I Cappuccini


Cardinale Massaja, una vita di carità

Esempio di sollecitudine pastorale e carica missionaria in patria e in Africa

 

Sandali e bastone sono stati gli strumenti pastorali dell'apostolato missionario del Vescovo cappuccino fra Guglielmo Massaja, nato a Piova' di Asti nel 1809 e morto a Napoli nel 1889 come Cardinale di Santa Romana Chiesa, e ora anche Servo di Dio.

 

Quando ricevette la porpora cardinalizia, cinque anni prima della morte, si sfogò con un suo amico Vescovo così: "La nomina avuta dal Santo Padre è per me l'ultimo tracollo che mi porterà ben presto al sepolcro, e mi costerà forse qualche secolo di purgatorio, se pure con la grazia di Dio e l'intercessione della sua gran Madre Maria, mi riuscirà di salvare il capitale dell'anima mia dal discendere più basso".

 

Due sono le ragioni che mi hanno spinto a farne memoria: la ricorrenza dell'Anno Sacerdotale che ha raggiunto la sua conclusione. Il Massaja è una figura di religioso, di sacerdote, di missionario, di Vescovo, di Cardinale che ha qualcosa da dire anche oggi per la sua sollecitudine pastorale e carica missionaria, per la sua vita ridotta all'essenziale della povertà religiosa, per la sua franchezza nell'esprimere le sue considerazioni e valutazioni personali, proprie di uno che viveva sul campo e sentiva le cose sulla sua pelle circa orientamenti e provvedimenti che riceva da chi di dovere; non taceva mai la verità dinanzi ai Superiori pur nella chiara determinazione di voler "morire mille volte per la fede e l'obbedienza alla Chiesa" e confessava: "Quando veggo qualche cosa, sento il bisogno di versarlo a chi dirige l'opera di Dio".

 

L'altra ragione è che per quattro volte è passato da Genova e vi ha anche sostato, pur se solo per qualche giorno; inoltre ha avuto a che fare con un valoroso e intraprendente sacerdote genovese, apostolo del riscatto delle morette, Don Luigi Sturla. Il Massaja, senza badare alle etichette e alle cose per niente benevole che si dicevano sul conto di questo prete come tipo sospetto per le sue idee, ma guardando alla sostanza, se lo era fatto suo valido e prezioso collaboratore.

 

Nel maggio del 1864 da Roma andò a Marsiglia per la consacrazione di Notre Dame de la Garde!

 

Le poche cose che dico, certamente non tratteggiano in pieno questo grande uomo – ci vorrebbero molte pagine! – ma ritengo e mi auguro che possano stuzzicare la curiosità e invogliare a leggere la sua biografia per farsi un'idea della statura di questo sant'uomo e infaticabile apostolo del Vangelo.

 

Egli addirittura riteneva che la vita religiosa sarebbe risorta con "l'abbandonare i conventi inutili, dove non si ottiene altro che guastare i religiosi", per aprirsi alla gente e servirla sul piano della fede. Lui, in un momento di smarrimento per l'incomprensione, era giunto a scrivere: "Non posso far di più che ammazzarmi (dal lavoro) per la causa delle anime".

"In questa nostra patria educati al fasto e alle delizie, non sappiamo vestire la semplicità e la povertà degli Etiopi, per renderli ricchi".

 

Il genovese Card. Alimonda, Arcivescovo di Torino, incontrando a Frascati il Card. Massaja, già ritornato in Italia, ne rimase ammirato per il suo ancora rigido tenore di vita e la sua estrema povertà anche quando avrebbe potuto concedersi qualche transazione, privilegio e riguardo per la sua condizione e posizione.

 

Ed ora vengo a quello da cui sono partito: il suo corredo pastorale.

I sandali da frate cappuccino, che lui stesso si faceva in missione subito da Vescovo e che ha portato anche da Cardinale, hanno avvolto e protetto i suoi piedi nudi e gli hanno permesso di percorrere migliaia di Km per raggiungere in 6 anni la sede del Vicariato Apostolico dei Galla nell'alta Etiopia.

 

Il bastone che lui stesso si era costruito con un ramo di cedro del Libano dove aveva infilato come manico la radica dell'olivo del Getsemani nella prima tappa del suo interminabile viaggio verso la sua residenza episcopale.

 

Al suo rientro in Italia dopo 35 anni di dura missione, quando si era presentato al Papa Leone XIII, per motivi di protocollo curiale, gli era stato fatto lasciare in anticamera.

Il bastone andava bene nella terra fangosa, nel guado dei fiumi tra animali pericolosi, nelle boscaglie e nelle foreste ma disdiceva nelle stanze vaticane.

Il Papa umanista ma di cuore evangelico, venutolo a sapere, dopo aver ascoltato per più di mezz'ora il Vescovo Massaja ed essersene addirittura "invaghito" per la sua mirabolante e drammatica avventura missionaria, lo congedava proponendogli di volerlo risentire per l'ora del suo passeggio pomeridiano in giardino e gli accordava la facoltà di portare con sé il suo fatidico e famoso bastone.

 

In realtà quel bastone di puro legno, tanto e ancor più prezioso del pastorale di metallo della sua Ordinazione Episcopale solenne, ricevuta ad appena 37 anni di età quale primo Vicario Apostolico dei Galla, nella Chiesa di Carlo al Corso in Roma, è stato il compagno di vita e di viaggio e l'appoggio di tutti gli anni e i giorni del suo incessante peregrinare missionario per portare a tutti e in tutti i luoghi e ambienti la buona notizia del Vangelo, costituire comunità di cristiani e ordinare e lasciarvi dei preti indigeni come pastori.

 

Sandali e bastone sono due segni, umanamente, socialmente ed ecclesiasticamente poveri e dimessi, che caratterizzano la figura austera del Massaja, quale testimone dell'uomo evangelico, la cui dignità non ha sacrificato e condizionato il suo essere tutto a tutti senza volersi distinguere se non per servire di più e far servire tutto quello che era, sapeva, aveva e poteva.

 

Il suo dopo missione lo vedeva come il tempo per prepararsi a morire e a rendere conto del suo operato. Il suo intendimento e proposito era questo: "Io metterò l'abito cappuccino e passerò il resto della mia vita nel più dimenticato convento dell'Ordine, disposto anche a fare la questua".

 

Nelle fotografie è vero che appare anche rivestito degli abiti episcopali e cardinalizi ma nel monumento, si direbbe ufficiale, che lo raffigura, si vede il Card. Massaja precisamente con il saio da frate cappuccino con sopra una semplice croce pettorale, con i sandali ai piedi bene evidenziati e con l'inseparabile bastone di legno liscio in mano.

 

Dando uno sguardo rapidissimo ai suoi primi 10 anni di vita religiosa cappuccina e presbiterale, trascorsi in Piemonte, si poteva dire che il suo destino si sarebbe svolto nel solco dello studio, della cultura teologica e dell'insegnamento filosofico. Ma a 37 anni, improvvisamente come un fulmine a ciel sereno, avviene la grande svolta. Dal Procuratore Generale e in seguito anche Ministro Generale del suo Ordine Cappuccino, già sua guida formativa negli anni dello studentato, fra Guglielmo è chiamato a raggiungere immediatamente Roma da Torino dove prestava servizio di Cappellano presso l'Ospedale Mauriziano. Il morente Papa Gregorio XVI aveva deciso di provvedere direttamente alla prospettata possibilità e richiesta di aprire una missione evangelizzatrice nell'alta Etiopia e ne dava l'incarico al P. Venanzio da Torino perché scegliesse tra i Frati del suo Ordine Cappuccino le persone adatte tra cui uno da ordinare subito Vescovo e spedirlo in missione senza attendere alcun tempo per non perdere il treno dell'occasione di una nuova presenza missionaria della Chiesa Cattolica in ambienti dominati da altre Confessioni e Chiese non cattoliche.

 

Chi meglio del Padre Massaja che, a suo tempo, aveva manifestato la sua disponibilità ad andare missionario ad gentes e si era votato ad essere missionario a vita?

 

La chiamata della Chiesa per lui era e fu la risposta sicura della bontà del suo anelito missionario; dentro di sé la grazia dell'episcopato che avrebbe ricevuto, anche se aveva sentito fortemente la spinta a rinunciarvi, non gli montava la testa e non gli faceva assumere posizioni di superiorità e di distanza; tuttavia le si era arreso per amore di quelle anime di cui aveva sentito essere aperte al dono del Vangelo. Il suo cuore sacerdotale era infiammato e incalzato dalla carità pastorale e si vedeva sospinto dall'esperienza di Abramo: "Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela…verso la terra che io ti indicherò…e ti benedirò… e possa tu essere una benedizione" (Gn 12,1.2).

 

E' partito e non si è più fermato finché le sue forze lo hanno sostenuto. Il suo camminare con sandali e bastone è durato 35 anni con viaggi ora di 500, ora di 300 Km aerei e via discorrendo. Se qualche volta si è fermato, è perché glielo hanno impedito sia persone che volevano la sua morte, sia circostanze ambientali e climatiche che rendevano impraticabili le strade, oppure soprattutto per far conoscere il Vangelo, battezzare, ordinare preti indigeni e vescovi.

 

Durante questa parabola, ha dovuto fare di tutto, pur di aiutare la sua gente: il sarto, il ciabattino, l'infermiere, il chirurgo, il guaritore efficace del vaiolo col vaccino confezionato dalle sue stesse mani (si calcola che abbia vaccinato 40.000 persone!); l'esploratore, lo studioso geografico, l'inventore dell'alfabeto scritto della lingua amarica e il compilatore della relativa grammatica; ha dovuto industriarsi a fare la carta su cui scrivere i suoi appunti dei più svariati generi.

 

Ha dovuto sostenere difficoltà e insidie rocambolesche a ritmo incalzante che avrebbero stroncato chiunque; affrontare pericoli di ogni genere per terra e per acqua, non escluso quello dell'impatto con animali feroci e velenosi; per tanto tempo ha pesato su di lui la scomunica e la condanna a morte da parte dell'abuna Salama II, un vescovo copto che voleva eliminare ogni seme e presenza della religione e Chiesa cattolica. Per dare compimento a questo malsano progetto omicida, lo stessa abuna Salama aveva indetto e stava conducendo nel suo territorio una crociata con il supporto di una taglia per poter catturare il Vescovo cappuccino cattolico e eliminarlo; questo Vescovo, nonostante tutte queste trappole e angherie, non si è lasciato prendere dalla paura e non si è dato per vinto, ma ha sostenuto un girovagare martoriante per sfuggire a ripetuti complotti mortali. Pur essendo Vescovo, ha dovuto anche nascondersi sotto un cognome diverso e una identità solo civile: farsi passare per il dottor Giorgio Bartorelli (nome del padrino di Battesimo e cognome modificato della mamma).

 

Il suo episcopio, per ben quasi sei anni prima di arrivare alla sua destinazione residenziale, spesso e volentieri è stato ora una tenda, ora una capanna, ora una grotta, ora una stamberga, ora la terra battuta.

 

Anche la Ordinazione episcopale di colui che oggi è S. Giustino De Jacobis, "un religioso lazzarista di sconfinata umiltà e già in vita in fama di santità presso le varie popolazioni", avvenne di notte in un ambiente di quattro metri per tre su un altare fatto di tre casse messe una sopra l'altra.

 

Al Massaja si deve praticamente anche la fondazione della Città di Addis Abeba, partendo dall'insediamento di una colonia agricola che in breve tempo ebbe una celerissima espansione e bellezza, tanto da essere chiamata "Nuovo Fiore" ossia Addis Abeba appunto!

 

Nei suoi 35 anni non sono mancate laceranti sofferenze morali: l'abbandono, l'isolamento, la dimenticanza, il silenzio, la bocciatura di sussidi pastorali elaborati da lui stesso, l'incomprensione dei suoi criteri missionari, ma neppure il suo tenace e schietto amore alla Chiesa nonostante tutto.

 

Si potrebbe dire che ha vissuto il martirio della carità pastorale nell'esercizio del dono della fortezza, "un martirio non di sangue, come scrisse all'allora Mons. Comboni, ora San Daniele, ma di cuore e di tribolazione,… di paziente fatica".

 

La memoria di tutte queste peripezie, per desiderio felice, provvidenziale e forte del Papa Leone XIII, fu consegnata a circa 4.000 pagine e inizialmente pubblicate in 12 volumi.

 

Il Papa aveva intuito che "l'avventura così colossale" del Massaja non doveva e non poteva restare ignota e raccontata solo verbalmente; per questo gli aveva  assegnato un'abitazione a Frascati dove, mentre si riposava e si curava, poteva e doveva attendere alla stesura, fino a scrivere anche per 15 ore al giorno, dei suoi famosi, emblematici e quasi leggendari: "I miei 35 anni di missione".

 

Il compimento della lunga parabola esistenziale e missionaria del Massaja avviene all'insegna di questo suo pensiero: "Ormai non penso più che a un cosa sola: a stare nella grazia di Dio, per il giorno della chiamata" che lo raggiunge a Napoli dove si era recato perché l'aria che vi respirava gli sembrava che lo ringiovanisse nella mente e nelle forze. Così "La cara morte era venuta a metter fine a tutti i bisogni, eccetto quello di amare Dio".

 

La Chiesa può dirsi fiera e contenta di aver generato e formato un cristiano, un religioso prete, vescovo e cardinale, un missionario, un servo di Dio come il cappuccino fra Guglielmo Massaja.

 

Oliveri Mons. Guido



 

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Messaggio Cristiano
Udienza Generale - Piazza San Pietro Mercoledì, 10 Settembre 2025

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. III. La Pasqua di Gesù. 6. La morte. «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37)

Cari fratelli e sorelle,
buongiorno e grazie per la vostra presenza, una bella testimonianza!

Oggi contempliamo il vertice della vita di Gesù in questo mondo: la sua morte in croce. I Vangeli attestano un particolare molto prezioso, che merita di essere contemplato con l’intelligenza della fede. Sulla croce, Gesù non muore in silenzio. Non si spegne lentamente, come una luce che si consuma, ma lascia la vita con un grido: «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37). Quel grido racchiude tutto: dolore, abbandono, fede, offerta. Non è solo la voce di un corpo che cede, ma il segno ultimo di una vita che si consegna.

Il grido di Gesù è preceduto da una domanda, una delle più laceranti che possano essere pronunciate: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È il primo verso del Salmo 22, ma sulle labbra di Gesù assume un peso unico. Il Figlio, che ha sempre vissuto in intima comunione con il Padre, sperimenta ora il silenzio, l’assenza, l’abisso. Non si tratta di una crisi di fede, ma dell’ultima tappa di un amore che si dona fino in fondo. Il grido di Gesù non è disperazione, ma sincerità, verità portata al limite, fiducia che resiste anche quando tutto tace.

In quel momento, il cielo si oscura e il velo del tempio si squarcia (cfr Mc 15,33.38). È come se il creato stesso partecipasse a quel dolore, e insieme rivelasse qualcosa di nuovo: Dio non abita più dietro un velo, il suo volto è ora pienamente visibile nel Crocifisso. È lì, in quell’uomo straziato, che si manifesta l’amore più grande. È lì che possiamo riconoscere un Dio che non resta distante, ma attraversa fino in fondo il nostro dolore.

Il centurione, un pagano, lo capisce. Non perché ha ascoltato un discorso, ma perché ha visto morire Gesù in quel modo: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). È la prima professione di fede dopo la morte di Gesù. È il frutto di un grido che non si è disperso nel vento, ma ha toccato un cuore. A volte, ciò che non riusciamo a dire a parole lo esprimiamo con la voce. Quando il cuore è pieno, grida. E questo non è sempre un segno di debolezza, può essere un atto profondo di umanità.

Noi siamo abituati a pensare al grido come a qualcosa di scomposto, da reprimere. Il Vangelo conferisce al nostro grido un valore immenso, ricordandoci che può essere invocazione, protesta, desiderio, consegna. Addirittura, può essere la forma estrema della preghiera, quando non ci restano più parole. In quel grido, Gesù ha messo tutto ciò che gli restava: tutto il suo amore, tutta la sua speranza.

Sì, perché anche questo c’è, nel gridare: una speranza che non si rassegna. Si grida quando si crede che qualcuno possa ancora ascoltare. Si grida non per disperazione, ma per desiderio. Gesù non ha gridato contro il Padre, ma verso di Lui. Anche nel silenzio, era convinto che il Padre era lì. E così ci ha mostrato che la nostra speranza può gridare, persino quando tutto sembra perduto.

Gridare diventa allora un gesto spirituale. Non è solo il primo atto della nostra nascita – quando veniamo al mondo piangendo –: è anche un modo per restare vivi. Si grida quando si soffre, ma pure quando si ama, si chiama, si invoca. Gridare è dire che ci siamo, che non vogliamo spegnerci nel silenzio, che abbiamo ancora qualcosa da offrire.

Nel viaggio della vita, ci sono momenti in cui trattenere tutto dentro può consumarci lentamente. Gesù ci insegna a non avere paura del grido, purché sia sincero, umile, orientato al Padre. Un grido non è mai inutile, se nasce dall’amore. E non è mai ignorato, se è consegnato a Dio. È una via per non cedere al cinismo, per continuare a credere che un altro mondo è possibile.

Cari fratelli e sorelle, impariamo anche questo dal Signore Gesù: impariamo il grido della speranza quando giunge l’ora della prova estrema. Non per ferire, ma per affidarci. Non per urlare contro qualcuno, ma per aprire il cuore. Se il nostro grido sarà vero, potrà essere la soglia di una nuova luce, di una nuova nascita. Come per Gesù: quando tutto sembrava finito, in realtà la salvezza stava per iniziare. Se manifestata con la fiducia e la libertà dei figli di Dio, la voce sofferta della nostra umanità, unita alla voce di Cristo, può diventare sorgente di speranza per noi e per chi ci sta accanto.

LEONE XIV