Giovedì 19 Dicembre 2024

Buon Natale!
Amore al fratello!ContattiLa Parola di DioBlog
Testimoni del nostro tempo


Don Silvano Cola

Con Chiara Lubich, iniziatore del movimento sacerdotale dei Focolari (22 gennaio 1928 - 17 febbraio 2007)

 

Nato a Camerino nelle Marche, ma trasferitosi dopo poco tempo a Torino per il lavoro del padre, a 22 anni Silvano Cola è già sacerdote, studia psicologia ed è impegnato con i ragazzi abbandonati ed in difficoltà della «città dei ragazzi» di Torino. «Mi pareva di essere arrivato al culmine – racconta – poi sono entrato in crisi, a tal punto che onestamente avevo deciso di lasciare il sacerdozio».

 

Proprio durante questa crisi profonda, la scoperta della spiritualità dell’unità. Fondamentale è l’incontro con Vittorio Sabbione – uno dei primi focolarini – a Torino. Vi è da subito uno scambio intensissimo di esperienze: «Qualche cosa di straordinario – ricorda Don Silvano – mai provato in vita mia». Tanto che, salutando Vittorio, gli disse con il linguaggio schietto che gli era caratteristico: «Io lavoro in mezzo ai delinquenti. Sono anch’io un mezzo delinquente e forse andrò all’inferno. Ma anche se andassi là, questa esperienza me la porterò dietro».

 

Dal ’63 don Silvano è a Roma. Nonostante abiti solo e in un misero appartamentino, dopo pochi mesi scrive scherzosamente a Chiara Lubich: “Vuoi sapere come è il mio focolare? È grande e pieno di luce”. Il giorno successivo la risposta è la copia di un arazzo che raffigura Gesù che lava i piedi agli Apostoli, emblema di un sacerdozio “al servizio”. Nel 1964 nascerà il primo focolare sacerdotale.

 

Da allora, Don Silvano collabora con Chiara al grande sviluppo del Movimento fra i sacerdoti. Proprio negli anni post-conciliari, accanto ai sacerdoti focolarini si sviluppano i sacerdoti volontari, chiamati a portare lo spirito dell’unità nel mondo ecclesiastico e la scuola sacerdotale, che offre la possibilità a presbiteri e seminaristi l’opportunità di fare un tirocinio pratico di “vita d’unità”. E poi il movimento parrocchiale e il movimento gen’s, nati per irradiare l’ideale dell’unità anche nelle parrocchie e fra i seminaristi.

 

Proprio per le tantissime opere iniziate e portate avanti negli anni da don Silvano, Chiara Lubich lo ha sempre considerato uno dei cofondatori del Movimento dei focolari, per il ramo sacerdotale.

 

Fino al giorno della sua morte Don Silvano continua a prodigarsi: dal ’98 sostiene il dialogo all’interno della Chiesa tra i vari movimenti ecclesiali; dalla fine degli anni ’90 inizia a promuovere, insieme ad altri studiosi, lo studio della psicologia alla luce del carisma dell’unità, che da sempre aveva approfondito e diffuso attraverso i suoi scritti (22 solo i libri). Come non ricordare ad esempio i reportages cristologici e trinitari per la rivista città nuova, che lui stesso amava definire “teologia per casalinghe”?

 

Il 17 febbraio 2007, infine, la partenza verso il Cielo per un arresto cardiaco. La sua consegna definitiva ai seminaristi, durante l’ultimo intervento pubblico ad un loro convegno mondiale, è stata il richiamo a quel sacerdozio “mariano” e di servizio che Chiara, a sua volta, anni prima aveva affidato a lui, suggerendogli come programma di vita la frase evangelica «…così da diventare modello per tutti i credenti» (1Ts 1, 7).

 

VITTORIO SABBIONE

 

Certo non avrebbe mai immaginato di aver come destino l’Argentina, Vittorio Sabbione, avvocato di grido e politico della Torino della prima metà del ‘900. Ma è in questo paese e in molti altri del Sudamerica di lingua spagnola che, insieme a Lia Brunet dedica tutta la sua vita alla nascita e allo sviluppo del Movimento dei focolari.

 

Vittorio nasce a Torino nel 1922, in un sano ambiente famigliare e studentesco che favorisce una profonda crescita spirituale ed intellettuale. Ben presto sente la spinta a dedicarsi totalmente a Dio e ai fratelli nell’impegno sociale e politico. Diviene membro attivo dell’Azione Cattolica. Negli anni del fascismo partecipa alla Resistenza nei gruppi partigiani, subendo anche il carcere. Dopo la liberazione si dedica alla ricostruzione della società italiana come membro della nascente Democrazia Cristiana, fino a diventare segretario del partito a livello regionale.

 

A 24 anni, si laurea in diritto a pieni voti ed esercita la professione di avvocato.  Dopo la morte del fratello Paolo in un campo di concentramento e, in seguito, del papà , diviene titolare del prestigioso studio di famiglia.

 

L’impegno nell’attività politica e nell’ambito della giustizia, non gli danno  risposte sufficienti alle sue esigenze di cambiamento. I primi sintomi di scoraggiamento sono superati grazie all’incontro con Edvige Cinatto, una giovane con i suoi stessi alti ideali. Grazie a lei ritrova la speranza. Nel 1947  si sposano con il desiderio di “consacrare le loro vite e la loro unione al servizio dell’umanità”. Una tappa importante, ma molto breve. A Edvige viene diagnosticata una malattia incurabile. La vita di Vittorio entra  in “un tunnel oscuro”: accompagna, impotente, il declino della vita della sua giovane sposa fino alla morte, dopo solo 8 mesi di matrimonio. Seguono due anni nei quali cerca di coprire il suo dolore impegnandosi ancor più in politica e nella sua professione, ma la vita pare non avere più senso e a fatica conserva ancora la fede.

 

 
 

Le costruzioni alla Mariapoli

 
 

È  allora, che, nel 1949, riceve in ufficio la visita di Ginetta Calliari che gli parla dell’esperienza vissuta a Trento con Chiara Lubich, insieme ad altre giovani. Secondo le parole dello stesso Vittorio – Ginetta lo “porta in un’altra dimensione, nella quale tutto il Vangelo prendeva vita”. La nuova scoperta che “nel presente sempre possiamo amare”, apre una breccia nella corazza che si era costruito e gli dà la possibilità di sperimentare, come mai prima,  “la presenza di Dio che lo invadeva interamente”.

 

Da quel momento la sua vita non ha altro scopo che vivere l’Ideale dell’unità. Per conoscere personalmente Chiara, si reca a Roma e poi a Trento dove si incontra con la comunità e con Marco Tecilla e Aldo Stedile che formavano il primo focolare maschile. La spiritualità dell’unità penetra sempre più nella sua vita: informa lavoro e attività politica. Sino a quando avverte la chiamata a  seguire la stessa vocazione di Chiara. Sarà la sua casa ad ospitare il primo focolare di Torino di cui farà parte.

 

Consolidata la comunità, Chiara lo chiama  a Roma, dove gli affida la nascente casa editrice Città Nuova. Ricopre poi altri incarichi di responsabilità, finché – come dice lui stesso – “cosa che non avrei mai immaginato”, parte per l’Argentina per aprire il primo focolare maschile dell’America Latina.

 

Vittorio dà un contributo determinante allo sviluppo del Movimento in questo Paese: dall’apertura di tanti focolari, alla fondazione della Cittadella di O’Higgins (Buenos Aires) che assumerà poi il nome di Lia; dalla nascita della rivista Ciudad Nueva e della Casa Editrice, alla Scuola di Studi Sociali (EDES)…

 

Ma al di là di tutto, la sua opera più grande è stata l’amore personale, totalmente disinteressato, per ognuno, la sua generosità senza limiti, tanto che coloro che lo hanno conosciuto lo ricordano come un padre. Vittorio è stato una guida straordinaria per tutti i membri  del Movimento.

 

 

 

In dialogo con i giovani

 
 

Negli ultimi anni della sua vita, mentre declina la sua salute con la perdita della memoria, il  suo amore si intensifica e si raffina sempre più. Si affida  totalmente nelle mani di Dio e dei fratelli, che lo hanno accompagnato in una esperienza straordinaria che si può definire un vero canto all’amore reciproco.

 

Dall’11 novembre 2008 la sua lapide nel piccolo cimitero della Mariapoli Lia ci ricorda la sua Parola di Vita: “Come bambini appena nati, bevete il puro latte spirituale…”. La sua vita era stata segnata dalla perseveranza, in un continuo “ricominciare”, in un progressivo spogliamento dei suoi limiti e delle sue ricchezze culturali e materiali, sino a diventare quel “bambino evangelico” che solo può entrare nel Regno di Dio. 

 

 

Carlos Opus Clarià

 

“Grazie per tutto quello che hai fatto per tutta l’Opera”, con queste parole Pasquale Foresi – cofondatore del Movimento dei focolari – ringraziava Carlos Clariá il giorno prima che lasciasse questa terra.

 

Carlos nasce in Argentina, secondogenito di una famiglia di 17 fratelli e sorelle. Sin da piccolo viene educato a condividere con i genitori le responsabilità della numerosa famiglia, al punto di essere considerato “fratello-padre” dai fratelli più giovani.

 

Dotato di tanti talenti, il suo futuro si presenta molto promettente. L’incontro però, nel 1963, con l’ideale dell’unità, cambia radicalmente la sua vita. Racconta: “La mia anima è stata profondamente impressionata! Ad uno ad uno i miei ideali crollavano: lo studio, la famiglia, la politica… Soltanto è rimasto l’amore che sentivo per la mia fidanzata…”. Con Marta, infatti, si preparavano da otto anni a formare una famiglia cristiana.

 

Appena laureato in Giurisprudenza col massimo dei voti, medaglia d’oro inclusa, nel ’65 parte per Loppiano, la nascente cittadella dei Focolari, per imparare a vivere con radicalità il Vangelo che lo affascinava. Anche Marta fa la stessa scelta.

 

 

Con Chiara Lubich

 

Dio, man mano che l’esperienza va avanti, si manifesta a loro coi suoi piani e ambedue decidono la personale consacrazione a Lui diventando “apostoli dell’unità”, decisi a costruire l’unità della famiglia umana.

 

Carlos scrive a Chiara Lubich: “Mi sono consacrato a Gesù Abbandonato. Tu mi hai detto di non tornare indietro, e che questa scelta deve essere la prima pietra per la mia santificazione. Con l’aiuto di Dio e di Maria spero di non fermarmi alla prima”.

 

Nel 1968 inizia la nuova avventura in Spagna, come responsabile del Movimento, insieme a Margherita Bavosi – detta “Luminosa” – anche lei argentina, oggi serva di Dio. Sono anni pieni di frutti spirituali e di crescita dei Focolari in quella terra.

 

Dal ’78 al ’96, come responsabile mondiale del Movimento Gen, accompagna moltissimi giovani nella loro formazione umana e spirituale. Chi era con lui in quel periodo ricorda: “Carlos aveva un grande amore per i gen. Riusciva a creare subito un rapporto con loro. Sapeva valorizzarli, percepiva  le loro qualità, i talenti, i lati migliori. Li ha aiutati ad incarnare l’Ideale dell’unità nei vari aspetti, nella sfera personale e dell’impegno nella società.

 

La capacità di creare rapporti profondi era una sua caratteristica, e non solo con i giovani. Carlos si rapportava nello stesso modo con il giornalaio o con le grandi personalità, fossero politici, cardinali, re: aveva imparato che in tutti c’è Gesù.

 

Dal 1996 al 2000 porta avanti con Claretta Dal Rì il dialogo dei Focolari con gli amici di altre convinzioni, e dal 2000 e al 2008 l’aspetto della comunicazione. Con gli “amici” si sente veramente a suo agio. Uno di loro, saputo della sua morte, scrive rivolgendosi direttamente a lui: “Caro amico, alla notizia della tua partenza non ho potuto frenare una grande commozione. Rammento quando ci dicesti con le parole di un poeta che noi andavamo avanti in un sentiero che non c’era, il sentiero lo facevamo noi camminando. Ben presto ci fidammo gli uni degli altri. La nostra reciproca fiducia fu tanta da far nascere una grande amicizia. Stai certo che andremo avanti senza mai tradire il nostro patto di lealtà, fiducia e amore”.

 
Chiara aveva indicato negli anni a Carlos una frase del Vangelo di Giovanni che lui cercherà di mettere in pratica con tenacia e lealtà: “Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” (Gv 4,34). E da qui il nome “Opus” (Opera), col quale tanti l’hanno conosciuto.
 

Conscio della sua malattia, agli inizi del 2009, quando il male peggiora, si lancia in una straordinaria scalata. Ripete spesso: “Lo Spirito Santo mi suggerisce continuamente di non perdere nemmeno un secondo!”. Il 9 maggio 2009, poche ore prima di “partire”, quasi sussurrando, si congeda: “Grazie a tutti quelli che mi hanno fatto del bene nella vita. Sento solo Paradiso. Canterò solo grazie, come un bambino evangelico. La Vita vera è quella, ma incomincia qui. Dolce Maria, Madre mia, fammi scivolare in Gesù Abbandonato; aiutami in questo momento in cui incontrerò Gesù, ed entrerò – per la Sua infinita misericordia – nel Seno del Padre. Solo grazie. Quando mi presenterò a Te, quello sarà il mio nome: siamo Grazie, siamo Grazie, siamo Grazie.”



 

Versione senza grafica
Versione PDF


<<<  Torna alla pagina precedente

Home - Cerca  
Messaggio Cristiano
UDIENZA GENERALE - Aula Paolo VI Mercoledì, 11 Dicembre 2024

Ciclo di Catechesi. Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza. 17. Lo Spirito e la Sposa dicono: “Vieni!”. Lo Spirito Santo e la speranza cristiana

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Siamo arrivati al termine delle nostre catechesi sullo Spirito Santo e la Chiesa. Dedichiamo quest’ultima riflessione al titolo che abbiamo dato all’intero ciclo, e cioè: “Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il Popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza”. Questo titolo si riferisce a uno degli ultimi versetti della Bibbia, nel Libro dell’Apocalisse, che dice: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”» (Ap 22,17). A chi è rivolta questa invocazione? È rivolta a Cristo risorto. Infatti, sia San Paolo (cfr 1 Cor 16,22), sia la Didaché, uno scritto dei tempi apostolici, attestano che nelle riunioni liturgiche dei primi cristiani risuonava, in aramaico, il grido “Maràna tha!”, che significa appunto “Vieni Signore!”. Una preghiera al Cristo perché venga.

In quella fase più antica l’invocazione aveva uno sfondo che oggi diremmo escatologico. Esprimeva, infatti, l’ardente attesa del ritorno glorioso del Signore. E tale grido e l’attesa che esso esprime non si sono mai spenti nella Chiesa. Ancora oggi, nella Messa, subito dopo la consacrazione, essa proclama la morte e la risurrezione del Cristo “nell’attesa della sua venuta”. La Chiesa è in attesa della venuta del Signore.

Ma questa attesa della venuta ultima di Cristo non è rimasta l’unica e la sola. Ad essa si è unita anche l’attesa della sua venuta continua nella situazione presente e pellegrinante della Chiesa. Ed è a questa venuta che pensa soprattutto la Chiesa, quando, animata dallo Spirito Santo, grida a Gesù: “Vieni!”.

È avvenuto un cambiamento – meglio, uno sviluppo – pieno di significato, a proposito del grido “Vieni!”, “Vieni, Signore!”. Esso non è abitualmente rivolto solo a Cristo, ma anche allo Spirito Santo stesso! Colui che grida è ora anche Colui al quale si grida. “Vieni!” è l’invocazione con cui iniziano quasi tutti gli inni e le preghiere della Chiesa rivolti allo Spirito Santo: «Vieni, o Spirito creatore», diciamo nel Veni Creator, e «Vieni, Spirito Santo», «Veni Sancte Spiritus», nella sequenza di Pentecoste; e così in tante altre preghiere. È giusto che sia così, perché, dopo la Risurrezione, lo Spirito Santo è il vero “alter ego” di Cristo, Colui che ne fa le veci, che lo rende presente e operante nella Chiesa. È Lui che “annuncia le cose future” (cfr Gv 16,13) e le fa desiderare e attendere. Ecco perché Cristo e lo Spirito sono inseparabili, anche nell’economia della salvezza.

Lo Spirito Santo è la sorgente sempre zampillante della speranza cristiana. San Paolo ci ha lasciato queste preziose parole: «Il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo» (Rm 15,13). Se la Chiesa è una barca, lo Spirito Santo è la vela che la spinge e la fa avanzare nel mare della storia, oggi come in passato!

Speranza non è una parola vuota, o un nostro vago desiderio che le cose vadano per il meglio: la speranza è una certezza, perché è fondata sulla fedeltà di Dio alle sue promesse. E per questo si chiama virtù teologale: perché è infusa da Dio e ha Dio per garante. Non è una virtù passiva, che si limita ad attendere che le cose succedano. È una virtù sommamente attiva che aiuta a farle succedere. Qualcuno, che ha lottato per la liberazione dei poveri, ha scritto queste parole: «Lo Spirito Santo è all’origine del grido dei poveri. È la forza data a quelli che non hanno forza. Egli guida la lotta per l’emancipazione e per la piena realizzazione del popolo degli oppressi» [1].

Il cristiano non può accontentarsi di avere speranza; deve anche irradiare speranza, essere seminatore di speranza. È il dono più bello che la Chiesa può fare all’umanità intera, soprattutto nei momenti in cui tutto sembra spingere ad ammainare le vele.

L’apostolo Pietro esortava i primi cristiani con queste parole: «Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi». Ma aggiungeva una raccomandazione: «Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto» (1 Pt 3,15-16). E questo perché non sarà tanto la forza degli argomenti a convincere le persone, quanto l’amore che in essi sapremo mettere. Questa è la prima e più efficace forma di evangelizzazione. Ed è aperta a tutti!

Cari fratelli e sorelle, che lo Spirito ci aiuti sempre, sempre ad “abbondare nella speranza in virtù dello Spirito Santo”!

[1] J. Comblin, Spirito Santo e liberazione, Assisi 1989, 236.

Papa Francesco