L´indulgenza plenaria in parole semplici
Non basta chiedere perdono, è necessario rimediare al danno commesso. C´è in gioco la nostra felicità
Di Maria Cristina Corvo
Fabriano, 02 Agosto 2015 (ZENIT.org)
Ma cos’è, di preciso, l’indulgenza plenaria? Visto che il 2 agosto si può riceverla in regalo da Dio, andando alla Porziuncola (o in qualsiasi altro posto francescano), proviamo a spiegarla con parole semplici.
C’era una volta… sì, proprio così.
Iniziamo con “c’era una volta”, lasciamo da parte per un attimo il Catechismo della Chiesa Cattolica al n°1471 (dove c’è la spiegazione chiara, ma con un linguaggio un po’ da addetti ai lavori) e partiamo da una storia.
Dicevamo…
C’era una volta un ragazzino con un brutto carattere. Suo padre gli diede un sacchetto di chiodi e gli disse di piantarne uno nello steccato del giardino ogni volta che avesse perso la pazienza e litigato con qualcuno. Il primo giorno il ragazzo piantò 37 chiodi nello steccato.
In seguito il numero di chiodi piantati nello steccato diminuì gradualmente. Aveva scoperto che era più facile controllarsi che piantare quei chiodi. Finalmente arrivò il giorno in cui il ragazzo riuscì a controllarsi completamente. Lo raccontò al padre e questi gli propose di togliere un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non avesse perso la pazienza. I giorni passarono e finalmente il ragazzo fu in grado di dire al padre che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato.
Il padre prese suo figlio per la mano e lo portò davanti allo steccato. Gli disse: “Ti sei comportato bene, figlio mio, ma guarda quanti buchi ci sono nello steccato. Lo steccato non sarà più quello di prima. Quando litighi con qualcuno e gli dici qualcosa di brutto, gli lasci una ferita come queste. Puoi piantare un coltello in un uomo e poi estrarlo. Non avrà importanza quante volte ti scuserai, la ferita rimarrà ancora lì. Una ferita verbale fa male quanto una fisica”.
Un bel racconto realistico e concreto, così come realistica e concreta è la vita di tutti i giorni.
Ogni chiodo piantato nello steccato rappresenta un peccato che abbiamo commesso e se togliamo questi chiodi (con il pentimento, con il sacramento della riconciliazione, con la conversione…) possiamo vedere i buchi che essi lasciano nel legno e che rimarranno per sempre.
Ecco: l’indulgenza cancella quel “per sempre” che abbiamo appena scritto e lo trasforma in “fino a che non ci mette le mani Dio in persona”.
Nel sacramento della riconciliazione si riceve il perdono di Dio, certo; ma intorno a noi non si cancellano le ferite (i buchi) che abbiamo lasciato.
Come possiamo sanare quelle ferite?
Come possiamo cancellare quei buchi, rimasti nel legno?
Con l’indulgenza plenaria Dio stesso interviene, cancellando perfino i segni di stucco usato per coprire i buchi lasciati dai chiodi.
Scompare ogni conseguenza del male che abbiamo fatto intorno a noi e la realtà intera viene guarita da Dio.
Per utilizzare dei termini un po’ più teologici, si dice che nella confessione viene cancellata solo la colpa (cioè il peccato che abbiamo fatto) ma con l’indulgenza viene annullata anche la pena (cioè la penitenza che dovremmo affrontare per le brutte conseguenze che abbiamo provocato in noi e negli altri).
Il termine “penitenza” oggi sembra desueto ma ne possiamo recuperare il valore, collegandolo al concetto di giustizia.
Se un uomo uccide un padre di famiglia e poi si pente, può darsi pure che la sua richiesta di perdono venga accolta dai figli particolarmente buoni dell’uomo ucciso. Ma poi, la faccenda, non può finire lì.
Come dovrebbe continuare, lo ha spiegato bene un insegnante speciale americano.
Nel famosissimo discorso fatto nella sua “ultima lezione”, Randy Pausch (sapendo di stare per morire) dice ai suoi allievi alcune perle preziose per poter diventare delle persone brave e felici.
Ad un certo punto esorta:
“Se vuoi realizzare i tuoi sogni è meglio che giochi onestamente con gli altri… quando sbagli, chiedi scusa. Una buona scusa è formata da tre parti:
1) mi dispiace
2) era colpa mia
3) cosa posso fare per rimediare?
La maggior parte della gente salta la terza parte”.
Quanto è vero!
Quando noi sbagliamo bersaglio e non facciamo centro (questo è il significato etimologico della parola “peccato” nell’Antico Testamento), per diventare bravi arcieri dobbiamo passare attraverso tutte e tre le fasi.
La prima fase è il pentimento; la seconda fase è l’assunzione di responsabilità, mentre la terza fase (e qui arriviamo al concetto di indulgenza) è rimediare alle conseguenze dei nostri sbagli.
Troppo facile fermarsi al chieder scusa ai figli dell’uomo che hai ucciso. Devi assumerti le tue responsabilità a dare a quei figli tutto quel che il padre avrebbe dato loro, se fosse stato ancora vivo.
Giovanni Paolo II ricorda che “anche dopo l’assoluzione rimane una zona d’ombra, dovuta alle ferite del peccato, all’imperfezione dell’amore nel pentimento, all’indebolimento delle facoltà spirituali, in cui opera ancora un focolaio infettivo di peccato, che bisogna sempre combattere con la mortificazione e la penitenza” (Reconciliatio et paenitentia 31,III).
La penitenza rimette in moto la giustizia, cioè toglie i chiodi dallo steccato e mette lo stucco al posto del buco. Rimedia al danno fatto.
L’indulgenza plenaria è aggiustare il legno, ricreandolo con la potenza di Dio. Lo steccato ritorna integro e neanche lo stucco si vede più.
Dio stesso interviene per sanare il nostro equilibrio interiore, la comunione con Lui ed il rapporto con tutte le sue creature che sono state ferite da noi.
L’indulgenza plenaria ripara i disordini da noi provocati e purifica la nostra vita, perché “sfrutta” la forza santificatrice di Gesù e dei santi.
Gesù immette in noi (o nei nostri cari, nel caso chiedessimo l’indulgenza plenaria per qualche defunto) la sua forza creatrice, per rendere più rapida ed efficace la riparazione che noi, da soli, faremmo peggio e molto più lentamente.
Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, al n.1471 si spiega molto bene questo regalo di Dio: “L’Indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni, acquista per intervento della Chiesa, la quale, come ministra della redenzione, dispensa ed applica autoritativamente il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei Santi”.
È un regalo che riceviamo, allungando la mano nel tesoro di Dio!
Un tesoro le cui monete d’oro sono state messe lì da Gesù stesso e dai santi che, man mano, hanno offerto tutto di loro per la nostra salvezza.
Sono quelle monete (pagate spesso col sangue della vita e con l’amore per i peccatori) che hanno riempito il baule di Dio di grazie che ci guariscono.
E Dio le dona a chi:
- Chiede perdono
- È pentito di quel che ha fatto
- È disposto a rimediare
Perché fa tutto questo?
Perché arriviamo ad essere felici, il prima possibile.
§§§§§
Un fedele lettore, Stefano Costa, mi ha scritto sottoponendomi una questione di non poco conto:
DOMANDA
«Le scrivo per esporle un dubbio, che mi assilla ormai da tempo, riguardo alla giustizia divina (e qui traggo spunto dal suo post del 5 agosto 2009, circa “I peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio”): davvero Dio “vendica” i peccati degli uomini castigando i peccatori, nel tempo e/o nell’eternità? Io sono convinto di sí: anzi, a quanto ne so io, che Dio, giusto rimuneratore, premi i buoni e punisca i malvagi dovrebbe essere verità di fede... Eppure, spesso mi sono sentito dire, anche da sacerdoti di cui ho grande stima, cose come queste:
“Dio non punisce il peccato con una qualche pena temporale o eterna. Dio è la bontà stessa: come potrebbe infliggere delle pene all’uomo peccatore? No, è l’uomo stesso che si punisce, subendo le conseguenze dei suoi errori, e l’inferno — se mai qualcuno vi si trova — l’inferno non è altro che l’esclusione, l’autoesclusione dall’amore divino. Dunque l’inferno non è una punizione inflitta da Dio. Dio non punisce”.
Insomma, non è Dio che punisce e manda all’Inferno, ma siamo noi ad auto-punirci e ad auto-relegarci all’Inferno. Beninteso, sono d’accordo con l’affermazione che il peccato danneggia il peccatore, ma non penso che i castighi divini si riducano a questo. Trovo che questa dottrina sia in contraddizione con innumerevoli passi della Scrittura (ad es. 2 Sam 12, 13-15; il diluvio universale; Sodoma e Gomorra; le piaghe d’Egitto; l’episodio di Anania e Saffira negli Atti, ecc...); che dire poi delle fiamme dell’Inferno? Anche quelle sono auto-inflitte?
………………………………....
RISPOSTA
Egregio Signor Costa, la spiegazione dataLe dai sacerdoti, a parte l’inciso (che riprende l’idea attribuita a Hans Urs von Balthassar, secondo cui l’inferno esiste, ma si spera che sia vuoto), non è una loro personale trovata, ma è l’attuale insegnamento ufficiale della Chiesa. Se prendiamo infatti il Catechismo della Chiesa Cattolica vi troviamo scritto esattamente quanto ripetuto più o meno fedelmente da molti di noi sacerdoti:
«Morire in peccato mortale senza essersene pentiti e senza accogliere l’amore misericordioso di Dio, significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola “inferno”» (n. 1033).
Ritroviamo lo stesso insegnamento nel Compendio del medesimo Catechismo:
«Come si concilia l’esistenza dell’inferno con l’infinita bontà di Dio?
Dio, pur volendo “che tutti abbiano modo di pentirsi” (2 Pt 3:9), tuttavia, avendo creato l’uomo libero e responsabile, rispetta le sue decisioni. Pertanto, è l’uomo stesso che, in piena autonomia, si esclude volontariamente dalla comunione con Dio se, fino al momento della propria morte, persiste nel peccato mortale, rifiutando l’amore misericordioso di Dio» (n. 213).
Come si concilia tale insegnamento con i testi da Lei riportati? Beh, penso che ci sia una importante distinzione da fare: i castighi si riferiscono a “pene temporali”; mentre, quando parliamo di “inferno”, ci stiamo riferendo alla “pena eterna”. Penso che sia evidente a tutti la differenza: non possiamo mettere sullo stesso piano una punizione temporanea e un castigo eterno.
Ciò che fa problema alla nostra mentalità, e a cui il Catechismo cerca di dare una spiegazione, è come conciliare l’inferno con l’infinita bontà di Dio. Le pene temporali non pongono lo stesso problema, perché possono essere facilmente spiegate in altro modo. Per esempio, gli esegeti ci insegnano che i castighi di cui parla la Bibbia vanno considerati come un’espressione della pedagogia di Dio nei confronti del suo popolo. Anche i genitori, quando danno punizioni, non lo fanno in applicazione della “giustizia vendicativa”, ma semplicemente per educare i loro figli. Lei capisce bene che tale ragionamento non si può applicare all’inferno.
Mi sembra che Paolo VI, nella Indulgentiarum doctrina, esponga in maniera molto esauriente l’insegnamento tradizionale della Chiesa in proposito. Purtroppo, ho l’impressione che tale insegnamento non sia stato ripreso con la stessa completezza dal Catechismo :
«Per comprendere questa dottrina e questa pratica della Chiesa [= le indulgenze] bisogna tener presente che il peccato ha una duplice conseguenza. Il peccato grave ci priva della comunione con Dio e perciò ci rende incapaci di conseguire la vita eterna, la cui privazione è chiamata la “pena eterna” del peccato. D’altra parte, ogni peccato, anche veniale, provoca un attaccamento malsano alle creature, che ha bisogno di purificazione, sia quaggiù, sia dopo la morte, nello stato chiamato Purgatorio. Tale purificazione libera dalla cosiddetta “pena temporale” del peccato. Queste due pene non devono essere concepite come una specie di vendetta, che Dio infligge dall’esterno, bensì come derivanti dalla natura stessa del peccato. Una conversione, che procede da una fervente carità, può arrivare alla totale purificazione del peccatore, così che non sussista più alcuna pena» (n. 1472).
«Il perdono del peccato e la restaurazione della comunione con Dio comportano la remissione delle pene eterne del peccato. Rimangono, tuttavia, le pene temporali del peccato. Il cristiano deve sforzarsi, sopportando pazientemente le sofferenze e le prove di ogni genere e, venuto il giorno, affrontando serenamente la morte, di accettare come una grazia queste pene temporali del peccato; deve impegnarsi, attraverso le opere di misericordia e di carità, come pure mediante la preghiera e le varie pratiche di penitenza, a spogliarsi completamente dell’“uomo vecchio” e a rivestire “l’uomo nuovo”» (n. 1473).
Come si vede, nessun riferimento alla giustizia e alla necessità di reintegrare l’ordine perturbato dal peccato. Mi sembra invece più equilibrata la descrizione, che il Catechismo fa, delle pene inflitte dalla legittima autorità pubblica (e che, secondo me, si potrebbe applicare, mutatis mutandis, anche alle pene inflitte da Dio):
«La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole» (n. 2266).
Come si spiega tale incertezza? Beh, penso che dobbiamo ammettere che, pur rimanendo identica la dottrina, sia possibile, nel corso dei secoli, che la Chiesa affronti gli stessi problemi da diversi punti di vista, e sottolinei ora un aspetto ora un altro, secondo i bisogni del tempo in cui si trova a vivere.
……………………………
Che poi ogni tempo abbia la sua sensibilità, non può essere negato. Nel passato si preferiva presentare Dio come un giusto giudice, oggi si preferisce descriverlo come padre misericordioso. Non si tratta di una contraddizione, ma semplicemente di una diversa accentuazione, di un diverso punto di vista; i due aspetti sono entrambi veri; se si vuole, complementari. Spesso si dimentica che in Dio tutti gli attributi si identificano: in lui non può esserci contraddizione fra la giustizia e la misericordia (cosa che ben compresero i santi, come per esempio Santa Teresa, secondo la quale Dio non sarebbe davvero giusto, se non fosse misericordioso).
Se è vero che in Dio non può esistere contraddizione e in lui tutti gli attributi si identificano, è altrettanto vero che da parte nostra è bene continuare a distinguere, perché non possiamo comprendere con un unico atto mentale l’infinita giustizia e l’infinita misericordia di Dio. Per cui è opportuno affiancare sempre, come fa Paolo VI, giustizia e misericordia, e ricordare, oltre all’amore infinito di Dio, «il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati» (1 Tm 2:4), anche la sua giustizia, che tende a reintegrare l’ordine universale perturbato dal peccato.
Rimane però il fatto, innegabile, che oggi si preferisce parlare di misericordia, piuttosto che di giustizia: non sarà un “segno dei tempi”? non sarà che, forse, oggi il mondo ha bisogno soprattutto di misericordia?
Al tempo del giansenismo, che tanto insisteva sulla trascendenza divina e sull’abisso che separa Dio dall’uomo, incapace di avvicinarsi a lui, si diffuse nella Chiesa la devozione al sacratissimo Cuore di Gesú.
Ai nostri giorni Santa Faustina ha promosso la devozione alla Divina Misericordia e Giovanni Paolo II se ne è fatto apostolo (sono convinto che Papa Wojtyla verrà ricordato nella storia non per lo “spirito di Assisi”, ma per questo, che considero il suo maggior merito: aver dischiuso all’umanità il mistero della Divina Misericordia). Non credo che si tratti di un caso. Evidentemente è proprio questo ciò di cui oggi il mondo ha più bisogno: non tanto di temere un Dio giusto, ma confidare in un Dio misericordioso. E confidare nella misericordia di Dio non nega certo la sua giustizia; semmai, la esalta.
Padre Scalese, barnabita
|