Sabato 27 Aprile 2024
Contempliamo qui le meraviglie del creato
Amore al fratello!ContattiLa Parola di DioBlog
Letture e meditazioni


Mamma e papà si separano

La famiglia è tutto il mondo di un bambino. Quando questa vacilla, i figli avvertono incertezza per il futuro. Come spiegare ai propri figli che la mamma e il papà hanno deciso di separarsi? Che parole e atteggiamenti adottare per non creare ferite inguaribili nei più piccoli?

di Carolina Rossi e Giulia Palombo

 

La storia

 

Giovanni oggi è un ragazzo di 12 anni molto provato, arrabbiato e con la necessità di mettere ordine nel caos che sente albergare dentro di sé. Fin da piccolino era stato piuttosto timido e taciturno, sufficientemente bravo a scuola, amante dello sport e degli animali. La sua vita sembrava scorrere più o meno normalmente. Avrebbe tanto voluto un fratellino, ma non è mai arrivato.

 

All’età di 8 anni comincia a comprendere che a casa qualcosa non va. Fino a qualche tempo prima mamma e papà almeno tra loro parlavano un po’, ad un certo punto avevano proprio smesso di farlo, non si sedevano nemmeno più sul divano insieme a guardare il televisore.

 

Incuriosito, Giovanni scopre dal telefono cellulare che nella vita del papà c’era un’altra donna, che lui chiamava “tesoro”. Mai gli era capitato di sentire che papà lo dicesse alla mamma, così comincia a nutrire una profonda rabbia verso di lui. Inizia ad essere particolarmente reattivo ed antipatico con il papà, pur custodendo il segreto per il timore di poter far soffrire la mamma. Dopo qualche tempo, anche la mamma comprende tutto e in casa si era passati dalla guerra fredda a quella dichiarata. Giovanni, figlio unico, si ritrova al centro di un vero e proprio conflitto, conteso da entrambi i genitori e in profonda crisi, perché voleva bene sia alla mamma che al papà e non sapeva più che fare.

 

È proprio questo il tempo in cui cominciano i problemi più importanti di Giovanni. È proprio questo il tempo in cui inizia ad utilizzare atteggiamenti profondamente aggressivi in classe, con i suoi coetanei e, anche all’uscita da scuola, con i bambini più piccoli. Richiamati finalmente dalla scuola, mamma e papà si fermano e rivedono il proprio modo di separarsi e la ricaduta sulla tranquillità emotiva del proprio bambino ormai dodicenne.

 

L’analisi

 

I bambini, fin da quando sono piccolissimi, riescono a percepire la natura della relazione esistente tra i propri genitori traendo benefici, non solo dall’amore e dall’affetto che ognuno di loro singolarmente riesce a dargli, ma dalla natura solidale e dalla stabilità del loro rapporto.

 

Quando mamma e papà sono una squadra unita ed armonica, i figli si sentono al sicuro, sperimentando vissuti di fiducia e protezione che sono alla base di una crescita serena.

 

Quando accade, come nel caso di Giovanni, che i genitori non prendano più parte della stessa squadra, ma al contrario si schierino l’uno contro l’altro, discutendo o facendosi la guerra per le situazioni più disparate, a volte anche banali, i figli sentono che viene a mancare quella base sicura di cui hanno ancora un forte bisogno. La famiglia è tutto il loro mondo e se sentono che essa è in pericolo vedono vacillare il loro futuro.

 

In una famiglia dove viene a mancare l’accordo e la complicità nella coppia genitoriale, accade che i figli si trovino ad essere spettatori involontari di scene di tensione, conflitto e ostilità reciproca e le emozioni che ne derivano sono l’ansia, la paura e il senso di colpa.

 

Sono molto frequenti i casi in cui i bambini pensano di essere loro i responsabili dei litigi dei genitori, o quelli in cui i figli sentono la responsabilità di tenere uniti mamma e papà, pensando erroneamente che impegnandosi potranno riunire la loro famiglia. Questi sentimenti sono più frequenti quando i genitori non riescono a spiegare con chiarezza e sincerità quali siano i reali motivi che li portano alla separazione.

 

Le reazioni del bambino sono sicuramente legate al suo livello di sviluppo e alla sua maturità, ma in ogni caso, anche quando i figli sono più grandi, possono risentire negativamente di queste situazioni. Dal punto di vista comportamentale possono manifestare comportamenti aggressivi o devianti, come il calo del rendimento scolastico o comportamenti autolesionistici. In fondo, bambini immersi in un clima di perenne tensione e conflitto, imparano che quella è la normalità e il modo per relazionarsi agli altri e a se stessi è quello dell’aggressività e della svalutazione.

 

Dal punto di vista emotivo possono manifestare perdita dell’autostima, sentimenti depressivi e stati ansiosi. Un’altra manifestazione di disagio, meno eclatante ma comunque significativa, è la tendenza a deviare l’attenzione su altro, ad esempio giochi, tv o social network, per non accorgersi di quanto sta accadendo.

 

Se la separazione dei genitori avviene nella prima adolescenza, come nella storia di Giovanni, può crollare la trama dei significati trasmessi dai genitori e riemergere l’angoscia e l’ansia, fisiologici di questa tappa della crescita.

 

Il rischio più grave che corrono i figli di una coppia che si separa è quello di essere risucchiati nel vortice del conflitto, sentendo le pressioni di uno o di entrambi i genitori a prendere posizione e a schierarsi da una parte o dall’altra. Spesso i genitori, presi dalla rabbia e dal rancore reciproco, cominciano una esacerbata e ingiustificata campagna di denigrazione dell’altro, cercando di stabilire col figlio una relazione privilegiata che cerca di escludere l’altro genitore. Queste dinamiche relazionali, nei casi più gravi, rappresentano un potente e diretto fattore di rischio per la salute mentale del figlio.

 

Consigli

 

Ecco qualche importante consiglio per le coppie che stanno vivendo una separazione, o più semplicemente un periodo di incomprensione, e sono preoccupati per il benessere psico-emotivo dei propri figli:

 

La separazione dei genitori è sempre una fonte di fatica e sofferenza per i figli, ma ciò che risulta profondamente dannoso è il conflitto costante e il clima emotivo di tensione che da esso scaturisce. Riuscire a gestire il conflitto, e l’eventuale separazione, in modo maturo e responsabile, risulta essere un importante fattore protettivo per l’equilibrio emotivo dei figli.

 

Non date per scontato il vostro affetto: dimostrate entrambi al bambino il vostro affetto e rassicurate vostro figlio sul fatto che la decisione di vivere separati non cambia l’amore che entrambi avete per lui.

 

Evitate di coinvolgere i figli nei litigi, cercando di tirarli ciascuno dalla propria parte. Questo li metterebbe in una situazione molto difficile, dover scegliere chi ha ragione, quando entrambi i genitori sono figure affettivamente significative e soprattutto dal momento che nessuno dei due ha pienamente ragione: la responsabilità di un conflitto è sempre, e in ogni caso, equamente distribuita!

 

Ricordate che i genitori occupati a litigare sono meno disponibili con i figli. Rischiano di sottrargli le dovute attenzioni perdendo di vista i reali bisogni dei bambini.

 

Anche se parlare di quello che sta succedendo alla vostra famiglia vi può sembrare come “mettere il dito nella piaga”, ricordate che è fondamentale aiutare il bambino ad esprimere i suoi pensieri e la sua sofferenza rispetto alla separazione. Chiedetegli cosa pensa e cosa prova ed ascoltatelo permettendogli di esprimere liberamente i suoi vissuti.

 

Se siete giunti alla decisione di separarvi spiegate ai vostri figli che la separazione è interamente frutto della vostra decisone, che loro non ne hanno alcuna responsabilità e che la decisione di separarvi è una cosa definitiva, in modo da non creargli falsi sensi di colpa. Molti bambini credono di poter far riconciliare i genitori e si illudono che la separazione sia solo temporanea. Questo li può impegnare in continui sforzi, illusioni e delusioni.

 

Se potete, comunicate insieme l’intenzione di separarvi ai vostri figli, usando parole semplici, adeguate all’età dei figli, mostrandovi forti e sereni.

 

Ricordate che ogni bambino ha bisogno della madre e del padre: permettetegli di vedere e frequentare regolarmente l’altro genitore e, ancora di più, permettetegli di voler bene all’altro genitore. Anche se nutrite sentimenti di rabbia e ostilità per il partner, non parlate male dell’altro ai figli; anzi, parlategli dei suoi lati positivi e permettetegli di raccontarvi quanto gli vogliono bene.

 

Se i rapporti non sono eccessivamente conflittuali, provate a stare tutti insieme negli eventi di vita che sono importanti per i figli: in occasione di compleanni, Prima Comunione, incontri con la scuola, gare sportive. Ciò potrà offrire al bambino, che in quel momento è protagonista, la sicurezza del possesso dei suoi due oggetti d’amore.

 

Ricordate che la genitorialità resta condivisa, anche se la coppia si separa. In altre parole, anche se la relazione coniugale si interrompe, i due genitori dovrebbero sempre riuscire a condividere la responsabilità genitoriale. Tutte le decisioni importanti sui figli, ad esempio quelle relative alla salute o alla scuola, devono essere prese in accordo con l’altro genitore.

 

 

La debolezza del cristiano

 
Nella vita cristiana prima o poi si conosce, si sperimenta il paradosso della debolezza umana quale vera condizione per la forza evangelica. Esperienza quasi sempre faticosa, dolorosa, a caro prezzo, ma che risulta essenziale in un cammino di fede che sia anche conformazione alla vita di Gesù, un cammino pasquale.
 
 
È Gesù stesso che lo rivela nel discorso della montagna, quando afferma che sono beati, felici, convinti di poter andare avanti con fiducia e di essere nella verità quanti sono poveri, miti, disarmati, perseguitati, affamati (cf. Mt 5,1-12); ma anche quando afferma: «Ecco, io vi mando come pecore in mezzo a lupi» (Mt 10,16), chiedendo ai cristiani la debolezza degli agnelli in mezzo a un branco di lupi.
 
 
L’Apostolo Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi compone addirittura quello che potrebbe essere definito un inno alla debolezza: «Il Signore mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si esprime pienamente nella debolezza”. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché metta la sua tenda in me la potenza di Cristo.
 
 
Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,9-10). In questo testo vanno sottolineate due espressioni che normalmente sfuggono al lettore: la potenza del Signore si esprime pienamente nella debolezza e la potenza di Cristo mette la sua tenda – la Shekinah, cioè la presenza di Dio – là dove trova la debolezza dell’uomo.
 
 
Si faccia però attenzione. Questo canto alla debolezza non è un canto al male, alla sofferenza, alla prova, alla miseria – come Friedrich Nietzsche ha imputato al cristianesimo –, ma è una rivelazione: la debolezza di fatto può essere una situazione in cui, se chi la vive sa viverla con amore (cioè continuando ad amare e ad accettare di essere amato), la potenza di Cristo raggiunge la sua pienezza.
 
 
Ma questo messaggio, peraltro centrale nel Nuovo Testamento, è scandaloso e può sembrare follia (cf. 1Cor 1,18-31), e noi cristiani abituati a tali parole siamo disposti a ripeterle ma non a viverle nell’amore: quest’ultima è la vera sfida, perché la debolezza è fondativa dell’antropologia cristiana.
 
 
Confessiamolo però con onestà: quando osserviamo la vita nel suo svolgersi quotidiano, quando tentiamo di leggere la storia e le storie, constatiamo che sono la potenza, la forza, l’arroganza, la violenza ad avere successo, e perciò ci diventa arduo scorgere nella debolezza una possibile beatitudine. Siamo capaci di accogliere la nostra debolezza, che si presenta a noi sovente come umiliazione?
 
 
Siamo disposti a vedere in essa un’occasione di spogliazione, per essere condotti all’«unica cosa necessaria» (Lc 10,42)? Non solo individualmente, ma come comunità, come chiesa siamo capaci di leggere nella debolezza il linguaggio della «discreta caritas», dell’amore discreto che è vissuto quotidianamente senza alzare la voce, senza voler «dare testimonianza» a noi stessi?
 
 
Forse solo quando smettiamo di parlare di poveri, di handicappati, ma siamo di fronte a un uomo o a una donna in carrozzella, a una persona colpita nei mezzi abituali di comunicazione; quando ci troviamo davanti a un corpo ferito e dilaniato dalla malattia e dal dolore; quando stringiamo le mani di un povero che le ha tese verso di noi, mettendo le nostre mani nelle sue, forse solo allora comprendiamo il dramma della debolezza e siamo capaci di discernere dove Cristo ha messo la sua tenda.
 
 
C’è poi anche una forma particolare di debolezza, che non può essere dimenticata: quella dell’umiliazione che nasce dal nostro peccato, a volte dal nostro vizio o peccato ripetuto, in cui cadiamo e poi ci rialziamo, cadiamo e poi ci rialziamo ancora… Siamo umiliati davanti a Dio e agli uomini, anche in questo sia come singoli cristiani sia come chiesa.
 
 
«Bene per me essere stato nella debolezza» (Sal 119,71), prega il salmista davanti a Dio, ma è bene anche per la chiesa essere umiliata, conoscere giorni di non-successo, di sterilità, di impotenza tra le potenze di questo mondo, a volte addirittura di insignificanza. Non è stato forse questo il tragitto di Gesù nell’ultima parte del suo ministero, dopo i successi e la favorevole accoglienza iniziale? Sì, dobbiamo nuovamente confessarlo: facile a dirlo, difficile da accettare e soprattutto da vivere senza tradire l’amore.
 
 
San Bernardo, colui che conobbe forse il più grande successo possibile per un monaco nella storia, sperimentò pure un’ora di umiliazione, di fragilità e di miseria anche esistenziale. Fu, per sua stessa ammissione, una crisi spirituale e morale che lo obbligò a vivere per un anno fuori dal suo monastero. In quel tempo comprese molte cose della vita cristiana che non aveva capito prima; comprese soprattutto che nella debolezza si impara meglio la relazione con gli altri e con Dio, e conobbe veramente cos’è la grazia, la misericordia di Dio.
 
 
E così giunse ad esclamare: «Optanda infirmitas!», «O desiderabile debolezza!» (Discorsi sul Cantico dei cantici 25,7). Sì, è possibile giungere ad affermare questo, ben sapendo però che nel mestiere di vivere la debolezza appare sempre anche come prova, come faticosa prova. 
 
 
Enzo Bianchi 
 


 

Versione senza grafica
Versione PDF


<<<  Torna alla pagina precedente

Home - Cerca  
Messaggio Cristiano
Udienza Generale, 17 Aprile 2024

Catechesi. I vizi e le virtù. 15. La temperanza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi parlerò della quarta e ultima virtù cardinale: la temperanza. Con le altre tre, questa virtù condivide una storia che risale molto indietro nel tempo e che non appartiene ai soli cristiani. Per i greci la pratica delle virtù aveva come obbiettivo la felicità. Il filosofo Aristotele scrive il suo più importante trattato di etica indirizzandolo al figlio Nicomaco, per istruirlo nell’arte del vivere. Perché tutti cerchiamo la felicità eppure così pochi la raggiungono? Questa è la domanda. Per rispondere ad essa Aristotele affronta il tema delle virtù, tra le quali ha uno spazio di rilievo la enkráteia, cioè la temperanza. Il termine greco significa letteralmente “potere su sé stessi”. La temperanza è un potere su sé stessi. Questa virtù è dunque la capacità di autodominio, l’arte di non farsi travolgere da passioni ribelli, di mettere ordine in quello che il Manzoni chiama il “guazzabuglio del cuore umano”.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci dice che «la temperanza è la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati». «Essa – prosegue il Catechismo – assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore» (n. 1809).

Dunque, la temperanza, come dice la parola italiana, è la virtù della giusta misura. In ogni situazione, si comporta con saggezza, perché le persone che agiscono mosse sempre dall’impeto o dall’esuberanza alla fine sono inaffidabili. Le persone senza temperanza sono sempre inaffidabili. In un mondo dove tanta gente si vanta di dire quello che pensa, la persona temperante preferisce invece pensare quello che dice. Capite la differenza? Non dire quello che mi viene in mente, così… No, pensare a quello che devo dire. Non fa promesse a vanvera, ma assume impegni nella misura in cui li può soddisfare.

Anche con i piaceri, la persona temperante agisce con giudizio. Il libero corso delle pulsioni e la totale licenza accordata ai piaceri, finiscono per ritorcersi contro noi stessi, facendoci precipitare in uno stato di noia. Quanta gente che ha voluto provare tutto con voracità si è ritrovata a perdere il gusto di ogni cosa! Meglio allora cercare la giusta misura: ad esempio, per apprezzare un buon vino, assaporarlo a piccoli sorsi è meglio che ingurgitarlo tutto d’un fiato. Tutti sappiamo questo.

La persona temperante sa pesare e dosare bene le parole. Pensa a quello che dice. Non permette che un momento di rabbia rovini relazioni e amicizie che poi solo con fatica potranno essere ricostruite. Specialmente nella vita famigliare, dove le inibizioni si abbassano, tutti corriamo il rischio di non tenere a freno tensioni, irritazioni, arrabbiature. C’è un tempo per parlare e un tempo per tacere, ma entrambi richiedono la giusta misura. E questo vale per tante cose, ad esempio lo stare con gli altri e lo stare da soli.

Se la persona temperante sa controllare la propria irascibilità, non per questo la vedremo perennemente con il volto pacifico e sorridente. Infatti, qualche volta è necessario indignarsi, ma sempre nella giusta maniera. Queste sono le parole: la giusta misura, la giusta maniera. Una parola di rimprovero a volte è più salutare rispetto a un silenzio acido e rancoroso. Il temperante sa che nulla è più scomodo del correggere un altro, ma sa anche che è necessario: altrimenti si offrirebbe libero campo al male. In certi casi, il temperante riesce a tenere insieme gli estremi: afferma i principi assoluti, rivendica i valori non negoziabili, ma sa anche comprendere le persone e dimostra empatia per esse. Dimostra empatia.

Il dono del temperante è dunque l’equilibrio, qualità tanto preziosa quanto rara. Tutto, infatti, nel nostro mondo spinge all’eccesso. Invece la temperanza si sposa bene con atteggiamenti evangelici quali la piccolezza, la discrezione, il nascondimento, la mitezza. Chi è temperante apprezza la stima degli altri, ma non ne fa l’unico criterio di ogni azione e di ogni parola. È sensibile, sa piangere e non se ne vergogna, ma non si piange addosso. Sconfitto, si rialza; vincitore, è capace di tornare alla vita nascosta di sempre. Non cerca gli applausi, ma sa di avere bisogno degli altri.

Fratelli e sorelle, non è vero che la temperanza rende grigi e privi di gioie. Anzi, fa gustare meglio i beni della vita: lo stare insieme a tavola, la tenerezza di certe amicizie, la confidenza con le persone sagge, lo stupore per le bellezze del creato. La felicità con la temperanza è letizia che fiorisce nel cuore di chi riconosce e dà valore a ciò che più conta nella vita. Preghiamo il Signore perché ci dia questo dono: il dono della maturità, della maturità dell’età, della maturità affettiva, della maturità sociale. Il dono della temperanza.

Papa Francesco