Testimoni del nostro tempo


IL CARDINAL JOAO BRAZ DE AVIZ A GENOVA: UN INCONTRO SPECIALE

"Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui"(Giov 14,23)

29 Aprile 2017

Sabato pomeriggio, i locali, i cortili, i campi sportivi dell’Opera Don Bosco di Sampierdarena sono invasi da duemila ragazzi che partecipano al Quinto Forum del Movimento Giovanile Salesiano dell’Italia centrale. Ragazzi e giovani sbucano dappertutto. Nel Tempietto, invece, i focolarini della Liguria si sono dati appuntamento per un pomeriggio speciale: stare con João Braz de Aviz, Cardinale Prefetto della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, che in mattinata aveva incontrato i religiosi e le religiose della Regione.

 

Da subito il pomeriggio si rivela un momento di famiglia tra i più belli e semplici. L’ufficialità scompare fin dai saluti che diventano ciao, ciao del Cardinale ad ognuno di noi e ciao da noi a lui. Siamo della stessa famiglia, la famiglia di Chiara, e allora il ciao è il saluto dei fratelli. Cade subito ogni remora quando Joao si racconta.

 

Ci parla della sua vita, un’infanzia trascorsa nella campagna brasiliana in una famiglia numerosa (è secondo di otto figli), la scoperta della vocazione, il seminario e gli studi a Roma, le numerose avventure in mezzo al “popolo di Dio” a lui affidato. Ci racconta che è stato, tra l’altro, vittima di uno scontro a fuoco durante una rapina, di cui porta ancora decine di pallini nella carne, ma soprattutto la sua dimensione radicalmente evangelica nutrita dal carisma di Chiara Lubich, in sintonia si direbbe totale con il sentire e il pensare di papa Bergoglio, che lo chiama “Querido hermano João”.  E poi del suo primato, quello di essere l’unico vescovo che vive dal 1983 portandosi dietro 130 pallini di piombo disseminati nel corpo.

 

Don João aveva 36 anni, ed era da 11 anni sacerdote, quando un giorno stava andando dalla sua parrocchia a un’altra per aiutare il parroco, quando vede una macchina ferma, si avvicina per vedere se serve una mano. Ma nel vecchio maggiolino ci sono due ragazzi che gli spianano contro le armi e lo costringono a seguirli dall’altra parte della strada, senza dire una parola. Dopo un po’ di tempo, sbuca dalla curva il furgone blindato della banca che stavano aspettando con la raccolta degli incassi. I rapinatori sparano alle gomme del blindato. Ma anche quelli del furgone della banca rispondono al fuoco: «Ad un certo punto, visto che la situazione era bloccata, i due ragazzi mi hanno puntato di nuovo le armi in faccia: vai tu a parlare con i poliziotti, o ti ammazziamo. Che potevo fare? Ho fatto solo pochi passi e subito dal blindato i poliziotti mi hanno sparato addosso». Don João sente bruciare per tutto il corpo i pallini partiti dal fucile a canne mozze. Sta disteso a terra. Non riesce ad alzarsi. Un’immobilità impotente che gli salverà la vita: «Dopo mi hanno confermato che se mi fossi mosso mi avrebbero finito». Intanto i due banditi sono scappati. João sente il respiro farsi affannoso, sente il sangue che gli sale dai polmoni nella bocca. «Dicevo dentro me stesso: «Gesù, ma perché devo morire a trentasei anni, avevo tanto da fare. La risposta mi è sgorgata dentro così: “io sono morto a 33 anni. Tu hai avuto già tre anni più di me…”». «Allora mi sono sentito in pace. Ho detto le mie ultime preghiere, ho fatto le mie offerte, e ho chiesto perdono, ma poi ho anche aggiunto: Signore, dammi dieci anni in più. Non so perché ho chiesto proprio dieci anni». Da quell’esperienza, ricorda «ne sono uscito solo dopo un anno, piano piano, cominciando col fare piccole cose, ad esempio piccole passeggiate intorno a casa, fin dove mi era possibile. Anche questa specie di paralisi della volontà è stata per me un’esperienza importante, per abbracciare il mio limite e la mia fragilità».

 

Poi è arrivata la nomina a vescovo. «È come se il Signore mi avesse voluto dire: fin qui tu mi hai chiesto la vita, d’ora in poi quello che viene io ti chiedo di donarlo a me…». Ma Joao ci dona anche tante perle della sua vita di uomo di prete e di vescovo. Di focolarino. Sono perle che restano scolpite dentro ognuno, per la sua semplicità, trasparenza, familiarità.

 

Scriverà qualcuno: “Grande gioia e stupore hanno riempito il nostro cuore durante l’incontro con te! Aver ascoltato direttamente da uno dei Cardinali più vicini al Papa la propria esperienza di vita ci ha fatto vibrare il cuore e sentire ancor più che siamo tutti parte della stessa famiglia di Chiara. I tanti aspetti della vita Ideale da te sottolineati con disarmante semplicità, le esaurienti risposte alle nostre domande e la familiarità con cui ti sei intrattenuto con noi, anche condividendo momenti non facili della tua vita, ci hanno fatto davvero un gran bene. Quanto ci hai detto, riguardo al tuo lavoro, ha rafforzato in noi l’amore per la Chiesa e la certezza che è Gesù che la porta avanti.”

Silvano Gianti

 

 

Mario De Rosa (8 marzo 1956 – 28 giugno 2014)

 

Mario è nato a Gaeta, in provincia di Latina, l’ 8 marzo 1956. A 19 anni, dopo la morte del padre, ha uno sbandamento: “Non ascoltando i consigli di mia madre – racconta –, cominciai a lasciarmi vivere dal mondo, facendo esperienze abbastanza negative, tra cui quella della droga”.

 

Mario giunge quasi alla disperazione, ma un notte – racconta ancora – “ Dio ascoltò il mio grido e le lacrime di mia madre. Da quel momento non ho desiderato altro che fare la Sua volontà”. È il 1980: Mario cerca una chiesa, tra lo sguardo incredulo di chi lo conosce come uno sbandato, e inizia un nuovo difficile cammino.

 

Nella comunità, molto viva, della parrocchia guidata da un sacerdote focolarino, Mario incontra la spiritualità dell’unità. Con don Cosimino Fronzuto, cresce un profondo rapporto personale; nel frattempo lavora come elettricista per impianti nelle costruzioni.
Mario avverte la chiamata di Dio in focolare, dopo un colloquio personale con Chiara Lubich; parte per Loppiano, la scuola di formazione per i focolarini.

 

Nell’88, da un focolare di Roma, scrive: “Avverto in me ogni giorno di più una semplificazione e la mia vita converge su due unici obiettivi: un amore esclusivo a Gesù nel suo abbandono, unico bene, e un amore reciproco vissuto in modo sempre più perfetto. Tutto il resto è relativo”. E ancora: “Migliorare nel farmi vuoto come Maria per accogliere la volontà di Dio dell’attimo presente; insomma, niente più posso pretendere ma verso tutti ho un debito da pagare: il mio personale impegno a migliorare nell’amore”.
È un cristiano innamorato della Sapienza. Scrive a Chiara il 10 febbraio 1998: “Un frutto specialissimo sbocciato in me è una nuova e infuocata passione per la Chiesa che mi ha fatto gridare nel più intimo del cuore: Ti amo, Chiesa!”.

 

Questa “passione” lo porta a laurearsi in teologia, in filosofia, e poi ancora in psicologia nel cui campo consegue una specializzazione.
La vita di focolare lo porta da Roma alla Turchia, di nuovo a Loppiano, poi a Napoli e infine ancora a Roma, dove nel 2006 si manifesta la malattia ed inizia un lungo periodo tra entrate ed uscite dall’ospedale.

 

Agosto 2013. Perde la mamma, di 97 anni, cui è molto legato. Ha già subito diversi interventi, ora completa il terzo ciclo di chemio. Comprende che la realizzazione più alta sulla terra è vivere il comandamento nuovo che rende presente Gesù tra due o più (Mt 18,20) e vuole “sfruttare tutto della giornata” per questo obiettivo.
26 febbraio 2014. La terapia non ha prodotto gli effetti desiderati, anzi il male avanza. Scrive: “Che lo Spirito Santo illumini i medici per capire come proseguire a livello terapeutico. Ma ho la gioia di poter essere stanziato momento per momento nella volontà del Padre”.
Viene portato ad un focolare attrezzato per focolarini ammalati. Rimane incantato come un bambino per l’amore e l’attenzione da cui si sente subito circondato.

 

“Vivere perché nei focolari ci sia sempre l’incanto del Vangelo vissuto, come nei primi tempi” è il desiderio intenso degli ultimi giorni. Il suo sorriso è diventato, lavorato dal dolore, luminoso e puro. Il 28 giugno, mentre ricorda una meditazione di Chiara “Sono grazie”, la canta insieme ad un altro focolarino; e quando finisce, per 15 minuti continua a ripetere: “Sono grazie, per tutto e per sempre”. Poco dopo si addormenta, spegnendosi nel sonno.

 

 

Nahoko Takeuchi “Sole”

 

“Se amo le persone che incontro, il paradiso è ovunque!” (26 aprile 1977 – 17 ottobre 1999)

 

 

 

Nahoko nasce a Kawasaki (vicino a Tokyo), da una famiglia cristiana. A 13 anni è alle prese con i problemi tipici di ogni sua coetanea giapponese. Vive un momento difficile a scuola, per una forma molto sottile di maltrattamento psicologico operato da alcuni suoi compagni che la porta ad essere ignorata da tutti, con la conseguenza di chiudersi sempre più in se stessa.
Proprio allora, la madre la porta ad un incontro di più giorni, la Mariapoli, organizzato dal Movimento dei Focolari che anch’essa ha appena incontrato.

 

Durante quei giorni Nahoko fa un’esperienza dell’Amore immenso di Dio. Un giorno sul palco si canta “l’Amore cambia il dolore in gioia” e lei avverte nel cuore la certezza che quelle parole sono vere. Ha una gran voglia di tornare a scuola per andare incontro ai suoi compagni con questo nuovo amore.
“Adesso è di nuovo difficile – scrive poco dopo a Chiara Lubich – ma non sono sola, Gesù è con me! Posso cambiare il dolore in gioia e sento la felicità di questa vita di amore al fratello”.

Chiara le risponde suggerendole il nome “Sole”, con l’augurio che “la tua vita sia come un sole splendente che illumina e riscalda portando amore e gioia a tanti cuori”.

 

Nel dicembre del ’98 Sole vive un periodo di grande entusiasmo. Scrive in un diario: “Oggi ho deciso di fare di questo Natale il dono a Gesù della mia santità. Ho solo 12 giorni, voglio accelerare perché questo si realizzi”. Dio la preparava senz’altro alla “prova” che l’attendeva di lì a poco.

 

Nel febbraio del 1999 è negli USA per trascorrere un periodo nella cittadella americana dei Focolari “Mariapoli Luminosa”, insieme ad un gruppo di giovani del Movimento provenienti da varie parti del mondo.
Sono momenti di grande crescita spirituale, ma deve lasciare anzitempo quell’esperienza perché il suo stato di salute richiede immediati accertamenti in Giappone.

 

Dall’ospedale scrive a Chiara: “Quando sono arrivata in ospedale, pensando ai giorni trascorsi negli USA, umanamente mi sembra di essere caduta dal Paradiso all’Inferno. Ma facendo un colloquio profondo con Gesù ho avuto una certezza: se io Lo abbraccio perfettamente [in questo dolore], se amo tutte le persone che incontro, il Paradiso lo possiamo trovare ovunque…”.

 

La malattia progredisce e le cure sono dolorose. «Quando si ripetono e mi procurano forti dolori – confida un giorno – per riconoscere l’Amore di Gesù anche in questa sofferenza ho bisogno di molta, molta generosità, coraggio e pazienza. Alle volte mi scendono le lacrime senza fermarsi, mi viene da chiedere a Dio: “Perché?”».

Fino alla fine tuttavia, Nahoko cerca di mantenere il proposito di restare fedele al piano di Dio su di lei. Quando parte per il Cielo, il 17 ottobre 1999, c’è aria di festa nella sua stanza.

 

«Ora tocca a ciascuna di voi – scrive Chiara Lubich alle gen del Giappone – vivere con altrettanta radicalità e purezza di cuore quanto Dio vi chiede», ed affida loro l’intera terra giapponese, affinché sia inondata dalla loro luce e dal loro amore.

 

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Clement vive anche situazioni difficili come la guerra civile in Costa d’Avorio, sempre ancorato però alle parole evangeliche che Chiara gli aveva affidato: “Camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi.” (Ef 5, 2). Queste parole sono state vissute da Clément in maniera concreta ed esemplare, nella semplicità e con la pazienza – spesso eroica – di chi si sa profondamente amato da Dio.

 

Racconta Biagio: «Ho vissuto con Clément nel focolare di Abidjan per dieci anni. Qualche anno dopo di lui è arrivato Pascal, anch’egli burundese, ma dell’etnia opposta a quella di Clément. In quegli anni c’era ancora guerra aperta tra le due opposte fazioni, eppure si sono sempre trattati come fratelli, scherzando e lavorando insieme».

 

Nel 2005 Clément si trasferisce al Centro dei focolarini, ma ben presto si manifesta una grave malattia. Come scrive a Chiara: “E’ un periodo non facile. Sento nell’anima che è un momento che devo vivere come Gesù sulla croce. Gesù mi sta chiedendo non solo di scegliere la croce ma di stare sulla croce e dire con Lui: ‘Padre nelle tue mani depongo la mia salute’.

 

La stessa sua sorella Fides che riesce a visitarlo, rimane colpita dal modo in cui il fratello ama anche nelle sofferenze, nei dolori di ogni tipo e infine nella morte stessa, il 29 aprile 2009.

 

Chiara gli aveva dato un nome nuovo: “Amato”. Senza dubbio, quanto era stato amato, tanto aveva sempre saputo riamare a sua volta instancabilmente lungo tutto il suo viaggio terreno.

         



 

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Udienza Generale - Piazza San Pietro Mercoledì, 10 Settembre 2025

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. III. La Pasqua di Gesù. 6. La morte. «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37)

Cari fratelli e sorelle,
buongiorno e grazie per la vostra presenza, una bella testimonianza!

Oggi contempliamo il vertice della vita di Gesù in questo mondo: la sua morte in croce. I Vangeli attestano un particolare molto prezioso, che merita di essere contemplato con l’intelligenza della fede. Sulla croce, Gesù non muore in silenzio. Non si spegne lentamente, come una luce che si consuma, ma lascia la vita con un grido: «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37). Quel grido racchiude tutto: dolore, abbandono, fede, offerta. Non è solo la voce di un corpo che cede, ma il segno ultimo di una vita che si consegna.

Il grido di Gesù è preceduto da una domanda, una delle più laceranti che possano essere pronunciate: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È il primo verso del Salmo 22, ma sulle labbra di Gesù assume un peso unico. Il Figlio, che ha sempre vissuto in intima comunione con il Padre, sperimenta ora il silenzio, l’assenza, l’abisso. Non si tratta di una crisi di fede, ma dell’ultima tappa di un amore che si dona fino in fondo. Il grido di Gesù non è disperazione, ma sincerità, verità portata al limite, fiducia che resiste anche quando tutto tace.

In quel momento, il cielo si oscura e il velo del tempio si squarcia (cfr Mc 15,33.38). È come se il creato stesso partecipasse a quel dolore, e insieme rivelasse qualcosa di nuovo: Dio non abita più dietro un velo, il suo volto è ora pienamente visibile nel Crocifisso. È lì, in quell’uomo straziato, che si manifesta l’amore più grande. È lì che possiamo riconoscere un Dio che non resta distante, ma attraversa fino in fondo il nostro dolore.

Il centurione, un pagano, lo capisce. Non perché ha ascoltato un discorso, ma perché ha visto morire Gesù in quel modo: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). È la prima professione di fede dopo la morte di Gesù. È il frutto di un grido che non si è disperso nel vento, ma ha toccato un cuore. A volte, ciò che non riusciamo a dire a parole lo esprimiamo con la voce. Quando il cuore è pieno, grida. E questo non è sempre un segno di debolezza, può essere un atto profondo di umanità.

Noi siamo abituati a pensare al grido come a qualcosa di scomposto, da reprimere. Il Vangelo conferisce al nostro grido un valore immenso, ricordandoci che può essere invocazione, protesta, desiderio, consegna. Addirittura, può essere la forma estrema della preghiera, quando non ci restano più parole. In quel grido, Gesù ha messo tutto ciò che gli restava: tutto il suo amore, tutta la sua speranza.

Sì, perché anche questo c’è, nel gridare: una speranza che non si rassegna. Si grida quando si crede che qualcuno possa ancora ascoltare. Si grida non per disperazione, ma per desiderio. Gesù non ha gridato contro il Padre, ma verso di Lui. Anche nel silenzio, era convinto che il Padre era lì. E così ci ha mostrato che la nostra speranza può gridare, persino quando tutto sembra perduto.

Gridare diventa allora un gesto spirituale. Non è solo il primo atto della nostra nascita – quando veniamo al mondo piangendo –: è anche un modo per restare vivi. Si grida quando si soffre, ma pure quando si ama, si chiama, si invoca. Gridare è dire che ci siamo, che non vogliamo spegnerci nel silenzio, che abbiamo ancora qualcosa da offrire.

Nel viaggio della vita, ci sono momenti in cui trattenere tutto dentro può consumarci lentamente. Gesù ci insegna a non avere paura del grido, purché sia sincero, umile, orientato al Padre. Un grido non è mai inutile, se nasce dall’amore. E non è mai ignorato, se è consegnato a Dio. È una via per non cedere al cinismo, per continuare a credere che un altro mondo è possibile.

Cari fratelli e sorelle, impariamo anche questo dal Signore Gesù: impariamo il grido della speranza quando giunge l’ora della prova estrema. Non per ferire, ma per affidarci. Non per urlare contro qualcuno, ma per aprire il cuore. Se il nostro grido sarà vero, potrà essere la soglia di una nuova luce, di una nuova nascita. Come per Gesù: quando tutto sembrava finito, in realtà la salvezza stava per iniziare. Se manifestata con la fiducia e la libertà dei figli di Dio, la voce sofferta della nostra umanità, unita alla voce di Cristo, può diventare sorgente di speranza per noi e per chi ci sta accanto.

LEONE XIV