminaristi.

 

Proprio per le tantissime opere iniziate e portate avanti negli anni da don Silvano, Chiara Lubich lo ha sempre considerato uno dei cofondatori del Movimento dei focolari, per il ramo sacerdotale.

 

Fino al giorno della sua morte Don Silvano continua a prodigarsi: dal ’98 sostiene il dialogo all’interno della Chiesa tra i vari movimenti ecclesiali; dalla fine degli anni ’90 inizia a promuovere, insieme ad altri studiosi, lo studio della psicologia alla luce del carisma dell’unità, che da sempre aveva approfondito e diffuso attraverso i suoi scritti (22 solo i libri). Come non ricordare ad esempio i reportages cristologici e trinitari per la rivista città nuova, che lui stesso amava definire “teologia per casalinghe”?

 

Il 17 febbraio 2007, infine, la partenza verso il Cielo per un arresto cardiaco. La sua consegna definitiva ai seminaristi, durante l’ultimo intervento pubblico ad un loro convegno mondiale, è stata il richiamo a quel sacerdozio “mariano” e di servizio che Chiara, a sua volta, anni prima aveva affidato a lui, suggerendogli come programma di vita la frase evangelica «…così da diventare modello per tutti i credenti» (1Ts 1, 7).

 

VITTORIO SABBIONE

 

Certo non avrebbe mai immaginato di aver come destino l’Argentina, Vittorio Sabbione, avvocato di grido e politico della Torino della prima metà del ‘900. Ma è in questo paese e in molti altri del Sudamerica di lingua spagnola che, insieme a Lia Brunet dedica tutta la sua vita alla nascita e allo sviluppo del Movimento dei focolari.

 

Vittorio nasce a Torino nel 1922, in un sano ambiente famigliare e studentesco che favorisce una profonda crescita spirituale ed intellettuale. Ben presto sente la spinta a dedicarsi totalmente a Dio e ai fratelli nell’impegno sociale e politico. Diviene membro attivo dell’Azione Cattolica. Negli anni del fascismo partecipa alla Resistenza nei gruppi partigiani, subendo anche il carcere. Dopo la liberazione si dedica alla ricostruzione della società italiana come membro della nascente Democrazia Cristiana, fino a diventare segretario del partito a livello regionale.

 

A 24 anni, si laurea in diritto a pieni voti ed esercita la professione di avvocato.  Dopo la morte del fratello Paolo in un campo di concentramento e, in seguito, del papà , diviene titolare del prestigioso studio di famiglia.

 

L’impegno nell’attività politica e nell’ambito della giustizia, non gli danno  risposte sufficienti alle sue esigenze di cambiamento. I primi sintomi di scoraggiamento sono superati grazie all’incontro con Edvige Cinatto, una giovane con i suoi stessi alti ideali. Grazie a lei ritrova la speranza. Nel 1947  si sposano con il desiderio di “consacrare le loro vite e la loro unione al servizio dell’umanità”. Una tappa importante, ma molto breve. A Edvige viene diagnosticata una malattia incurabile. La vita di Vittorio entra  in “un tunnel oscuro”: accompagna, impotente, il declino della vita della sua giovane sposa fino alla morte, dopo solo 8 mesi di matrimonio. Seguono due anni nei quali cerca di coprire il suo dolore impegnandosi ancor più in politica e nella sua professione, ma la vita pare non avere più senso e a fatica conserva ancora la fede.

 

 
 

Le costruzioni alla Mariapoli

 
 

È  allora, che, nel 1949, riceve in ufficio la visita di Ginetta Calliari che gli parla dell’esperienza vissuta a Trento con Chiara Lubich, insieme ad altre giovani. Secondo le parole dello stesso Vittorio – Ginetta lo “porta in un’altra dimensione, nella quale tutto il Vangelo prendeva vita”. La nuova scoperta che “nel presente sempre possiamo amare”, apre una breccia nella corazza che si era costruito e gli dà la possibilità di sperimentare, come mai prima,  “la presenza di Dio che lo invadeva interamente”.

 

Da quel momento la sua vita non ha altro scopo che vivere l’Ideale dell’unità. Per conoscere personalmente Chiara, si reca a Roma e poi a Trento dove si incontra con la comunità e con Marco Tecilla e Aldo Stedile che formavano il primo focolare maschile. La spiritualità dell’unità penetra sempre più nella sua vita: informa lavoro e attività politica. Sino a quando avverte la chiamata a  seguire la stessa vocazione di Chiara. Sarà la sua casa ad ospitare il primo focolare di Torino di cui farà parte.

 

Consolidata la comunità, Chiara lo chiama  a Roma, dove gli affida la nascente casa editrice Città Nuova. Ricopre poi altri incarichi di responsabilità, finché – come dice lui stesso – “cosa che non avrei mai immaginato”, parte per l’Argentina per aprire il primo focolare maschile dell’America Latina.

 

Vittorio dà un contributo determinante allo sviluppo del Movimento in questo Paese: dall’apertura di tanti focolari, alla fondazione della Cittadella di O’Higgins (Buenos Aires) che assumerà poi il nome di Lia; dalla nascita della rivista Ciudad Nueva e della Casa Editrice, alla Scuola di Studi Sociali (EDES)…

 

Ma al di là di tutto, la sua opera più grande è stata l’amore personale, totalmente disinteressato, per ognuno, la sua generosità senza limiti, tanto che coloro che lo hanno conosciuto lo ricordano come un padre. Vittorio è stato una guida straordinaria per tutti i membri  del Movimento.

 

 

 

In dialogo con i giovani

 
 

Negli ultimi anni della sua vita, mentre declina la sua salute con la perdita della memoria, il  suo amore si intensifica e si raffina sempre più. Si affida  totalmente nelle mani di Dio e dei fratelli, che lo hanno accompagnato in una esperienza straordinaria che si può definire un vero canto all’amore reciproco.

 

Dall’11 novembre 2008 la sua lapide nel piccolo cimitero della Mariapoli Lia ci ricorda la sua Parola di Vita: “Come bambini appena nati, bevete il puro latte spirituale…”. La sua vita era stata segnata dalla perseveranza, in un continuo “ricominciare”, in un progressivo spogliamento dei suoi limiti e delle sue ricchezze culturali e materiali, sino a diventare quel “bambino evangelico” che solo può entrare nel Regno di Dio. 

 

 

Carlos Opus Clarià

 

“Grazie per tutto quello che hai fatto per tutta l’Opera”, con queste parole Pasquale Foresi – cofondatore del Movimento dei focolari – ringraziava Carlos Clariá il giorno prima che lasciasse questa terra.

 

Carlos nasce in Argentina, secondogenito di una famiglia di 17 fratelli e sorelle. Sin da piccolo viene educato a condividere con i genitori le responsabilità della numerosa famiglia, al punto di essere considerato “fratello-padre” dai fratelli più giovani.

 

Dotato di tanti talenti, il suo futuro si presenta molto promettente. L’incontro però, nel 1963, con l’ideale dell’unità, cambia radicalmente la sua vita. Racconta: “La mia anima è stata profondamente impressionata! Ad uno ad uno i miei ideali crollavano: lo studio, la famiglia, la politica… Soltanto è rimasto l’amore che sentivo per la mia fidanzata…”. Con Marta, infatti, si preparavano da otto anni a formare una famiglia cristiana.

 

Appena laureato in Giurisprudenza col massimo dei voti, medaglia d’oro inclusa, nel ’65 parte per Loppiano, la nascente cittadella dei Focolari, per imparare a vivere con radicalità il Vangelo che lo affascinava. Anche Marta fa la stessa scelta.

 

 

Con Chiara Lubich

 

Dio, man mano che l’esperienza va avanti, si manifesta a loro coi suoi piani e ambedue decidono la personale consacrazione a Lui diventando “apostoli dell’unità”, decisi a costruire l’unità della famiglia umana.

 

Carlos scrive a Chiara Lubich: “Mi sono consacrato a Gesù Abbandonato. Tu mi hai detto di non tornare indietro, e che questa scelta deve essere la prima pietra per la mia santificazione. Con l’aiuto di Dio e di Maria spero di non fermarmi alla prima”.

 

Nel 1968 inizia la nuova avventura in Spagna, come responsabile del Movimento, insieme a Margherita Bavosi – detta “Luminosa” – anche lei argentina, oggi serva di Dio. Sono anni pieni di frutti spirituali e di crescita dei Focolari in quella terra.

 

Dal ’78 al ’96, come responsabile mondiale del Movimento Gen, accompagna moltissimi giovani nella loro formazione umana e spirituale. Chi era con lui in quel periodo ricorda: “Carlos aveva un grande amore per i gen. Riusciva a creare subito un rapporto con loro. Sapeva valorizzarli, percepiva  le loro qualità, i talenti, i lati migliori. Li ha aiutati ad incarnare l’Ideale dell’unità nei vari aspetti, nella sfera personale e dell’impegno nella società.

 

La capacità di creare rapporti profondi era una sua caratteristica, e non solo con i giovani. Carlos si rapportava nello stesso modo con il giornalaio o con le grandi personalità, fossero politici, cardinali, re: aveva imparato che in tutti c’è Gesù.

 

Dal 1996 al 2000 porta avanti con Claretta Dal Rì il dialogo dei Focolari con gli amici di altre convinzioni, e dal 2000 e al 2008 l’aspetto della comunicazione. Con gli “amici” si sente veramente a suo agio. Uno di loro, saputo della sua morte, scrive rivolgendosi direttamente a lui: “Caro amico, alla notizia della tua partenza non ho potuto frenare una grande commozione. Rammento quando ci dicesti con le parole di un poeta che noi andavamo avanti in un sentiero che non c’era, il sentiero lo facevamo noi camminando. Ben presto ci fidammo gli uni degli altri. La nostra reciproca fiducia fu tanta da far nascere una grande amicizia. Stai certo che andremo avanti senza mai tradire il nostro patto di lealtà, fiducia e amore”.

 
Chiara aveva indicato negli anni a Carlos una frase del Vangelo di Giovanni che lui cercherà di mettere in pratica con tenacia e lealtà: “Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” (Gv 4,34). E da qui il nome “Opus” (Opera), col quale tanti l’hanno conosciuto.
 

Conscio della sua malattia, agli inizi del 2009, quando il male peggiora, si lancia in una straordinaria scalata. Ripete spesso: “Lo Spirito Santo mi suggerisce continuamente di non perdere nemmeno un secondo!”. Il 9 maggio 2009, poche ore prima di “partire”, quasi sussurrando, si congeda: “Grazie a tutti quelli che mi hanno fatto del bene nella vita. Sento solo Paradiso. Canterò solo grazie, come un bambino evangelico. La Vita vera è quella, ma incomincia qui. Dolce Maria, Madre mia, fammi scivolare in Gesù Abbandonato; aiutami in questo momento in cui incontrerò Gesù, ed entrerò – per la Sua infinita misericordia – nel Seno del Padre. Solo grazie. Quando mi presenterò a Te, quello sarà il mio nome: siamo Grazie, siamo Grazie, siamo Grazie.”



 

Versione senza grafica
Versione PDF


<<<  Torna alla pagina precedente

Home - Cerca  
Messaggio Cristiano
Udienza Generale - Piazza San Pietro Mercoledì, 10 Settembre 2025

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. III. La Pasqua di Gesù. 6. La morte. «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37)

Cari fratelli e sorelle,
buongiorno e grazie per la vostra presenza, una bella testimonianza!

Oggi contempliamo il vertice della vita di Gesù in questo mondo: la sua morte in croce. I Vangeli attestano un particolare molto prezioso, che merita di essere contemplato con l’intelligenza della fede. Sulla croce, Gesù non muore in silenzio. Non si spegne lentamente, come una luce che si consuma, ma lascia la vita con un grido: «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37). Quel grido racchiude tutto: dolore, abbandono, fede, offerta. Non è solo la voce di un corpo che cede, ma il segno ultimo di una vita che si consegna.

Il grido di Gesù è preceduto da una domanda, una delle più laceranti che possano essere pronunciate: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È il primo verso del Salmo 22, ma sulle labbra di Gesù assume un peso unico. Il Figlio, che ha sempre vissuto in intima comunione con il Padre, sperimenta ora il silenzio, l’assenza, l’abisso. Non si tratta di una crisi di fede, ma dell’ultima tappa di un amore che si dona fino in fondo. Il grido di Gesù non è disperazione, ma sincerità, verità portata al limite, fiducia che resiste anche quando tutto tace.

In quel momento, il cielo si oscura e il velo del tempio si squarcia (cfr Mc 15,33.38). È come se il creato stesso partecipasse a quel dolore, e insieme rivelasse qualcosa di nuovo: Dio non abita più dietro un velo, il suo volto è ora pienamente visibile nel Crocifisso. È lì, in quell’uomo straziato, che si manifesta l’amore più grande. È lì che possiamo riconoscere un Dio che non resta distante, ma attraversa fino in fondo il nostro dolore.

Il centurione, un pagano, lo capisce. Non perché ha ascoltato un discorso, ma perché ha visto morire Gesù in quel modo: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). È la prima professione di fede dopo la morte di Gesù. È il frutto di un grido che non si è disperso nel vento, ma ha toccato un cuore. A volte, ciò che non riusciamo a dire a parole lo esprimiamo con la voce. Quando il cuore è pieno, grida. E questo non è sempre un segno di debolezza, può essere un atto profondo di umanità.

Noi siamo abituati a pensare al grido come a qualcosa di scomposto, da reprimere. Il Vangelo conferisce al nostro grido un valore immenso, ricordandoci che può essere invocazione, protesta, desiderio, consegna. Addirittura, può essere la forma estrema della preghiera, quando non ci restano più parole. In quel grido, Gesù ha messo tutto ciò che gli restava: tutto il suo amore, tutta la sua speranza.

Sì, perché anche questo c’è, nel gridare: una speranza che non si rassegna. Si grida quando si crede che qualcuno possa ancora ascoltare. Si grida non per disperazione, ma per desiderio. Gesù non ha gridato contro il Padre, ma verso di Lui. Anche nel silenzio, era convinto che il Padre era lì. E così ci ha mostrato che la nostra speranza può gridare, persino quando tutto sembra perduto.

Gridare diventa allora un gesto spirituale. Non è solo il primo atto della nostra nascita – quando veniamo al mondo piangendo –: è anche un modo per restare vivi. Si grida quando si soffre, ma pure quando si ama, si chiama, si invoca. Gridare è dire che ci siamo, che non vogliamo spegnerci nel silenzio, che abbiamo ancora qualcosa da offrire.

Nel viaggio della vita, ci sono momenti in cui trattenere tutto dentro può consumarci lentamente. Gesù ci insegna a non avere paura del grido, purché sia sincero, umile, orientato al Padre. Un grido non è mai inutile, se nasce dall’amore. E non è mai ignorato, se è consegnato a Dio. È una via per non cedere al cinismo, per continuare a credere che un altro mondo è possibile.

Cari fratelli e sorelle, impariamo anche questo dal Signore Gesù: impariamo il grido della speranza quando giunge l’ora della prova estrema. Non per ferire, ma per affidarci. Non per urlare contro qualcuno, ma per aprire il cuore. Se il nostro grido sarà vero, potrà essere la soglia di una nuova luce, di una nuova nascita. Come per Gesù: quando tutto sembrava finito, in realtà la salvezza stava per iniziare. Se manifestata con la fiducia e la libertà dei figli di Dio, la voce sofferta della nostra umanità, unita alla voce di Cristo, può diventare sorgente di speranza per noi e per chi ci sta accanto.

LEONE XIV