Giovedì 19 Dicembre 2024

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I Cappuccini


Cardinale Massaja, una vita di carità

Esempio di sollecitudine pastorale e carica missionaria in patria e in Africa

 

Sandali e bastone sono stati gli strumenti pastorali dell'apostolato missionario del Vescovo cappuccino fra Guglielmo Massaja, nato a Piova' di Asti nel 1809 e morto a Napoli nel 1889 come Cardinale di Santa Romana Chiesa, e ora anche Servo di Dio.

 

Quando ricevette la porpora cardinalizia, cinque anni prima della morte, si sfogò con un suo amico Vescovo così: "La nomina avuta dal Santo Padre è per me l'ultimo tracollo che mi porterà ben presto al sepolcro, e mi costerà forse qualche secolo di purgatorio, se pure con la grazia di Dio e l'intercessione della sua gran Madre Maria, mi riuscirà di salvare il capitale dell'anima mia dal discendere più basso".

 

Due sono le ragioni che mi hanno spinto a farne memoria: la ricorrenza dell'Anno Sacerdotale che ha raggiunto la sua conclusione. Il Massaja è una figura di religioso, di sacerdote, di missionario, di Vescovo, di Cardinale che ha qualcosa da dire anche oggi per la sua sollecitudine pastorale e carica missionaria, per la sua vita ridotta all'essenziale della povertà religiosa, per la sua franchezza nell'esprimere le sue considerazioni e valutazioni personali, proprie di uno che viveva sul campo e sentiva le cose sulla sua pelle circa orientamenti e provvedimenti che riceva da chi di dovere; non taceva mai la verità dinanzi ai Superiori pur nella chiara determinazione di voler "morire mille volte per la fede e l'obbedienza alla Chiesa" e confessava: "Quando veggo qualche cosa, sento il bisogno di versarlo a chi dirige l'opera di Dio".

 

L'altra ragione è che per quattro volte è passato da Genova e vi ha anche sostato, pur se solo per qualche giorno; inoltre ha avuto a che fare con un valoroso e intraprendente sacerdote genovese, apostolo del riscatto delle morette, Don Luigi Sturla. Il Massaja, senza badare alle etichette e alle cose per niente benevole che si dicevano sul conto di questo prete come tipo sospetto per le sue idee, ma guardando alla sostanza, se lo era fatto suo valido e prezioso collaboratore.

 

Nel maggio del 1864 da Roma andò a Marsiglia per la consacrazione di Notre Dame de la Garde!

 

Le poche cose che dico, certamente non tratteggiano in pieno questo grande uomo – ci vorrebbero molte pagine! – ma ritengo e mi auguro che possano stuzzicare la curiosità e invogliare a leggere la sua biografia per farsi un'idea della statura di questo sant'uomo e infaticabile apostolo del Vangelo.

 

Egli addirittura riteneva che la vita religiosa sarebbe risorta con "l'abbandonare i conventi inutili, dove non si ottiene altro che guastare i religiosi", per aprirsi alla gente e servirla sul piano della fede. Lui, in un momento di smarrimento per l'incomprensione, era giunto a scrivere: "Non posso far di più che ammazzarmi (dal lavoro) per la causa delle anime".

"In questa nostra patria educati al fasto e alle delizie, non sappiamo vestire la semplicità e la povertà degli Etiopi, per renderli ricchi".

 

Il genovese Card. Alimonda, Arcivescovo di Torino, incontrando a Frascati il Card. Massaja, già ritornato in Italia, ne rimase ammirato per il suo ancora rigido tenore di vita e la sua estrema povertà anche quando avrebbe potuto concedersi qualche transazione, privilegio e riguardo per la sua condizione e posizione.

 

Ed ora vengo a quello da cui sono partito: il suo corredo pastorale.

I sandali da frate cappuccino, che lui stesso si faceva in missione subito da Vescovo e che ha portato anche da Cardinale, hanno avvolto e protetto i suoi piedi nudi e gli hanno permesso di percorrere migliaia di Km per raggiungere in 6 anni la sede del Vicariato Apostolico dei Galla nell'alta Etiopia.

 

Il bastone che lui stesso si era costruito con un ramo di cedro del Libano dove aveva infilato come manico la radica dell'olivo del Getsemani nella prima tappa del suo interminabile viaggio verso la sua residenza episcopale.

 

Al suo rientro in Italia dopo 35 anni di dura missione, quando si era presentato al Papa Leone XIII, per motivi di protocollo curiale, gli era stato fatto lasciare in anticamera.

Il bastone andava bene nella terra fangosa, nel guado dei fiumi tra animali pericolosi, nelle boscaglie e nelle foreste ma disdiceva nelle stanze vaticane.

Il Papa umanista ma di cuore evangelico, venutolo a sapere, dopo aver ascoltato per più di mezz'ora il Vescovo Massaja ed essersene addirittura "invaghito" per la sua mirabolante e drammatica avventura missionaria, lo congedava proponendogli di volerlo risentire per l'ora del suo passeggio pomeridiano in giardino e gli accordava la facoltà di portare con sé il suo fatidico e famoso bastone.

 

In realtà quel bastone di puro legno, tanto e ancor più prezioso del pastorale di metallo della sua Ordinazione Episcopale solenne, ricevuta ad appena 37 anni di età quale primo Vicario Apostolico dei Galla, nella Chiesa di Carlo al Corso in Roma, è stato il compagno di vita e di viaggio e l'appoggio di tutti gli anni e i giorni del suo incessante peregrinare missionario per portare a tutti e in tutti i luoghi e ambienti la buona notizia del Vangelo, costituire comunità di cristiani e ordinare e lasciarvi dei preti indigeni come pastori.

 

Sandali e bastone sono due segni, umanamente, socialmente ed ecclesiasticamente poveri e dimessi, che caratterizzano la figura austera del Massaja, quale testimone dell'uomo evangelico, la cui dignità non ha sacrificato e condizionato il suo essere tutto a tutti senza volersi distinguere se non per servire di più e far servire tutto quello che era, sapeva, aveva e poteva.

 

Il suo dopo missione lo vedeva come il tempo per prepararsi a morire e a rendere conto del suo operato. Il suo intendimento e proposito era questo: "Io metterò l'abito cappuccino e passerò il resto della mia vita nel più dimenticato convento dell'Ordine, disposto anche a fare la questua".

 

Nelle fotografie è vero che appare anche rivestito degli abiti episcopali e cardinalizi ma nel monumento, si direbbe ufficiale, che lo raffigura, si vede il Card. Massaja precisamente con il saio da frate cappuccino con sopra una semplice croce pettorale, con i sandali ai piedi bene evidenziati e con l'inseparabile bastone di legno liscio in mano.

 

Dando uno sguardo rapidissimo ai suoi primi 10 anni di vita religiosa cappuccina e presbiterale, trascorsi in Piemonte, si poteva dire che il suo destino si sarebbe svolto nel solco dello studio, della cultura teologica e dell'insegnamento filosofico. Ma a 37 anni, improvvisamente come un fulmine a ciel sereno, avviene la grande svolta. Dal Procuratore Generale e in seguito anche Ministro Generale del suo Ordine Cappuccino, già sua guida formativa negli anni dello studentato, fra Guglielmo è chiamato a raggiungere immediatamente Roma da Torino dove prestava servizio di Cappellano presso l'Ospedale Mauriziano. Il morente Papa Gregorio XVI aveva deciso di provvedere direttamente alla prospettata possibilità e richiesta di aprire una missione evangelizzatrice nell'alta Etiopia e ne dava l'incarico al P. Venanzio da Torino perché scegliesse tra i Frati del suo Ordine Cappuccino le persone adatte tra cui uno da ordinare subito Vescovo e spedirlo in missione senza attendere alcun tempo per non perdere il treno dell'occasione di una nuova presenza missionaria della Chiesa Cattolica in ambienti dominati da altre Confessioni e Chiese non cattoliche.

 

Chi meglio del Padre Massaja che, a suo tempo, aveva manifestato la sua disponibilità ad andare missionario ad gentes e si era votato ad essere missionario a vita?

 

La chiamata della Chiesa per lui era e fu la risposta sicura della bontà del suo anelito missionario; dentro di sé la grazia dell'episcopato che avrebbe ricevuto, anche se aveva sentito fortemente la spinta a rinunciarvi, non gli montava la testa e non gli faceva assumere posizioni di superiorità e di distanza; tuttavia le si era arreso per amore di quelle anime di cui aveva sentito essere aperte al dono del Vangelo. Il suo cuore sacerdotale era infiammato e incalzato dalla carità pastorale e si vedeva sospinto dall'esperienza di Abramo: "Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela…verso la terra che io ti indicherò…e ti benedirò… e possa tu essere una benedizione" (Gn 12,1.2).

 

E' partito e non si è più fermato finché le sue forze lo hanno sostenuto. Il suo camminare con sandali e bastone è durato 35 anni con viaggi ora di 500, ora di 300 Km aerei e via discorrendo. Se qualche volta si è fermato, è perché glielo hanno impedito sia persone che volevano la sua morte, sia circostanze ambientali e climatiche che rendevano impraticabili le strade, oppure soprattutto per far conoscere il Vangelo, battezzare, ordinare preti indigeni e vescovi.

 

Durante questa parabola, ha dovuto fare di tutto, pur di aiutare la sua gente: il sarto, il ciabattino, l'infermiere, il chirurgo, il guaritore efficace del vaiolo col vaccino confezionato dalle sue stesse mani (si calcola che abbia vaccinato 40.000 persone!); l'esploratore, lo studioso geografico, l'inventore dell'alfabeto scritto della lingua amarica e il compilatore della relativa grammatica; ha dovuto industriarsi a fare la carta su cui scrivere i suoi appunti dei più svariati generi.

 

Ha dovuto sostenere difficoltà e insidie rocambolesche a ritmo incalzante che avrebbero stroncato chiunque; affrontare pericoli di ogni genere per terra e per acqua, non escluso quello dell'impatto con animali feroci e velenosi; per tanto tempo ha pesato su di lui la scomunica e la condanna a morte da parte dell'abuna Salama II, un vescovo copto che voleva eliminare ogni seme e presenza della religione e Chiesa cattolica. Per dare compimento a questo malsano progetto omicida, lo stessa abuna Salama aveva indetto e stava conducendo nel suo territorio una crociata con il supporto di una taglia per poter catturare il Vescovo cappuccino cattolico e eliminarlo; questo Vescovo, nonostante tutte queste trappole e angherie, non si è lasciato prendere dalla paura e non si è dato per vinto, ma ha sostenuto un girovagare martoriante per sfuggire a ripetuti complotti mortali. Pur essendo Vescovo, ha dovuto anche nascondersi sotto un cognome diverso e una identità solo civile: farsi passare per il dottor Giorgio Bartorelli (nome del padrino di Battesimo e cognome modificato della mamma).

 

Il suo episcopio, per ben quasi sei anni prima di arrivare alla sua destinazione residenziale, spesso e volentieri è stato ora una tenda, ora una capanna, ora una grotta, ora una stamberga, ora la terra battuta.

 

Anche la Ordinazione episcopale di colui che oggi è S. Giustino De Jacobis, "un religioso lazzarista di sconfinata umiltà e già in vita in fama di santità presso le varie popolazioni", avvenne di notte in un ambiente di quattro metri per tre su un altare fatto di tre casse messe una sopra l'altra.

 

Al Massaja si deve praticamente anche la fondazione della Città di Addis Abeba, partendo dall'insediamento di una colonia agricola che in breve tempo ebbe una celerissima espansione e bellezza, tanto da essere chiamata "Nuovo Fiore" ossia Addis Abeba appunto!

 

Nei suoi 35 anni non sono mancate laceranti sofferenze morali: l'abbandono, l'isolamento, la dimenticanza, il silenzio, la bocciatura di sussidi pastorali elaborati da lui stesso, l'incomprensione dei suoi criteri missionari, ma neppure il suo tenace e schietto amore alla Chiesa nonostante tutto.

 

Si potrebbe dire che ha vissuto il martirio della carità pastorale nell'esercizio del dono della fortezza, "un martirio non di sangue, come scrisse all'allora Mons. Comboni, ora San Daniele, ma di cuore e di tribolazione,… di paziente fatica".

 

La memoria di tutte queste peripezie, per desiderio felice, provvidenziale e forte del Papa Leone XIII, fu consegnata a circa 4.000 pagine e inizialmente pubblicate in 12 volumi.

 

Il Papa aveva intuito che "l'avventura così colossale" del Massaja non doveva e non poteva restare ignota e raccontata solo verbalmente; per questo gli aveva  assegnato un'abitazione a Frascati dove, mentre si riposava e si curava, poteva e doveva attendere alla stesura, fino a scrivere anche per 15 ore al giorno, dei suoi famosi, emblematici e quasi leggendari: "I miei 35 anni di missione".

 

Il compimento della lunga parabola esistenziale e missionaria del Massaja avviene all'insegna di questo suo pensiero: "Ormai non penso più che a un cosa sola: a stare nella grazia di Dio, per il giorno della chiamata" che lo raggiunge a Napoli dove si era recato perché l'aria che vi respirava gli sembrava che lo ringiovanisse nella mente e nelle forze. Così "La cara morte era venuta a metter fine a tutti i bisogni, eccetto quello di amare Dio".

 

La Chiesa può dirsi fiera e contenta di aver generato e formato un cristiano, un religioso prete, vescovo e cardinale, un missionario, un servo di Dio come il cappuccino fra Guglielmo Massaja.

 

Oliveri Mons. Guido



 

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Messaggio Cristiano
UDIENZA GENERALE - Aula Paolo VI Mercoledì, 11 Dicembre 2024

Ciclo di Catechesi. Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza. 17. Lo Spirito e la Sposa dicono: “Vieni!”. Lo Spirito Santo e la speranza cristiana

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Siamo arrivati al termine delle nostre catechesi sullo Spirito Santo e la Chiesa. Dedichiamo quest’ultima riflessione al titolo che abbiamo dato all’intero ciclo, e cioè: “Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il Popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza”. Questo titolo si riferisce a uno degli ultimi versetti della Bibbia, nel Libro dell’Apocalisse, che dice: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”» (Ap 22,17). A chi è rivolta questa invocazione? È rivolta a Cristo risorto. Infatti, sia San Paolo (cfr 1 Cor 16,22), sia la Didaché, uno scritto dei tempi apostolici, attestano che nelle riunioni liturgiche dei primi cristiani risuonava, in aramaico, il grido “Maràna tha!”, che significa appunto “Vieni Signore!”. Una preghiera al Cristo perché venga.

In quella fase più antica l’invocazione aveva uno sfondo che oggi diremmo escatologico. Esprimeva, infatti, l’ardente attesa del ritorno glorioso del Signore. E tale grido e l’attesa che esso esprime non si sono mai spenti nella Chiesa. Ancora oggi, nella Messa, subito dopo la consacrazione, essa proclama la morte e la risurrezione del Cristo “nell’attesa della sua venuta”. La Chiesa è in attesa della venuta del Signore.

Ma questa attesa della venuta ultima di Cristo non è rimasta l’unica e la sola. Ad essa si è unita anche l’attesa della sua venuta continua nella situazione presente e pellegrinante della Chiesa. Ed è a questa venuta che pensa soprattutto la Chiesa, quando, animata dallo Spirito Santo, grida a Gesù: “Vieni!”.

È avvenuto un cambiamento – meglio, uno sviluppo – pieno di significato, a proposito del grido “Vieni!”, “Vieni, Signore!”. Esso non è abitualmente rivolto solo a Cristo, ma anche allo Spirito Santo stesso! Colui che grida è ora anche Colui al quale si grida. “Vieni!” è l’invocazione con cui iniziano quasi tutti gli inni e le preghiere della Chiesa rivolti allo Spirito Santo: «Vieni, o Spirito creatore», diciamo nel Veni Creator, e «Vieni, Spirito Santo», «Veni Sancte Spiritus», nella sequenza di Pentecoste; e così in tante altre preghiere. È giusto che sia così, perché, dopo la Risurrezione, lo Spirito Santo è il vero “alter ego” di Cristo, Colui che ne fa le veci, che lo rende presente e operante nella Chiesa. È Lui che “annuncia le cose future” (cfr Gv 16,13) e le fa desiderare e attendere. Ecco perché Cristo e lo Spirito sono inseparabili, anche nell’economia della salvezza.

Lo Spirito Santo è la sorgente sempre zampillante della speranza cristiana. San Paolo ci ha lasciato queste preziose parole: «Il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo» (Rm 15,13). Se la Chiesa è una barca, lo Spirito Santo è la vela che la spinge e la fa avanzare nel mare della storia, oggi come in passato!

Speranza non è una parola vuota, o un nostro vago desiderio che le cose vadano per il meglio: la speranza è una certezza, perché è fondata sulla fedeltà di Dio alle sue promesse. E per questo si chiama virtù teologale: perché è infusa da Dio e ha Dio per garante. Non è una virtù passiva, che si limita ad attendere che le cose succedano. È una virtù sommamente attiva che aiuta a farle succedere. Qualcuno, che ha lottato per la liberazione dei poveri, ha scritto queste parole: «Lo Spirito Santo è all’origine del grido dei poveri. È la forza data a quelli che non hanno forza. Egli guida la lotta per l’emancipazione e per la piena realizzazione del popolo degli oppressi» [1].

Il cristiano non può accontentarsi di avere speranza; deve anche irradiare speranza, essere seminatore di speranza. È il dono più bello che la Chiesa può fare all’umanità intera, soprattutto nei momenti in cui tutto sembra spingere ad ammainare le vele.

L’apostolo Pietro esortava i primi cristiani con queste parole: «Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi». Ma aggiungeva una raccomandazione: «Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto» (1 Pt 3,15-16). E questo perché non sarà tanto la forza degli argomenti a convincere le persone, quanto l’amore che in essi sapremo mettere. Questa è la prima e più efficace forma di evangelizzazione. Ed è aperta a tutti!

Cari fratelli e sorelle, che lo Spirito ci aiuti sempre, sempre ad “abbondare nella speranza in virtù dello Spirito Santo”!

[1] J. Comblin, Spirito Santo e liberazione, Assisi 1989, 236.

Papa Francesco