Venerdì 3 Maggio 2024
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Willy, il clochard sepolto in Vaticano

Il VIDEO di TV2000

 
 

 

 
 
 
 
 

 

 
 
 

Un clochard sepolto in Vaticano. Ne ha parlato un servizio del Tg2000, ieri sera. Willy, questo il nome del clochard, era conosciuto dai gendarmi e dalla guardie svizzere del portone di Sant’Anna, dagli abitanti dei borghi nei dintorni del Vaticano, da suore e prelati. Monsignor Americo Ciani, canonico della basilica vaticana, appassionato di pittura, lo aveva ritratto con il suo trolley, la barba e il cappotto, la croce al collo: era diventato suo amico e da qualche tempo si era accorto della sua assenza. «Aveva questa forza interiore - ha detto monsignor Ciani ai microfoni di Tg2000 - dovuta proprio alla comunione con Dio, tanto che diceva: ‘La mia medicina è la comunione’. A tutti chiedeva: ‘Ma lei da quanto tempo non fa la confessione?. Guardi che per andare in Paradiso bisogna confessarsi, riconciliarsi con Dio’». Willy, di origine fiamminga, aveva un’ottantina d’anni e seri problemi di salute, da decenni viveva da clochard con la preghiera e il sorriso sulle labbra. Dormiva sotto la rampa che porta al Gianicolo, vicino alla Galleria di Porta Cavalleggeri.

 

 

IL VIDEO DI TV2000

   
 

 

Willy è morto nell’ospedale Santo Spirito. Nel servizio del Tg2000 lo ricorda anche Renato Russomanno, responsabile della vigilanza dell’Ospedale Santo Spirito: “Lo conoscevamo perché veniva spesso qui”. “Tempo fa - prosegue Russomanno - mi hanno detto che era ricoverato in chirurgia”. Dopo ha saputo che era deceduto. Quando qualcuno, agli inizi di gennaio, ha pensato di seppellirlo in Vaticano, è stato subito accordato il permesso, in linea con la vicinanza di Papa Francesco a chi vive ai margini della società: così Willy adesso riposa nel cimitero teutonico, dove sono sepolte persone illustri, ecclesiastici, nobili e cavalieri di origine austriaca, svizzero-tedesca, fiamminga e lussemburghese.

 

 
 
 
Lo svegliatore notturno
 
 
   UN PENSIERO PER L'AVVENTO . LO SVEGLIATORE NOTTURNO - CARDINALE RAVASI

 

 

In un mondo dove tutti pensano soltanto a mangiare e a far quattrini, a divertirsi e a comandare, è necessario che vi sia ogni tanto uno che rinfreschi la visione delle cose, che faccia sentire lo straordinario nelle cose ordinarie, il mistero nella banalità, la bellezza nella spazzatura" È necessario uno svegliatore notturno" che smantelli per dar posto alla luce" Il grande scrittore argentino Jorge Luis Borges un giorno confessò il suo amore per Giovanni Papini «immeritatamente dimenticato».


Effettivamente, superando la scorza della sua enfasi veemente e del suo sdegno permanente, la voce di questo autore fiorentino meriterebbe di risuonare nei nostri giorni così grigi e annoiati, nei quali domina la tetrade da lui evocata: «Mangiare, far quattrini, divertirsi, comandare».


Ho attinto la citazione a quella sorta di autobiografia o diario esistenziale che è Un uomo finito (1913) e da quel testo che non richiede commenti vorrei solo estrarre un'immagine suggestiva e incisiva, quella dello «svegliatore notturno». È significativo che sia Cristo sia Paolo usino la sostanza di questo simbolo: «Vegliate, state svegli" È tempo di svegliarvi dal sonno" La notte è avanzata, il giorno è vicino" Indossiamo le armi della luce!».


Il torpore, la sazietà, l'indifferenza, la superficialità, che si distendono come una coltre nebbiosa o come un sudario di morte sulla società contemporanea, devono essere squarciati dalla voce forte dello «svegliatore» che inquieti le coscienze, che susciti le domande di senso e che " come dice Papini in modo efficace e vivido " «faccia sentire lo straordinario nelle cose ordinarie», il mistero e la bellezza che si celano sotto il velo comune della realtà quotidiana.

 

 
 
C'era una volta, tanti anni fa, un contadino ignorante che per la prima volta in vita sua andò a visitare un giardino zoologico. A un certo punto arrivò al recinto dove si trovava la giraffa. Visibilmente stizzito, rimirò a lungo l'animale. Infine gli volse le spalle e s'allontanò, borbottando arrabbiato: un animale così non esiste!
 
È uno dei più noti e apprezzati scrittori israeliani, Amos Oz, a inserire nel suo libro In terra d'Israele questo buffo apologo tradizionale che ben esprime, sotto il velo della fiaba metaforica, un atteggiamento che non è certo appannaggio solo di qualche «contadino ignorante».
 
Un po' tutti, infatti, talvolta nella vita ci siamo fasciati la testa, come si suol dire, abbiamo chiuso gli occhi e tappato le orecchie per non ammettere una verità che non coincideva con le nostre ipotesi o supposizioni. Anzi, non di rado siamo stati pronti a rasentare il ridicolo pur di non sconfessare una nostra idea. E non è detto che alla fine l'evidenza trionfa, perché in molti casi una convinzione personale è talmente forte da accecare.
 
Ecco, allora, il tentativo patetico di contraffare o di respingere la realtà pur di salvaguardare la propria granitica certezza. Un maestro di retorica oratoria com'era il greco Demostene, che ben conosceva i meccanismi della persuasione, in una delle sue “orazioni” – la cosiddetta Terza Olintica per la precisione – osservava che «nulla è più facile dell'illudersi, perché quello che ogni uomo desidera, crede anche che sia vero».
 
Rassegnarsi a riconoscere l'errore del proprio convincimento è un'impresa quasi eroica quando l'orgoglio e l'incrollabile sicurezza si sono radicati nella mente e nel cuore. «Una convinzione – ammoniva il critico russo dell'Ottocento Vissarion Belinskij – ci dev'essere cara perché è vera, non perché è nostra».
 
 
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Facevo il pendolare per motivi di lavoro e tu sai cos'è un vagone ferroviario: chiasso, risate, fumo, trambusto, pigia-pigia. Io mi sedevo in un angolo e non sentivo nulla. Leggevo il Vangelo. Chiudevo gli occhi. Ascoltavo Dio. Ero veramente uno con me stesso e nulla mi poteva distrarre. Sotto la presa dell'amore divino ero in pace. Difatti gli innamorati che si trovavano sul treno bisbigliavano tra di loro, senza preoccuparsi di ciò che capitava attorno. Io bisbigliavo col mio Dio. Secoli fa si ritiravano nel deserto egiziano, eppure gli eremiti s'accorgevano che la città li aveva inseguiti fin là col suo frastuono e le sue seduzioni. È possibile, però, un movimento inverso: diventare monaci urbani, figure di silenzio nel fragore assordante della modernità. Un po' come riescono a fare gli innamorati su un treno affollato, sospesi in una bolla di intimità, in cui si bisbigliano le loro tenerezze.
 
Il libro da cui abbiamo tratto il paragrafo citato s'intitola significativamente Il deserto nella città. L'ha scritto un mistico vissuto coi piedi piantati nella storia italiana, Carlo Carretto (1910-1988): il treno affollato e rumoroso si trasforma in un'oasi silenziosa, ove si può “bisbigliare” con Dio, con la stessa intimità dei due fidanzati.
 
Un'altra figura simile a fratel Carlo, la francese Madeleine Delbrêl, morta nel 1964 dopo una vita trascorsa nella banlieue parigina tra operai e diseredati, confessava: «Coloro che amano Dio hanno sempre sognato il deserto; per questo a coloro che l'amano Dio non può rifiutarlo». Ma questa solitudine è incastonata nella quotidianità più fitta di rumori e di voci ed è simile a un seme di luce e di amore deposto nel terreno sassoso e spinoso delle fatiche, degli odi e delle bestemmie.
 
Con Carretto, che scelse la via dei Piccoli Fratelli del Vangelo di Charles de Foucauld, possiamo tentare tutti questa esperienza di deserto, non migrando nel Sahara o in un eremo, ma rimanendo sul treno di ogni mattina o nella piazza della nostra città.
 
 
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Pregava, chiedeva a Dio di aiutarlo, di dimorare in lui e di purificarlo, ma in realtà ciò che chiedeva si era già compiuto. Dio, che viveva in lui, si era destato nella sua coscienza. Lo sentì in sé, e per questo sentì non solo libertà, coraggio e gioia di vivere, ma sentì anche tutta la potenza del bene.
 
Poco più di un secolo fa, il 7 novembre 1910, Lev N. Tolstoj si spegneva in solitudine nel gelo della stazioncina di Astàpovo, durante una fuga dalla sua famiglia e un po' anche da sé stesso. Nell'oceano delle sue pagine abbiamo pensato di scegliere poche righe, emblematiche però della sua concezione religiosa che esaltava la presenza di Dio nella coscienza di ogni persona.
 
A percepire questa potenza vitale e salvifica è ora un principe, Dmitrij I. Nechljudov, il protagonista del romanzo Resurrezione (1899). Questo avviene quando egli riconosce in tribunale nell'imputata di omicidio Katjusha Maslova una cameriera delle sue zie da lui sedotta quand'era ancora ragazza. Da quell'istante il rimorso, ma anche un amore puro e assoluto spinge il principe a seguire questa donna ormai indurita dalle violenze e dal male, fino ai lavori forzati in Siberia ai quali essa è condannata.
 
È la storia di un'espiazione, ma anche di una “risurrezione” interiore, in mezzo ai diseredati e alle vittime che diventano gli annunciatori inconsapevoli del Vangelo di Cristo. Questa storia ha, però, la sua radice in quella presenza divina che pulsa nella coscienza, a cui dovremmo tutti lasciare più spazio. Non gettiamo su di essa la sabbia arida della distrazione perché la voce di Dio sia ridotta al silenzio. Ci sarà sempre una Katjusha che risveglierà la nostra anima e libererà quella voce.
 
 
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Per noi spesso è dove non siamo che stiamo bene. Così, il passato – ove non siamo più – ci appare bellissimo. «I veri paradisi sono i paradisi perduti»: è facile capire che a fare questa affermazione sia stato lo scrittore francese Marcel Proust che passò la sua esistenza «alla ricerca del tempo perduto», quasi fosse un'isola dei beati smarrita. La nostalgia lo attanagliava e lo faceva attendere non più l'alba del nuovo giorno, perché il suo volto era girato sempre verso il tramonto della giornata precedente, ormai irrimediabilmente trascorsa e ai suoi occhi alonata di luce dorata.
 
In modo più realistico, un altro grande scrittore come Anton Cechov nel testo sopra citato ci fa capire, invece, che questo rimpianto del passato è illusorio, frutto di una vera e propria deformazione della nostra ottica spirituale.
 
Di solito si evoca la moglie di Lot come simbolo negativo: «essa guardò indietro [verso Sodoma e Gomorra coperte da una coltre di zolfo e fuoco] e divenne una statua di sale» (Genesi 19,26). Come emblema positivo di un ritorno alle radici perdute è, invece, esaltato l'Ulisse omerico. Sta di fatto che camminare col viso rivolto indietro in una permanente deprecazione del presente, incapaci di progresso e chiusi in un cupo circuito di malinconia, è alla fine una malattia della psiche (la «nostomania», dicono gli psicologi), ma anche dello spirito che si raggela e cristallizza, perdendo ogni dinamismo e bloccandosi in un pedante conservatorismo.
 
È, però, necessario anche spezzare una lancia in difesa della nostalgia. Senza passato si è ben miseri, senza memoria non si riesce a progredire, senza radici si è smarriti e sperduti. Ed è proprio questo il rischio che stiamo correndo oggi, smemorati come siamo di un passato che ci potrebbe invece illuminare, eccitare e potenziare.
 
 
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1. Il frutto del silenzio è la preghiera. 2. Il frutto della preghiera è la fede. 3. Il frutto della fede è l'amore. 4. Il frutto dell'amore è il servizio. 5. Il frutto del servizio è la pace. Quand'era in vita, apriva le sue giornate proprio leggendo quel «Mattutino» che io proponevo ogni mattina: me l'aveva confessato lui stesso, Igor Man, grande giornalista scomparso un paio d'anni fa, persona di spontanea umanità e simpatia, oltre che di forte intelligenza. Un giorno mi inviò una lettera nella quale mi suggeriva questo testo, dicendomi che glielo aveva scritto in inglese su un foglietto Madre Teresa di Calcutta durante un incontro.
 
Per ricordare entrambe queste figure, ma anche per la «verità» di questi «cinque chicchi di riso», come li aveva intitolati la stessa autrice, vorrei affidarli a tutti i miei lettori. La semplicità del dettato non sminuisce, anzi fa risplendere la profonda spiritualità di questo messaggio nei cui confronti l'unica reazione possibile è l'esame personale di coscienza.
 
Sono come le stelle che dovrebbero accendersi nel cielo della vita di un cristiano: silenzio, preghiera, fede, amore, servizio, pace. Porrò l'accento solo su una coppia di termini che, a prima vista, possono sembrare sinonimi: amore e servizio. In realtà, il primo è un atteggiamento interiore radicale e permanente, è una luce costante dell'anima. Una luce che bagna e avvolge il servizio concreto che si offre. In tal modo quest'ultimo non è più mera filantropia o assistenza sociale, ma diventa un atto religioso, un gesto spirituale, un segno divino. Non è più un puro e semplice «servire» per contratto, ma un dono libero e gioioso.
 
 
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Se Cristo tornasse oggi tra noi, la gente non lo metterebbe più in croce. Lo inviterebbe a cena, lo ascolterebbe e gli riderebbe dietro le spalle. Non sono pochi i film che hanno immaginato un ritorno di Cristo per le strade di oggi, all'interno dei palazzi delle nostre metropoli e persino nelle chiese a lui consacrate. Un titolo per tutti: Jesus of Montreal del regista Denys Arcand (1989).

 

Jaroslav Pelikan scriveva nel 1985: «Al di là di ciò che ognuno possa personalmente pensare o credere di lui, Gesù di Nazaret è stato per quasi venti secoli la figura dominante nella storia della cultura occidentale». Ma se dovessimo immaginare un suo ritorno in mezzo a noi, potremmo forse correre il rischio di dar ragione allo storico scozzese Thomas Carlyle a cui dobbiamo la frase sopra proposta.

 

Eppure lui faceva questa affermazione nell'Ottocento. Oggi sarebbe ancor peggio. Potrebbe capitare a Gesù, con quei lineamenti un po' "orientali", di essere fermato per un controllo dei documenti. L'elemento che vorrei sottolineare è, però, quello della derisione benevola. No, non è un'esagerazione teatrale o narrativa. Tanti cristiani – lasciamo perdere la società secolarizzata – non prendono sul serio il cristianesimo con le sue verità e le scelte che esige.

 

Un'infarinatura di preghiere e di qualche opera buona non è una risposta al Discorso della montagna e ai suoi appelli, così come una vaga conoscenza dei Vangeli non copre la richiesta che Cristo avanza di adesione alla sua rivelazione di verità, di amore, di libertà. Le sue parole, se ridotte a dialogo di società, si spengono, perché esse in realtà hanno il fuoco dentro e vorrebbero invece accendersi nelle menti e nelle anime. Non si può solo lasciarlo parlare e poi irriderlo perché è "esagerato". Eppure è questo il rischio che stiamo correndo nel grigiore dei nostri giorni.

 

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Nella società del benessere non si fa più nessuna valida distinzione tra il lusso e le necessità. Ci sono dei centri commerciali così immensi da essere diventati vere e proprie cittadelle: ne intravedo uno ogni volta che mi reco all'aeroporto di Fiumicino e mi si dice che ci sono famiglie romane che là trascorrono l'intera domenica, perché la varietà delle offerte – anche di divertimenti – è tale da coprire tutte le esigenze. Ecco, è proprio questa parola «esigenze» ad essere al centro della nostra riflessione odierna.

 

Mi aiuta a svilupparla la frase che ho tratto dal saggio The affluent society di un famoso economista americano dell'era kennediana, John K. Galbraith (1908-2006). La società opulenta, «affluente», come si è soliti dire con un anglicismo (o persino «superaffluente»), ha travolto il tradizionale concetto di «esigenze».

 

Esso rimandava alle nostre necessità primarie che, certo, variavano da epoca a epoca e secondo i diversi contesti culturali e ambientali, ma si basavano sui fondamentali dell'esistenza. Il superfluo era considerato un «lusso», un di più non necessario ma solo voluttuario: è significativo che in inglese «lusso» si dica luxury!

 

Ora si è compiuta una svolta: la società dei consumi non conosce quella distinzione e il concetto di «esigenze» o di «necessario» si è dilatato fino ad abbracciare anche l'opulenza, la sovrabbondanza, il superfluo, l'accessorio.

 

Si ha, così, una mentalità sfrenata nell'«esigere» e questo si rivela non solo in sede commerciale, ma anche semplicemente umana. Si pretende tutto, fino all'eccesso, e l'idea di felicità è nel poter comperare tutto quello che brilla e che è piacevole. Invano l'antica sapienza dei Ricordi dell'imperatore Marco Aurelio ci ammonisce: «La maggior parte delle cose che diciamo e facciamo non sono necessarie: chi le elimina dalla sua vita sarà più tranquillo e sereno».

 
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Se non si possono evitare le rughe del volto, è però possibile evitare le rughe dello spirito. Diciamo ai giovani: «Gli uomini, come il vino, migliorano invecchiando». Ma diciamo ai vecchi: «Attenti all'acidità!». «Come d'autunno si levan le foglie / l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie…»: molti avranno riconosciuto in questa comparazione, poeticamente fragrante ed echeggiante l'Eneide di Virgilio, la voce di Dante che raffigura in quelle foglie morte autunnali le anime perverse guidate da «Caron dimonio, con occhi di bragia» (Inferno III, 112-114).
 
Noi, invece, scegliamo, per l'ingresso in questa dolce stagione dai colori tenui e delicati, una curiosa riflessione del letterato parigino Jean-Baptiste-Alphonse Karr (1808-1890), che abbiamo scoperto in un'antologia. Brioso, talora incline alla satira, finì la sua vita nei pressi di Nizza dedicandosi alla floricoltura.
 
Ritorniamo, così, alla natura da cui siamo partiti con Dante; ora, però, di scena è l'autunno della vita umana, la vecchiaia che ha come emblema la ragnatela di rughe che si distende sul nostro volto. Tanto temuta dai vanitosi (che non sono solo le donne), essa permette un'applicazione che si addice a tutti. Ci sono, infatti, anche le «rughe dello spirito», come giustamente osservava Karr, ed esse sono equamente distribuite in tutte le età.
 
Ecco, allora, quel duplice consiglio. Ai giovani: non temete il flusso degli anni, perché esso porta con sé esperienza, sapienza, consiglio e, quindi, migliora la persona, come accade al vino. Agli anziani: attenzione, non è così automatico che vecchiaia e maturità siano sinonimi, perché ci può essere anche la degenerazione, proprio come avviene a certi vini inaciditi o abboccati. Ogni età è bella purché l'anima (e non tanto il corpo) abbia poche rughe.
 
 
 
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Non ho mai dimenticato una frase che mi diceva mio padre, un umile stagnino: «Fai la fame, ma compera dei libri e gira il mondo». È per me da tanti anni un amico; nella sua comunità ritorno sempre con gioia, accolto da un'ospitalità affabile e generosa; la sua raffinatezza come cuoco è pari alla sagacia con cui elabora i suoi scritti. Sto parlando di un autore che i lettori di Avvenire ben conoscono e apprezzano. È il monaco Enzo Bianchi della comunità di Bose (Biella), al quale debbo questa confessione autobiografica che giro a tutti perché è adatta alla ripresa scolastica che sta verificandosi in questi giorni.

 

Quanti genitori sarebbero pronti a ripetere questo consiglio ai loro figli? Al massimo regalerebbero l'ultimo ritrovato elettronico, un capo di abbigliamento firmato e una vacanza-studio che di studio ha solo il nome. La vera attrezzatura per affrontare la vita non è nelle tenute sportive o nei processori più sofisticati, ma in uno studio appassionato e serio e in un'esperienza fatta di conoscenza genuina e non di semplici trasferimenti spaziali in località esotiche.

 

 Fermiamoci solo su questa parola che sembra un po' fuori moda, «studiare». Non è un esercizio facile perché esige impegno, attenzione, costanza; ma chi entra in questa consuetudine riesce a capire per quale ragione in latino studère abbia come accezione primaria proprio l'«appassionarsi».

 

Ecco, il vero studio non è soltanto apprendimento, ma ricerca, analisi, riflessione, creatività e alla fine l'aprirsi di orizzonti inattesi e immensi. Il vecchio stagnino, però, aveva capito che bisognava coniugare allo studio l'esperienza. Nei suoi Consigli a uno studente (1942), lo scrittore francese Max Jacob diceva: «La verità sul mondo non s'impara solo sui libri… La bellezza la troverai guardando la natura, la verità la scoprirai da solo nella ricerca».

 

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Dentro di me c'è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c'è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente è coperta di pietre e di sabbia: in quel momento Dio è sepolto, bisogna allora dissotterrarlo di nuovo.

 

Non è la prima volta che abbiamo lasciato la parola a Etty Hillesum, giovane donna ebrea olandese, deportata ad Auschwitz: per due anni, alle soglie della sua morte nelle camere a gas di quel lager, ci ha lasciato un diario spirituale emozionante, tradotto in italiano da Adelphi (Diario 1941-43).

 

In questa domenica facciamo risuonare la sua parola cristallina perché ci aiuta a incontrare Dio.

Tanti sono i crocevia nei quali egli ci attende. Etty, cioè Ester, ce ne ricorda uno vicinissimo e sempre aperto al passaggio di Dio, quello della nostra anima, di quell'interiorità che è simile a una sorgente zampillante.

 

C'è una straordinaria freschezza in questo incontro, c'è intimità, spontaneità, immediatezza, come dice il Salmista: «L'anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente… in te la sorgente della vita… O Dio, ha sete di te l'anima mia in terra arida, assetata, senz'acqua» (42,3; 36,10; 63,2).

 

Ma giunge il giorno in cui sulla fonte si deposita una frana di detriti e Dio rimane sepolto.

È la valanga delle cose, dell'esteriorità, della superficialità, della colpa che ricopre l'anima di una coltre pesante fatta di relitti, di scorie, di rifiuti.

 

Bisogna, allora, con impegno, anche a mani nude, scavare per «dissotterrare Dio», riportarlo ancora al centro della coscienza, liberare dal fango le sue labbra perché ci parlino di nuovo, aiutare le sue mani ad accarezzarci.

 

Anche Dio ha bisogno di noi per essere lasciato libero di muoversi nello spazio della nostra anima e della nostra vita.

È per questo che ci ha creati liberi come lo è lui, per un abbraccio spontaneo, schietto, tenero.

 

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Maestro: dopo quello di padre, è il più dolce nome che possa dare un uomo a un altro uomo.

 

Una volta, passeggiando per le strade di Atene, mi stupii di vedere in vetrina un libro intitolato in greco Kardia: sì, era proprio quel Cuore che il nostro Edmondo De Amicis pubblicò nel 1886 e che accompagnò tutti gli adolescenti di varie generazioni fino – credo – al Sessantotto quando furono abbattuti molti miti (ma anche alcuni valori) di cui grondavano quelle pagine.

 

Durante le scorse vacanze, nella mia casa paterna, ho ritrovato l'edizione sgualcita di quella mia lontana lettura ormai antica e, sfogliandola, mi sono imbattuto in questa definizione, enfatica fin che si vuole, ma meritevole di un pensiero che riserviamo proprio agli esordi del mese che s'affaccia sul nuovo anno scolastico. Con la “maestrina dalla penna rossa” se ne sono andati anche quasi tutti gli altri maestri.

 

È vero, alcuni erano decisamente cattivi maestri, altri erano impregnati e asserviti alle ideologie, altri ancora erano stanchi ripetitori di concezioni e di ideali un po' decotti. Ma con quella piazza pulita che si è fatta, i giovani (ma non solo) si sono trovati in un deserto senza padri e maestri. Il padre è stato cancellato dalla psicanalisi a causa della sua ombra incombente e seducente; il maestro è stato spazzato via dalla società emancipata e dalle nuove teorie pedagogiche.

 

Visti i risultati, qualche resipiscenza sta ora emergendo e la figura dell'educatore torna a presentarsi nella scuola, nella comunità civile ed ecclesiale. Con una consapevolezza, comunque: ben arduo e delicato è questo compito e i suoi errori sono sempre tragici, anche perché – come diceva Orazio (citato da sant'Agostino) – «una volta che un'anfora è stata impregnata di un odore, lo conserverà a lungo».

 

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La ferma convinzione religiosa, la sua angoscia, la sua fiducia, il suo senso del peccato, tutto scivola molto lentamente nella laicità e si confonde fin quasi a sparire. Quello che una volta era importante, ora sembra lontano. Non è una rottura drammatica, scivola solo via.

 

S'intitola Un'altra vita (Iperborea 2010) ed è in pratica un'autobiografia alla terza persona di uno dei più noti scrittori svedesi contemporanei, Per Olov Enquist. Il filo narrativo parte dal 1934 in uno sperduto villaggio puritano della Svezia settentrionale, nel silenzio glaciale e immutabile delle nevi e del cielo stellato, e procede percorrendo l'Europa con la storia tormentata del secondo Novecento.

 

Una delle tappe è quella della perdita della fede, intimamente istillata dalla madre, maestra elementare, nel cuore e nella carne del figlio. Eppure, quest'anima così radicata lentamente si dissolve. Non è un trauma etico o metafisico o storico a creare questa dissipazione, ma è un puro e semplice «scivolar via».

 

Penserei a un avverbio per rappresentare questa crisi: «insensibilmente». In esso si racchiude la storia di tanti nostri giovani e forse anche di alcuni di noi, se si entra nel santuario sigillato delle coscienze, di là dalle pareti dei comportamenti esteriori.

 

Non è stata una ribellione contro Dio e neppure un evento scandaloso che ha scagliato contro il cielo, cancellando la fede. È stato solo un progressivo disfacimento a cui non si è badato, pensando che fosse solo qualche distacco secondario.

 

E, invece, in modo impercettibile - insensibilmente, appunto - Dio, fede, grazia, peccato, colpa sono diventate parole senza senso e soprattutto senza riscontri vitali. Sono «scivolati via» ed è rimasto il vuoto. Fermiamoci, allora, e riflettiamo prima che tutto si dissolva.



 

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Messaggio Cristiano
UDIENZA GENERALE, 1° Maggio 2024

Catechesi. I vizi e le virtù. 17. La fede

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi vorrei parlare della virtù della fede. Insieme con la carità e la speranza, questa virtù è detta “teologale”. Le virtù teologali sono tre: fede, speranza e carità. Perché sono teologali? Perché le si può vivere solo grazie al dono di Dio. Le tre virtù teologali sono i grandi doni che Dio fa alla nostra capacità morale. Senza di esse noi potremmo essere prudenti, giusti, forti e temperanti, ma non avremmo occhi che vedono anche nel buio, non avremmo un cuore che ama anche quando non è amato, non avremmo una speranza che osa contro ogni speranza.

Che cos’è la fede? Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci spiega che la fede è l’atto con cui l’essere umano si abbandona liberamente a Dio (n. 1814). In questa fede, Abramo è stato il grande padre. Quando accettò di lasciare la terra dei suoi antenati per dirigersi verso la terra che Dio gli avrebbe indicato, probabilmente sarà stato giudicato folle: perché lasciare il noto per l’ignoto, il certo per l’incerto? Ma perché fare quello? È pazzo? Ma Abramo parte, come se vedesse l’invisibile. Questo dice la Bibbia di Abramo: “Andò come se vedesse l’invisibile”. È bello questo. E sarà ancora questo invisibile a farlo salire sul monte con il figlio Isacco, l’unico figlio della promessa, che solo all’ultimo momento sarà risparmiato dal sacrificio. In questa fede, Abramo diventa padre di una lunga schiera di figli. La fede lo ha reso fecondo.

Uomo di fede sarà Mosè, il quale, accogliendo la voce di Dio anche quando più di un dubbio poteva scuoterlo, continuò a restare saldo e a fidarsi del Signore, e persino a difendere il popolo che invece tante volte mancava di fede.

Donna di fede sarà la Vergine Maria, la quale, ricevendo l’annuncio dell’Angelo, che molti avrebbero liquidato perché troppo impegnativo e rischioso, risponde: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38). E con il cuore pieno di fede, con il cuore pieno di fiducia in Dio, Maria parte per una strada di cui non conosce né il tracciato né i pericoli.

La fede è la virtù che fa il cristiano. Perché essere cristiani non è anzitutto accettare una cultura, con i valori che l’accompagnano, ma essere cristiano è accogliere e custodire un legame, un legame con Dio: io e Dio; la mia persona e il volto amabile di Gesù. Questo legame è quello che ci fa cristiani.

A proposito della fede, viene in mente un episodio del Vangelo. I discepoli di Gesù stanno attraversando il lago e vengono sorpresi dalla tempesta. Pensano di cavarsela con la forza delle loro braccia, con le risorse dell’esperienza, ma la barca comincia a riempirsi d’acqua e vengono presi dal panico (cfr Mc 4,35-41). Non si rendono conto di avere la soluzione sotto gli occhi: Gesù è lì con loro sulla barca, in mezzo alla tempesta, e Gesù dorme, dice il Vangelo. Quando finalmente lo svegliano, impauriti e anche arrabbiati perché Lui li lascia morire, Gesù li rimprovera: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (Mc 4,40).

Ecco, dunque, la grande nemica della fede: non è l’intelligenza, non è la ragione, come, ahimè, qualcuno continua ossessivamente a ripetere, ma la grande nemica della fede è la paura. Per questo motivo la fede è il primo dono da accogliere nella vita cristiana: un dono che va accolto e chiesto quotidianamente, perché si rinnovi in noi. Apparentemente è un dono da poco, eppure è quello essenziale. Quando ci hanno portato al fonte battesimale, i nostri genitori, dopo aver annunciato il nome che avevano scelto per noi, si sono sentiti interrogare dal sacerdote – questo è successo nel nostro Battesimo –: «Che cosa chiedete alla Chiesa di Dio?». E i genitori hanno risposto: «La fede, il battesimo!».

Per un genitore cristiano, consapevole della grazia che gli è stata regalata, quello è il dono da chiedere anche per suo figlio: la fede. Con essa un genitore sa che, pur in mezzo alle prove della vita, suo figlio non annegherà nella paura. Ecco, il nemico è la paura. Sa anche che, quando cesserà di avere un genitore su questa terra, continuerà ad avere un Dio Padre nei cieli, che non lo abbandonerà mai. Il nostro amore è così fragile, e solo l’amore di Dio vince la morte.

Certo, come dice l’Apostolo, la fede non è di tutti (cfr 2 Ts 3,2), e anche noi, che siamo credenti, spesso ci accorgiamo di averne solo una piccola scorta. Spesso Gesù ci può rimproverare, come fece coi suoi discepoli, di essere “uomini di poca fede”. Però è il dono più felice, l’unica virtù che ci è concesso di invidiare. Perché chi ha fede è abitato da una forza che non è solo umana; infatti, la fede “innesca” la grazia in noi e dischiude la mente al mistero di Dio. Come disse una volta Gesù: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (Lc 17,6). Perciò anche noi, come i discepoli, gli ripetiamo: Signore, aumenta la nostra fede! (cfr Lc 17,5) È una bella preghiera! La diciamo tutti insieme? “Signore, aumenta la nostra fede”. La diciamo insieme: [tutti] “Signore, aumenta la nostra fede”. Troppo debole, un po’ più forte: [tutti] “Signore, aumenta la nostra fede!”. Grazie.

Papa Francesco