Letture e meditazioni


Mamma e papà si separano

La famiglia è tutto il mondo di un bambino. Quando questa vacilla, i figli avvertono incertezza per il futuro. Come spiegare ai propri figli che la mamma e il papà hanno deciso di separarsi? Che parole e atteggiamenti adottare per non creare ferite inguaribili nei più piccoli?

di Carolina Rossi e Giulia Palombo

 

La storia

 

Giovanni oggi è un ragazzo di 12 anni molto provato, arrabbiato e con la necessità di mettere ordine nel caos che sente albergare dentro di sé. Fin da piccolino era stato piuttosto timido e taciturno, sufficientemente bravo a scuola, amante dello sport e degli animali. La sua vita sembrava scorrere più o meno normalmente. Avrebbe tanto voluto un fratellino, ma non è mai arrivato.

 

All’età di 8 anni comincia a comprendere che a casa qualcosa non va. Fino a qualche tempo prima mamma e papà almeno tra loro parlavano un po’, ad un certo punto avevano proprio smesso di farlo, non si sedevano nemmeno più sul divano insieme a guardare il televisore.

 

Incuriosito, Giovanni scopre dal telefono cellulare che nella vita del papà c’era un’altra donna, che lui chiamava “tesoro”. Mai gli era capitato di sentire che papà lo dicesse alla mamma, così comincia a nutrire una profonda rabbia verso di lui. Inizia ad essere particolarmente reattivo ed antipatico con il papà, pur custodendo il segreto per il timore di poter far soffrire la mamma. Dopo qualche tempo, anche la mamma comprende tutto e in casa si era passati dalla guerra fredda a quella dichiarata. Giovanni, figlio unico, si ritrova al centro di un vero e proprio conflitto, conteso da entrambi i genitori e in profonda crisi, perché voleva bene sia alla mamma che al papà e non sapeva più che fare.

 

È proprio questo il tempo in cui cominciano i problemi più importanti di Giovanni. È proprio questo il tempo in cui inizia ad utilizzare atteggiamenti profondamente aggressivi in classe, con i suoi coetanei e, anche all’uscita da scuola, con i bambini più piccoli. Richiamati finalmente dalla scuola, mamma e papà si fermano e rivedono il proprio modo di separarsi e la ricaduta sulla tranquillità emotiva del proprio bambino ormai dodicenne.

 

L’analisi

 

I bambini, fin da quando sono piccolissimi, riescono a percepire la natura della relazione esistente tra i propri genitori traendo benefici, non solo dall’amore e dall’affetto che ognuno di loro singolarmente riesce a dargli, ma dalla natura solidale e dalla stabilità del loro rapporto.

 

Quando mamma e papà sono una squadra unita ed armonica, i figli si sentono al sicuro, sperimentando vissuti di fiducia e protezione che sono alla base di una crescita serena.

 

Quando accade, come nel caso di Giovanni, che i genitori non prendano più parte della stessa squadra, ma al contrario si schierino l’uno contro l’altro, discutendo o facendosi la guerra per le situazioni più disparate, a volte anche banali, i figli sentono che viene a mancare quella base sicura di cui hanno ancora un forte bisogno. La famiglia è tutto il loro mondo e se sentono che essa è in pericolo vedono vacillare il loro futuro.

 

In una famiglia dove viene a mancare l’accordo e la complicità nella coppia genitoriale, accade che i figli si trovino ad essere spettatori involontari di scene di tensione, conflitto e ostilità reciproca e le emozioni che ne derivano sono l’ansia, la paura e il senso di colpa.

 

Sono molto frequenti i casi in cui i bambini pensano di essere loro i responsabili dei litigi dei genitori, o quelli in cui i figli sentono la responsabilità di tenere uniti mamma e papà, pensando erroneamente che impegnandosi potranno riunire la loro famiglia. Questi sentimenti sono più frequenti quando i genitori non riescono a spiegare con chiarezza e sincerità quali siano i reali motivi che li portano alla separazione.

 

Le reazioni del bambino sono sicuramente legate al suo livello di sviluppo e alla sua maturità, ma in ogni caso, anche quando i figli sono più grandi, possono risentire negativamente di queste situazioni. Dal punto di vista comportamentale possono manifestare comportamenti aggressivi o devianti, come il calo del rendimento scolastico o comportamenti autolesionistici. In fondo, bambini immersi in un clima di perenne tensione e conflitto, imparano che quella è la normalità e il modo per relazionarsi agli altri e a se stessi è quello dell’aggressività e della svalutazione.

 

Dal punto di vista emotivo possono manifestare perdita dell’autostima, sentimenti depressivi e stati ansiosi. Un’altra manifestazione di disagio, meno eclatante ma comunque significativa, è la tendenza a deviare l’attenzione su altro, ad esempio giochi, tv o social network, per non accorgersi di quanto sta accadendo.

 

Se la separazione dei genitori avviene nella prima adolescenza, come nella storia di Giovanni, può crollare la trama dei significati trasmessi dai genitori e riemergere l’angoscia e l’ansia, fisiologici di questa tappa della crescita.

 

Il rischio più grave che corrono i figli di una coppia che si separa è quello di essere risucchiati nel vortice del conflitto, sentendo le pressioni di uno o di entrambi i genitori a prendere posizione e a schierarsi da una parte o dall’altra. Spesso i genitori, presi dalla rabbia e dal rancore reciproco, cominciano una esacerbata e ingiustificata campagna di denigrazione dell’altro, cercando di stabilire col figlio una relazione privilegiata che cerca di escludere l’altro genitore. Queste dinamiche relazionali, nei casi più gravi, rappresentano un potente e diretto fattore di rischio per la salute mentale del figlio.

 

Consigli

 

Ecco qualche importante consiglio per le coppie che stanno vivendo una separazione, o più semplicemente un periodo di incomprensione, e sono preoccupati per il benessere psico-emotivo dei propri figli:

 

La separazione dei genitori è sempre una fonte di fatica e sofferenza per i figli, ma ciò che risulta profondamente dannoso è il conflitto costante e il clima emotivo di tensione che da esso scaturisce. Riuscire a gestire il conflitto, e l’eventuale separazione, in modo maturo e responsabile, risulta essere un importante fattore protettivo per l’equilibrio emotivo dei figli.

 

Non date per scontato il vostro affetto: dimostrate entrambi al bambino il vostro affetto e rassicurate vostro figlio sul fatto che la decisione di vivere separati non cambia l’amore che entrambi avete per lui.

 

Evitate di coinvolgere i figli nei litigi, cercando di tirarli ciascuno dalla propria parte. Questo li metterebbe in una situazione molto difficile, dover scegliere chi ha ragione, quando entrambi i genitori sono figure affettivamente significative e soprattutto dal momento che nessuno dei due ha pienamente ragione: la responsabilità di un conflitto è sempre, e in ogni caso, equamente distribuita!

 

Ricordate che i genitori occupati a litigare sono meno disponibili con i figli. Rischiano di sottrargli le dovute attenzioni perdendo di vista i reali bisogni dei bambini.

 

Anche se parlare di quello che sta succedendo alla vostra famiglia vi può sembrare come “mettere il dito nella piaga”, ricordate che è fondamentale aiutare il bambino ad esprimere i suoi pensieri e la sua sofferenza rispetto alla separazione. Chiedetegli cosa pensa e cosa prova ed ascoltatelo permettendogli di esprimere liberamente i suoi vissuti.

 

Se siete giunti alla decisione di separarvi spiegate ai vostri figli che la separazione è interamente frutto della vostra decisone, che loro non ne hanno alcuna responsabilità e che la decisione di separarvi è una cosa definitiva, in modo da non creargli falsi sensi di colpa. Molti bambini credono di poter far riconciliare i genitori e si illudono che la separazione sia solo temporanea. Questo li può impegnare in continui sforzi, illusioni e delusioni.

 

Se potete, comunicate insieme l’intenzione di separarvi ai vostri figli, usando parole semplici, adeguate all’età dei figli, mostrandovi forti e sereni.

 

Ricordate che ogni bambino ha bisogno della madre e del padre: permettetegli di vedere e frequentare regolarmente l’altro genitore e, ancora di più, permettetegli di voler bene all’altro genitore. Anche se nutrite sentimenti di rabbia e ostilità per il partner, non parlate male dell’altro ai figli; anzi, parlategli dei suoi lati positivi e permettetegli di raccontarvi quanto gli vogliono bene.

 

Se i rapporti non sono eccessivamente conflittuali, provate a stare tutti insieme negli eventi di vita che sono importanti per i figli: in occasione di compleanni, Prima Comunione, incontri con la scuola, gare sportive. Ciò potrà offrire al bambino, che in quel momento è protagonista, la sicurezza del possesso dei suoi due oggetti d’amore.

 

Ricordate che la genitorialità resta condivisa, anche se la coppia si separa. In altre parole, anche se la relazione coniugale si interrompe, i due genitori dovrebbero sempre riuscire a condividere la responsabilità genitoriale. Tutte le decisioni importanti sui figli, ad esempio quelle relative alla salute o alla scuola, devono essere prese in accordo con l’altro genitore.

 

 

La debolezza del cristiano

 
Nella vita cristiana prima o poi si conosce, si sperimenta il paradosso della debolezza umana quale vera condizione per la forza evangelica. Esperienza quasi sempre faticosa, dolorosa, a caro prezzo, ma che risulta essenziale in un cammino di fede che sia anche conformazione alla vita di Gesù, un cammino pasquale.
 
 
È Gesù stesso che lo rivela nel discorso della montagna, quando afferma che sono beati, felici, convinti di poter andare avanti con fiducia e di essere nella verità quanti sono poveri, miti, disarmati, perseguitati, affamati (cf. Mt 5,1-12); ma anche quando afferma: «Ecco, io vi mando come pecore in mezzo a lupi» (Mt 10,16), chiedendo ai cristiani la debolezza degli agnelli in mezzo a un branco di lupi.
 
 
L’Apostolo Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi compone addirittura quello che potrebbe essere definito un inno alla debolezza: «Il Signore mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si esprime pienamente nella debolezza”. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché metta la sua tenda in me la potenza di Cristo.
 
 
Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,9-10). In questo testo vanno sottolineate due espressioni che normalmente sfuggono al lettore: la potenza del Signore si esprime pienamente nella debolezza e la potenza di Cristo mette la sua tenda – la Shekinah, cioè la presenza di Dio – là dove trova la debolezza dell’uomo.
 
 
Si faccia però attenzione. Questo canto alla debolezza non è un canto al male, alla sofferenza, alla prova, alla miseria – come Friedrich Nietzsche ha imputato al cristianesimo –, ma è una rivelazione: la debolezza di fatto può essere una situazione in cui, se chi la vive sa viverla con amore (cioè continuando ad amare e ad accettare di essere amato), la potenza di Cristo raggiunge la sua pienezza.
 
 
Ma questo messaggio, peraltro centrale nel Nuovo Testamento, è scandaloso e può sembrare follia (cf. 1Cor 1,18-31), e noi cristiani abituati a tali parole siamo disposti a ripeterle ma non a viverle nell’amore: quest’ultima è la vera sfida, perché la debolezza è fondativa dell’antropologia cristiana.
 
 
Confessiamolo però con onestà: quando osserviamo la vita nel suo svolgersi quotidiano, quando tentiamo di leggere la storia e le storie, constatiamo che sono la potenza, la forza, l’arroganza, la violenza ad avere successo, e perciò ci diventa arduo scorgere nella debolezza una possibile beatitudine. Siamo capaci di accogliere la nostra debolezza, che si presenta a noi sovente come umiliazione?
 
 
Siamo disposti a vedere in essa un’occasione di spogliazione, per essere condotti all’«unica cosa necessaria» (Lc 10,42)? Non solo individualmente, ma come comunità, come chiesa siamo capaci di leggere nella debolezza il linguaggio della «discreta caritas», dell’amore discreto che è vissuto quotidianamente senza alzare la voce, senza voler «dare testimonianza» a noi stessi?
 
 
Forse solo quando smettiamo di parlare di poveri, di handicappati, ma siamo di fronte a un uomo o a una donna in carrozzella, a una persona colpita nei mezzi abituali di comunicazione; quando ci troviamo davanti a un corpo ferito e dilaniato dalla malattia e dal dolore; quando stringiamo le mani di un povero che le ha tese verso di noi, mettendo le nostre mani nelle sue, forse solo allora comprendiamo il dramma della debolezza e siamo capaci di discernere dove Cristo ha messo la sua tenda.
 
 
C’è poi anche una forma particolare di debolezza, che non può essere dimenticata: quella dell’umiliazione che nasce dal nostro peccato, a volte dal nostro vizio o peccato ripetuto, in cui cadiamo e poi ci rialziamo, cadiamo e poi ci rialziamo ancora… Siamo umiliati davanti a Dio e agli uomini, anche in questo sia come singoli cristiani sia come chiesa.
 
 
«Bene per me essere stato nella debolezza» (Sal 119,71), prega il salmista davanti a Dio, ma è bene anche per la chiesa essere umiliata, conoscere giorni di non-successo, di sterilità, di impotenza tra le potenze di questo mondo, a volte addirittura di insignificanza. Non è stato forse questo il tragitto di Gesù nell’ultima parte del suo ministero, dopo i successi e la favorevole accoglienza iniziale? Sì, dobbiamo nuovamente confessarlo: facile a dirlo, difficile da accettare e soprattutto da vivere senza tradire l’amore.
 
 
San Bernardo, colui che conobbe forse il più grande successo possibile per un monaco nella storia, sperimentò pure un’ora di umiliazione, di fragilità e di miseria anche esistenziale. Fu, per sua stessa ammissione, una crisi spirituale e morale che lo obbligò a vivere per un anno fuori dal suo monastero. In quel tempo comprese molte cose della vita cristiana che non aveva capito prima; comprese soprattutto che nella debolezza si impara meglio la relazione con gli altri e con Dio, e conobbe veramente cos’è la grazia, la misericordia di Dio.
 
 
E così giunse ad esclamare: «Optanda infirmitas!», «O desiderabile debolezza!» (Discorsi sul Cantico dei cantici 25,7). Sì, è possibile giungere ad affermare questo, ben sapendo però che nel mestiere di vivere la debolezza appare sempre anche come prova, come faticosa prova. 
 
 
Enzo Bianchi 
 


 

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Messaggio Cristiano
Udienza Generale - Piazza San Pietro Mercoledì, 10 Settembre 2025

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. III. La Pasqua di Gesù. 6. La morte. «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37)

Cari fratelli e sorelle,
buongiorno e grazie per la vostra presenza, una bella testimonianza!

Oggi contempliamo il vertice della vita di Gesù in questo mondo: la sua morte in croce. I Vangeli attestano un particolare molto prezioso, che merita di essere contemplato con l’intelligenza della fede. Sulla croce, Gesù non muore in silenzio. Non si spegne lentamente, come una luce che si consuma, ma lascia la vita con un grido: «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37). Quel grido racchiude tutto: dolore, abbandono, fede, offerta. Non è solo la voce di un corpo che cede, ma il segno ultimo di una vita che si consegna.

Il grido di Gesù è preceduto da una domanda, una delle più laceranti che possano essere pronunciate: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È il primo verso del Salmo 22, ma sulle labbra di Gesù assume un peso unico. Il Figlio, che ha sempre vissuto in intima comunione con il Padre, sperimenta ora il silenzio, l’assenza, l’abisso. Non si tratta di una crisi di fede, ma dell’ultima tappa di un amore che si dona fino in fondo. Il grido di Gesù non è disperazione, ma sincerità, verità portata al limite, fiducia che resiste anche quando tutto tace.

In quel momento, il cielo si oscura e il velo del tempio si squarcia (cfr Mc 15,33.38). È come se il creato stesso partecipasse a quel dolore, e insieme rivelasse qualcosa di nuovo: Dio non abita più dietro un velo, il suo volto è ora pienamente visibile nel Crocifisso. È lì, in quell’uomo straziato, che si manifesta l’amore più grande. È lì che possiamo riconoscere un Dio che non resta distante, ma attraversa fino in fondo il nostro dolore.

Il centurione, un pagano, lo capisce. Non perché ha ascoltato un discorso, ma perché ha visto morire Gesù in quel modo: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). È la prima professione di fede dopo la morte di Gesù. È il frutto di un grido che non si è disperso nel vento, ma ha toccato un cuore. A volte, ciò che non riusciamo a dire a parole lo esprimiamo con la voce. Quando il cuore è pieno, grida. E questo non è sempre un segno di debolezza, può essere un atto profondo di umanità.

Noi siamo abituati a pensare al grido come a qualcosa di scomposto, da reprimere. Il Vangelo conferisce al nostro grido un valore immenso, ricordandoci che può essere invocazione, protesta, desiderio, consegna. Addirittura, può essere la forma estrema della preghiera, quando non ci restano più parole. In quel grido, Gesù ha messo tutto ciò che gli restava: tutto il suo amore, tutta la sua speranza.

Sì, perché anche questo c’è, nel gridare: una speranza che non si rassegna. Si grida quando si crede che qualcuno possa ancora ascoltare. Si grida non per disperazione, ma per desiderio. Gesù non ha gridato contro il Padre, ma verso di Lui. Anche nel silenzio, era convinto che il Padre era lì. E così ci ha mostrato che la nostra speranza può gridare, persino quando tutto sembra perduto.

Gridare diventa allora un gesto spirituale. Non è solo il primo atto della nostra nascita – quando veniamo al mondo piangendo –: è anche un modo per restare vivi. Si grida quando si soffre, ma pure quando si ama, si chiama, si invoca. Gridare è dire che ci siamo, che non vogliamo spegnerci nel silenzio, che abbiamo ancora qualcosa da offrire.

Nel viaggio della vita, ci sono momenti in cui trattenere tutto dentro può consumarci lentamente. Gesù ci insegna a non avere paura del grido, purché sia sincero, umile, orientato al Padre. Un grido non è mai inutile, se nasce dall’amore. E non è mai ignorato, se è consegnato a Dio. È una via per non cedere al cinismo, per continuare a credere che un altro mondo è possibile.

Cari fratelli e sorelle, impariamo anche questo dal Signore Gesù: impariamo il grido della speranza quando giunge l’ora della prova estrema. Non per ferire, ma per affidarci. Non per urlare contro qualcuno, ma per aprire il cuore. Se il nostro grido sarà vero, potrà essere la soglia di una nuova luce, di una nuova nascita. Come per Gesù: quando tutto sembrava finito, in realtà la salvezza stava per iniziare. Se manifestata con la fiducia e la libertà dei figli di Dio, la voce sofferta della nostra umanità, unita alla voce di Cristo, può diventare sorgente di speranza per noi e per chi ci sta accanto.

LEONE XIV