Sabato 20 Aprile 2024
Contempliamo qui le meraviglie del creato
Amore al fratello!ContattiLa Parola di DioBlog
Le parole del Papa


VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO a MARSIGLIA

per la conclusione dei "Rencontres Méditerranéennes" [22 - 23 SETTEMBRE 2023]

 

SESSIONE CONCLUSIVA DEI “RENCONTRES MÉDITERRANÉENNES”

 DISCORSO DEL SANTO PADRE

“Palais du Pharo” (Marsiglia)
Sabato, 23 settembre 2023

[Multimedia]

 

Signor Presidente della Repubblica,
cari fratelli Vescovi,
illustri Sindaci e Autorità che rappresentate città e territori bagnati dal Mar Mediterraneo,
amiche e amici tutti!

 

Vi saluto cordialmente, grato a ciascuno di voi per aver accolto l’invito del Cardinal Aveline a partecipare a questi incontri. Grazie per il vostro lavoro e per le preziose riflessioni che avete condiviso. Dopo Bari e Firenze, il cammino al servizio dei popoli mediterranei progredisce: anche qui, responsabili ecclesiastici e civili sono insieme non per trattare reciproci interessi, ma animati dal desiderio di prendersi cura dell’uomo; grazie perché lo fate con i giovani, presente e futuro della Chiesa e della società.

 

La città di Marsiglia è molto antica. Fondata da navigatori greci venuti dall’Asia Minore, il mito la fa risalire alla storia d’amore tra un marinaio emigrato e una principessa nativa. Fin dalle origini essa presenta un carattere composito e cosmopolita: accoglie le ricchezze del mare e dona una patria a chi non l’ha più. Marsiglia ci dice che, nonostante le difficoltà, la convivialità è possibile ed è fonte di gioia. Sulla carta geografica, tra Nizza e Montpellier, sembra quasi disegnare un sorriso; e mi piace pensarla così: Marsiglia è “il sorriso del Mediterraneo”. Vorrei dunque proporvi alcuni pensieri attorno a tre realtà che caratterizzano Marsiglia: il mare, il porto e il faro. Sono tre simboli.

 

1. Il mare. Una marea di popoli ha fatto di questa città un mosaico di speranza, con la sua grande tradizione multietnica e multiculturale, rappresentata dai più di 60 Consolati presenti sul suo territorio. Marsiglia è città al tempo stesso plurale e singolare, in quanto è la sua pluralità, frutto di incontro con il mondo, a renderne singolare la storia. Spesso oggi si sente ripetere che la storia mediterranea sarebbe un intreccio di conflitti tra civiltà, religioni e visioni differenti. Non ignoriamo i problemi – ce ne sono! –, ma non lasciamoci ingannare: gli scambi intercorsi tra i popoli hanno reso il Mediterraneo culla di civiltà, mare straripante di tesori, al punto che, come scrisse un grande storico francese, esso non è «un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma una successione di mari»; «da millenni tutto vi confluisce, complicandone e arricchendone la storia» (F. Braudel, La Méditerranée, Paris 1985, 16). Il mare nostrum è spazio di incontro: tra le religioni abramitiche; tra il pensiero greco, latino e arabo; tra la scienza, la filosofia e il diritto, e tra molte altre realtà. Ha veicolato nel mondo l’alto valore dell’essere umano, dotato di libertà, aperto alla verità e bisognoso di salvezza, che vede il mondo come una meraviglia da scoprire e un giardino da abitare, nel segno di un Dio che stringe alleanze con gli uomini.

 

Un grande sindaco leggeva nel Mediterraneo non una questione conflittuale, ma una risposta di pace, anzi «l’inizio e il fondamento della pace fra tutte le nazioni del mondo» (G. La Pira, Parole a conclusione del primo Colloquio Mediterraneo, 6 ottobre 1958). Disse infatti: «La risposta […] è possibile se si considera la comune vocazione storica e per così dire permanente che la Provvidenza ha assegnato nel passato, assegna nel presente e, in un certo senso, assegnerà nell’avvenire ai popoli e alle nazioni che vivono sulle rive di questo misterioso lago di Tiberiade allargato che è il Mediterraneo» (Discorso di apertura del I Colloquio Mediterraneo, 3 ottobre 1958). Lago di Tiberiade, ovvero Mare di Galilea, un luogo cioè nel quale, ai tempi di Cristo, si concentrava una grande varietà di popolazioni, culti e tradizioni. Proprio lì, nella «Galilea delle genti» (cfr Mt 4,15) attraversata dalla Via del mare, si svolse la maggior parte della vita pubblica di Gesù. Un contesto multiforme e per molti versi instabile fu la sede dell’annuncio universale delle Beatitudini, nel nome di un Dio Padre di tutti, che «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45). Era anche l’invito ad allargare le frontiere del cuore, superando barriere etniche e culturali. Ecco allora la risposta che viene dal Mediterraneo: questo perenne mare di Galilea invita a opporre alla divisività dei conflitti la «convivialità delle differenze» (T. Bello, Benedette inquietudini, Milano 2001, 73). Il mare nostrum, al crocevia tra Nord e Sud, tra Est e Ovest, concentra le sfide del mondo intero, come testimoniano le sue “cinque rive”, su cui avete riflettuto: Nord Africa, vicino Oriente, Mar Nero-Egeo, Balcani ed Europa latina. È avamposto di sfide che riguardano tutti: pensiamo a quella climatica, con il Mediterraneo che rappresenta un hotspot dove i cambiamenti si avvertono più rapidamente; quanto è importante custodire la macchia mediterranea, scrigno di biodiversità! Insomma, questo mare, ambiente che offre un approccio unico alla complessità, è “specchio del mondo” e porta in sé una vocazione globale alla fraternità, vocazione unica e unica via per prevenire e superare le conflittualità.

 

Fratelli e sorelle, nell’odierno mare dei conflitti, siamo qui per valorizzare il contributo del Mediterraneo, perché torni a essere laboratorio di pace. Perché questa è la vocazione, essere luogo dove Paesi e realtà diverse si incontrino sulla base dell’umanità che tutti condividiamo, non delle ideologie che contrappongono. Sì, il Mediterraneo esprime un pensiero non uniforme e ideologico, ma poliedrico e aderente alla realtà; un pensiero vitale, aperto e conciliante: un pensiero comunitario, questa è la parola. Quanto ne abbiamo bisogno nel frangente attuale, dove nazionalismi antiquati e belligeranti vogliono far tramontare il sogno della comunità delle nazioni! Ma – ricordiamolo – con le armi si fa la guerra, non la pace, e con l’avidità di potere sempre si torna al passato, non si costruisce il futuro.

 

Da dove dunque iniziare per radicare la pace? Sulle rive del Mare di Galilea Gesù cominciò col dare speranza ai poveri, proclamandoli beati: ne ascoltò i bisogni, ne sanò le ferite, proclamò anzitutto a loro il buon annuncio del Regno. Da lì occorre ripartire, dal grido spesso silenzioso degli ultimi, non dai primi della classe che, pur stando bene, alzano la voce. Ripartiamo, Chiesa e comunità civile, dall’ascolto dei poveri, che «si abbracciano, non si contano» (P. Mazzolari, La parola ai poveri, Bologna 2016, 39), perché sono volti, non numeri. Il cambio di passo delle nostre comunità sta nel trattarli come fratelli di cui conoscere le storie, non come problemi fastidiosi, cacciandoli via, mandandoli a casa; sta nell’accoglierli, non nel nasconderli; nell’integrarli, non nello sgomberarli; nel dar loro dignità. E Marsiglia, voglio ripeterlo, è la capitale dell’integrazione dei popoli. Questo è un orgoglio vostro! Oggi il mare della convivenza umana è inquinato dalla precarietà, che ferisce pure la splendida Marsiglia. E dove c’è precarietà c’è criminalità: dove c’è povertà materiale, educativa, lavorativa, culturale e religiosa, il terreno delle mafie e dei traffici illeciti è spianato. L’impegno delle sole istituzioni non basta, serve un sussulto di coscienza per dire “no” all’illegalità e “sì” alla solidarietà, che non è una goccia nel mare, ma l’elemento indispensabile per purificarne le acque.

 

In effetti, il vero male sociale non è tanto la crescita dei problemi, ma la decrescita della cura. Chi oggi si fa prossimo dei giovani lasciati a sé stessi, facili prede della criminalità e della prostituzione? Chi se ne prende carico? Chi è vicino alle persone schiavizzate da un lavoro che dovrebbe renderle più libere? Chi si prende cura delle famiglie impaurite, timorose del futuro e di mettere al mondo nuove creature? Chi presta ascolto al gemito degli anziani soli che, anziché esser valorizzati, vengono parcheggiati, con la prospettiva falsamente dignitosa di una morte dolce, in realtà più salata delle acque del mare? Chi pensa ai bambini non nati, rifiutati in nome di un falso diritto al progresso, che è invece regresso nei bisogni dell’individuo? Oggi abbiamo il dramma di confondere i bambini con i cagnolini. Il mio segretario mi diceva che, passando per Piazza San Pietro, aveva visto qualche donna che portava i bambini nella carrozzina… ma non erano bambini, erano cagnolini! Questa confusione ci dice qualcosa di brutto. Chi guarda con compassione oltre la propria riva per ascoltare le grida di dolore che si levano dal Nord Africa e dal Medio Oriente? Quanta gente vive immersa nelle violenze e patisce situazioni di ingiustizia e di persecuzione! E penso a tanti cristiani, spesso costretti a lasciare le loro terre oppure ad abitarle senza veder riconosciuti i loro diritti, senza godere di piena cittadinanza. Per favore, impegniamoci perché quanti fanno parte della società possano diventarne cittadini a pieno diritto. E poi c’è un grido di dolore che più di tutti risuona, e che sta tramutando il mare nostrum in mare mortuum, il Mediterraneo da culla della civiltà a tomba della dignità. È il grido soffocato dei fratelli e delle sorelle migranti, a cui vorrei dedicare attenzione riflettendo sulla seconda immagine che ci offre Marsiglia, quella del suo porto.

 

2. Il porto di Marsiglia è da secoli una porta spalancata sul mare, sulla Francia e sull’Europa. Da qui molti sono partiti per trovare lavoro e futuro all’estero, e da qui tanti hanno varcato la porta del continente con bagagli carichi di speranza. Marsiglia ha un grande porto ed è una grande porta, che non può essere chiusa. Vari porti mediterranei, invece, si sono chiusi. E due parole sono risuonate, alimentando le paure della gente: “invasione” ed “emergenza”. E si chiudono i porti. Ma chi rischia la vita in mare non invade, cerca accoglienza, cerca vita. Quanto all’emergenza, il fenomeno migratorio non è tanto un’urgenza momentanea, sempre buona per far divampare propagande allarmiste, ma un dato di fatto dei nostri tempi, un processo che coinvolge attorno al Mediterraneo tre continenti e che va governato con sapiente lungimiranza: con una responsabilità europea in grado di fronteggiare le obiettive difficoltà. Sto guardando, qui, in questa mappa, i porti privilegiati per i migranti: Cipro, la Grecia, Malta, Italia e Spagna… Sono affacciati sul Mediterraneo e ricevono i migranti. Il mare nostrum grida giustizia, con le sue sponde che da un lato trasudano opulenza, consumismo e spreco, mentre dall’altro vi sono povertà e precarietà. Anche qui il Mediterraneo rispecchia il mondo, con il Sud che si volge al Nord, con tanti Paesi in via di sviluppo, afflitti da instabilità, regimi, guerre e desertificazione, che guardano a quelli benestanti, in un mondo globalizzato nel quale tutti siamo connessi ma i divari non sono mai stati così profondi. Eppure, questa situazione non è una novità degli ultimi anni, e non è questo Papa venuto dall’altra parte del mondo il primo ad avvertirla con urgenza e preoccupazione. La Chiesa ne parla con toni accorati da più di cinquant’anni.

 

Si era da poco concluso il Concilio Vaticano II e San Paolo VI, nell’Enciclica Populorum progressio, scrisse: «I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La chiesa trasale davanti a questo grido d’angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello» (n. 3). Papa Montini enumerò “tre doveri” delle nazioni più sviluppate, «radicati nella fraternità umana e soprannaturale»: «dovere di solidarietà, cioè l’aiuto che le nazioni ricche devono prestare ai Paesi in via di sviluppo; dovere di giustizia sociale, cioè il ricomponimento in termini più corretti delle relazioni commerciali difettose tra popoli forti e popoli deboli; dovere di carità universale, cioè la promozione di un mondo più umano per tutti, un mondo nel quale tutti abbiano qualcosa da dare e da ricevere, senza che il progresso degli uni costituisca un ostacolo allo sviluppo degli altri» (n. 44). Alla luce del Vangelo e di queste considerazioni, Paolo VI, nel 1967, sottolineò il «dovere dell’accoglienza», sul quale, scrisse, «non insisteremo mai abbastanza» (n. 67). A questo, quindici anni prima, aveva incoraggiato Pio XII, scrivendo che «la Famiglia di Nazaret in esilio, Gesù, Maria e Giuseppe emigranti in Egitto […] sono il modello, l’esempio ed il sostegno di tutti gli emigranti e pellegrini di ogni età e di ogni paese, di tutti i profughi di qualsiasi condizione che, incalzati dalla persecuzione o dal bisogno, si vedono costretti ad abbandonare la patria, i cari parenti, […] e a recarsi in terra straniera» (Cost. Ap. Exsul Familia de spirituali emigrantium cura, 1° agosto 1952).

 

Certo, sono sotto gli occhi di tutti le difficoltà nell’accogliere. I migranti vanno accoltiprotetti o accompagnati, promossi e integrati. Se non si arriva fino alla fine, il migrante finisce nell’orbita della società. Accolto, accompagnato, promosso e integrato: questo è lo stile. È vero che non è facile avere questo stile o integrare persone non attese, però il criterio principale non può essere il mantenimento del proprio benessere, bensì la salvaguardia della dignità umana. Coloro che si rifugiano da noi non vanno visti come un peso da portare: se li consideriamo fratelli, ci appariranno soprattutto come doni. Domani si celebrerà la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato. Lasciamoci toccare dalla storia di tanti nostri fratelli e sorelle in difficoltà, che hanno il diritto sia di emigrare sia di non emigrare, e non chiudiamoci nell’indifferenza. La storia ci interpella a un sussulto di coscienza per prevenire il naufragio di civiltà. Il futuro, infatti, non sarà nella chiusura, che è un ritorno al passato, un’inversione di marcia nel cammino della storia. Contro la terribile piaga dello sfruttamento di esseri umani, la soluzione non è respingere, ma assicurare, secondo le possibilità di ciascuno, un ampio numero di ingressi legali e regolari, sostenibili grazie a un’accoglienza equa da parte del continente europeo, nel contesto di una collaborazione con i Paesi d’origine. Dire “basta”, invece, è chiudere gli occhi; tentare ora di “salvare sé stessi” si tramuterà in tragedia domani, quando le future generazioni ci ringrazieranno se avremo saputo creare le condizioni per un’imprescindibile integrazione, mentre ci incolperanno se avremo favorito soltanto sterili assimilazioni. L’integrazione, anche dei migranti, è faticosa, ma lungimirante: prepara il futuro che, volenti o nolenti, sarà insieme o non sarà; l’assimilazione, che non tiene conto delle differenze e resta rigida nei propri paradigmi, fa invece prevalere l’idea sulla realtà e compromette l’avvenire, aumentando le distanze e provocando la ghettizzazione, che fa divampare ostilità e insofferenze. Abbiamo bisogno di fraternità come del pane. La stessa parola “fratello”, nella sua derivazione indoeuropea, rivela una radice legata alla nutrizione e al sostentamento. Sosterremo noi stessi solo nutrendo di speranza i più deboli, accogliendoli come fratelli. «Non dimenticate l’ospitalità» (Eb 13,2), ci dice la Scrittura. E nell’Antico Testamento si ripete: la vedova, l’orfano e lo straniero. I tre doveri della carità: assistere la vedova, assistere l’orfano e assistere lo straniero, il migrante.

 

A tale proposito, il porto di Marsiglia è anche una “porta di fede”. Secondo la tradizione, qui approdarono i Santi Marta, Maria e Lazzaro, che seminarono il Vangelo in queste terre. La fede viene dal mare, come rievoca la suggestiva tradizione marsigliese della Candelora con la processione marittima. Lazzaro, nel Vangelo, è l’amico di Gesù, ma è anche il nome del protagonista di una sua parabola attualissima, la quale apre gli occhi sulla disuguaglianza che corrode la fraternità e ci parla della predilezione del Signore per i poveri. Ebbene, noi cristiani, che crediamo nel Dio fatto uomo, nell’unico e inimitabile Uomo che sulle rive del Mediterraneo si è detto via, verità e vita (cfr Gv 14,6), non possiamo accettare che le vie dell’incontro siano chiuse. Non chiudiamo le vie dell’incontro, per favore! Non possiamo accettare che la verità del dio denaro prevalga sulla dignità dell’uomo, che la vita si tramuti in morte! La Chiesa, confessando che Dio in Gesù Cristo «si è unito in certo modo ad ogni uomo» (Gaudium et spes, 22), crede, con San Giovanni Paolo II, che la sua via è l’uomo (cfr Lett. enc. Redemptor hominis, 14). Adora Dio e serve i più fragili, che sono i suoi tesori. Adorare Dio e servire il prossimo, ecco cosa conta: non la rilevanza sociale o la consistenza numerica, ma la fedeltà al Signore e all’uomo!

 

Questa è la testimonianza cristiana, e tante volte è pure eroica; penso ad esempio a San Charles de Foucauld, “fratello universale”, ai martiri dell’Algeria, ma anche a tanti operatori di carità di oggi. In questo stile di vita scandalosamente evangelico, la Chiesa ritrova il porto sicuro a cui attraccare e da cui ripartire per intessere legami con la gente di ogni popolo, ricercando ovunque le tracce dello Spirito e offrendo quanto per grazia ha ricevuto. Ecco la realtà più pura della Chiesa, ecco – scrisse Bernanos – «la Chiesa dei santi», aggiungendo che «tutto questo grande apparato di saggezza, di forza, di disciplina elastica, di magnificenza e di maestà, non è nulla di per sé, se la carità non lo anima» (Jeanne relapse et sainte, Paris 1994, 74). Mi piace esaltare questa perspicacia francese, genio credente e creativo, che ha affermato tali verità attraverso una moltitudine di gesti e scritti. San Cesareo di Arles diceva: «Se hai la carità, hai Dio; e se hai Dio, che cosa ti manca?» (Sermo 22,2). Pascal riconosceva che «l’unico oggetto della Scrittura è la carità» (Pensieri, n. 301) e che «la verità fuori della carità non è Dio, ma è la sua immagine e un idolo che non bisogna amare, né adorare» (Pensieri, n. 767). E San Giovanni Cassiano, che qui morì, scrisse che «tutto, anche ciò che si stima utile e necessario, val meno di quel bene che è la pace e la carità» (Conferenze spirituali XVI,6).

 

È bello dunque che i cristiani non siano secondi a nessuno nella carità; e che il Vangelo della carità sia la magna charta della pastorale. Non siamo chiamati a rimpiangere i tempi passati o a ridefinire una rilevanza ecclesiale, siamo chiamati alla testimonianza: non a ricamare il Vangelo di parole, ma a dargli carne; non a misurare la visibilità, ma a spenderci nella gratuità, credendo che «la misura di Gesù è l’amore senza misura» (Omelia, 23 febbraio 2020). San Paolo, l’Apostolo delle genti che trascorse buona parte della vita sulle rotte mediterranee, da un porto all’altro, insegnava che per adempiere la legge di Cristo occorre portare gli uni i pesi degli altri (cfr Gal 6,2). Cari fratelli Vescovi, non carichiamo di pesi le persone, ma alleviamo le loro fatiche in nome del Vangelo della misericordia, per distribuire con gioia il sollievo di Gesù a un’umanità stanca e ferita. La Chiesa non sia un insieme di prescrizioni, la Chiesa sia porto di speranza per gli sfiduciati. Allargate il cuore, per favore! La Chiesa sia porto di ristoro, dove le persone si sentano incoraggiate a prendere il largo nella vita con la forza impareggiabile della gioia di Cristo. La Chiesa non sia dogana. Ricordiamo il Signore: tutti, tutti, tutti sono invitati.

 

3. E vengo brevemente così all’ultima immagine, quella del faro. Esso illumina il mare e fa vedere il porto. Quali scie luminose possono orientare la rotta delle Chiese nel Mediterraneo? Pensando al mare, che unisce tante comunità credenti diverse, credo si possa riflettere su percorsi più sinergici, forse valutando anche l’opportunità di una Conferenza ecclesiale del Mediterraneo, come ha detto il Cardinale [Aveline]. che permetta ulteriori possibilità di scambio e dia maggiore rappresentatività ecclesiale alla regione. Anche pensando al porto e al tema migratorio, potrebbe essere proficuo lavorare per una pastorale specifica ancora più collegata, così che le Diocesi più esposte possano assicurare migliore assistenza spirituale e umana alle sorelle e ai fratelli che giungono bisognosi.

 

Il faro, in questo prestigioso palazzo che ne porta il nome, mi fa infine pensare soprattutto ai giovani: sono loro la luce che indica la rotta futura. Marsiglia è una grande città universitaria, sede di quattro campus; dei circa 35.000 studenti che li frequentano, 5.000 sono stranieri. Da dove cominciare a tessere i rapporti tra le culture, se non dall’università? Lì i giovani non sono ammaliati dalle seduzioni del potere, ma dal sogno di costruire l’avvenire. Le università mediterranee siano laboratori di sogni e cantieri di futuro, dove i giovani maturino incontrandosi, conoscendosi e scoprendo culture e contesti vicini e diversi al tempo stesso. Così si abbattono i pregiudizi, si sanano le ferite e si scongiurano retoriche fondamentaliste. State attenti alla predica di tanti fondamentalismi che oggi sono alla moda! Giovani ben formati e orientati a fraternizzare potranno aprire porte insperate di dialogo. Se vogliamo che si dedichino al Vangelo e all’alto servizio della politica, occorre prima di tutto che noi siamo credibili: dimentichi di noi stessi, liberi da autoreferenzialità, dediti a spenderci senza sosta per gli altri. Ma la sfida prioritaria dell’educazione riguarda ogni età formativa: già da bambini, “mischiandosi” con gli altri, si possono superare tante barriere e preconcetti, sviluppando la propria identità nel contesto di un mutuo arricchimento. A ciò può ben contribuire la Chiesa, mettendo al servizio le sue reti formative e animando una “creatività della fraternità”.

 

Fratelli e sorelle, la sfida è anche quella di una teologia mediterranea – la teologia dev’essere radicata nella vita; una teologia da laboratorio non funziona –, che sviluppi un pensiero aderente al reale, “casa” dell’umano e non solo del dato tecnico, in grado di unire le generazioni legando memoria e futuro, e di promuovere con originalità il cammino ecumenico tra i cristiani e il dialogo tra credenti di religioni diverse. È bello avventurarsi in una ricerca filosofica e teologica che, attingendo alle fonti culturali mediterranee, restituisca speranza all’uomo, mistero di libertà bisognoso di Dio e dell’altro per dare senso alla propria esistenza. Ed è necessario pure riflettere sul mistero di Dio, che nessuno può pretendere di possedere o padroneggiare, e che anzi va sottratto ad ogni utilizzo violento e strumentale, consci che la confessione della sua grandezza presuppone in noi l’umiltà dei cercatori.

 

Cari fratelli e sorelle, sono contento di essere qui a Marsiglia! Una volta il Signor Presidente mi ha invitato a visitare la Francia e mi ha detto così: “Ma è importante che venga a Marsiglia!”. E l’ho fatto. Vi ringrazio per il vostro paziente ascolto e per il vostro impegno. Andate avanti, coraggiosi! Siate mare di bene, per far fronte alle povertà di oggi con una sinergia solidale; siate porto accogliente, per abbracciare chi cerca un futuro migliore; siate faro di pace, per fendere, attraverso la cultura dell’incontro, gli abissi tenebrosi della violenza e della guerra. Grazie tante!



 

Versione senza grafica
Versione PDF


<<<  Torna alla pagina precedente

Home - Cerca  
Messaggio Cristiano
Udienza Generale, 17 Aprile 2024

Catechesi. I vizi e le virtù. 15. La temperanza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi parlerò della quarta e ultima virtù cardinale: la temperanza. Con le altre tre, questa virtù condivide una storia che risale molto indietro nel tempo e che non appartiene ai soli cristiani. Per i greci la pratica delle virtù aveva come obbiettivo la felicità. Il filosofo Aristotele scrive il suo più importante trattato di etica indirizzandolo al figlio Nicomaco, per istruirlo nell’arte del vivere. Perché tutti cerchiamo la felicità eppure così pochi la raggiungono? Questa è la domanda. Per rispondere ad essa Aristotele affronta il tema delle virtù, tra le quali ha uno spazio di rilievo la enkráteia, cioè la temperanza. Il termine greco significa letteralmente “potere su sé stessi”. La temperanza è un potere su sé stessi. Questa virtù è dunque la capacità di autodominio, l’arte di non farsi travolgere da passioni ribelli, di mettere ordine in quello che il Manzoni chiama il “guazzabuglio del cuore umano”.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci dice che «la temperanza è la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati». «Essa – prosegue il Catechismo – assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore» (n. 1809).

Dunque, la temperanza, come dice la parola italiana, è la virtù della giusta misura. In ogni situazione, si comporta con saggezza, perché le persone che agiscono mosse sempre dall’impeto o dall’esuberanza alla fine sono inaffidabili. Le persone senza temperanza sono sempre inaffidabili. In un mondo dove tanta gente si vanta di dire quello che pensa, la persona temperante preferisce invece pensare quello che dice. Capite la differenza? Non dire quello che mi viene in mente, così… No, pensare a quello che devo dire. Non fa promesse a vanvera, ma assume impegni nella misura in cui li può soddisfare.

Anche con i piaceri, la persona temperante agisce con giudizio. Il libero corso delle pulsioni e la totale licenza accordata ai piaceri, finiscono per ritorcersi contro noi stessi, facendoci precipitare in uno stato di noia. Quanta gente che ha voluto provare tutto con voracità si è ritrovata a perdere il gusto di ogni cosa! Meglio allora cercare la giusta misura: ad esempio, per apprezzare un buon vino, assaporarlo a piccoli sorsi è meglio che ingurgitarlo tutto d’un fiato. Tutti sappiamo questo.

La persona temperante sa pesare e dosare bene le parole. Pensa a quello che dice. Non permette che un momento di rabbia rovini relazioni e amicizie che poi solo con fatica potranno essere ricostruite. Specialmente nella vita famigliare, dove le inibizioni si abbassano, tutti corriamo il rischio di non tenere a freno tensioni, irritazioni, arrabbiature. C’è un tempo per parlare e un tempo per tacere, ma entrambi richiedono la giusta misura. E questo vale per tante cose, ad esempio lo stare con gli altri e lo stare da soli.

Se la persona temperante sa controllare la propria irascibilità, non per questo la vedremo perennemente con il volto pacifico e sorridente. Infatti, qualche volta è necessario indignarsi, ma sempre nella giusta maniera. Queste sono le parole: la giusta misura, la giusta maniera. Una parola di rimprovero a volte è più salutare rispetto a un silenzio acido e rancoroso. Il temperante sa che nulla è più scomodo del correggere un altro, ma sa anche che è necessario: altrimenti si offrirebbe libero campo al male. In certi casi, il temperante riesce a tenere insieme gli estremi: afferma i principi assoluti, rivendica i valori non negoziabili, ma sa anche comprendere le persone e dimostra empatia per esse. Dimostra empatia.

Il dono del temperante è dunque l’equilibrio, qualità tanto preziosa quanto rara. Tutto, infatti, nel nostro mondo spinge all’eccesso. Invece la temperanza si sposa bene con atteggiamenti evangelici quali la piccolezza, la discrezione, il nascondimento, la mitezza. Chi è temperante apprezza la stima degli altri, ma non ne fa l’unico criterio di ogni azione e di ogni parola. È sensibile, sa piangere e non se ne vergogna, ma non si piange addosso. Sconfitto, si rialza; vincitore, è capace di tornare alla vita nascosta di sempre. Non cerca gli applausi, ma sa di avere bisogno degli altri.

Fratelli e sorelle, non è vero che la temperanza rende grigi e privi di gioie. Anzi, fa gustare meglio i beni della vita: lo stare insieme a tavola, la tenerezza di certe amicizie, la confidenza con le persone sagge, lo stupore per le bellezze del creato. La felicità con la temperanza è letizia che fiorisce nel cuore di chi riconosce e dà valore a ciò che più conta nella vita. Preghiamo il Signore perché ci dia questo dono: il dono della maturità, della maturità dell’età, della maturità affettiva, della maturità sociale. Il dono della temperanza.

Papa Francesco