Martedì 22 Ottobre 2024
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Le parole del Papa


VIAGGIO DEL SANTO PADRE a CIPRO

"GSP Stadium" a Nicosia, 3 dicembre 2021

Due ciechi, mentre Gesù passa, gli gridano la loro miseria e la loro speranza: «Figlio di Davide, abbi pietà di noi!» (Mt 9,27). “Figlio di Davide” era un titolo attribuito al Messia, che le profezie annunciavano della stirpe di Davide. I due protagonisti del Vangelo odierno, dunque, sono ciechi, eppure vedono ciò che più conta: riconoscono Gesù come Messia venuto nel mondo. Soffermiamoci su tre passaggi di questo incontro. Possono aiutarci, in questo cammino d’Avvento, ad accogliere a nostra volta il Signore che viene, il Signore che passa.

 

Il primo passaggio: andare da Gesù per guarire. Il testo dice che i due ciechi gridavano al Signore mentre lo seguivano (cfr v. 27). Non lo vedono ma ascoltano la sua voce e seguono i suoi passi. Cercano nel Cristo quello che avevano preannunciato i profeti, cioè i segni di guarigione e di compassione di Dio in mezzo al suo popolo. A questo proposito aveva scritto Isaia: «Si apriranno gli occhi dei ciechi» (35,5). E un’altra profezia, contenuta nella prima Lettura di oggi: «Liberati dall’oscurità e dalle tenebre, gli occhi dei ciechi vedranno» (29,18). I due del Vangelo si fidano di Gesù e lo seguono in cerca di luce per i loro occhi.

 

E perché, fratelli e sorelle, queste due persone si fidano di Gesù? Perché percepiscono che, nel buio della storia, Egli è la luce che illumina le notti del cuore e del mondo, che sconfigge le tenebre e vince ogni cecità. Anche noi, lo sappiamo, portiamo nel cuore delle cecità. Anche noi, come i due ciechi, siamo viandanti spesso immersi nelle oscurità della vita. La prima cosa da fare è andare da Gesù, come Lui stesso chiede: «Venite a me voi tutti, che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). Chi di noi non è in qualche modo stanco e oppresso? Tutti. Però facciamo resistenza a incamminarci verso Gesù; tante volte preferiamo rimanere chiusi in noi stessi, stare soli con le nostre oscurità, piangerci un po’ addosso, accettando la cattiva compagnia della tristezza. Gesù è il medico: solo Lui, la luce vera che illumina ogni uomo (cfr Gv 1,9), Lui ci dà l’abbondanza di luce, di calore, di amore. Solo Lui libera il cuore dal male. Possiamo domandarci: mi rinchiudo nel buio della malinconia, che dissecca le sorgenti della gioia, oppure vado da Gesù e gli porto la mia vita? Seguo Gesù, lo “inseguo”, gli grido i miei bisogni, gli consegno le mie amarezze? Facciamolo, diamo a Gesù la possibilità di guarirci il cuore. Questo è il primo passaggio; la guarigione interiore ne richiede altri due.

 

Il secondo è portare insieme le ferite. In questo racconto evangelico non c’è la guarigione di un solo cieco, come ad esempio nei casi di Bartimeo (cfr Mc 10,46-52) o del cieco nato (cfr Gv 9,1-41). Qui i ciechi sono due. Si trovano insieme sulla strada. Insieme condividono il dolore per la loro condizione, insieme desiderano una luce che possa accendere un bagliore nel cuore delle loro notti. Il testo che abbiamo ascoltato è sempre al plurale, perché i due fanno tutto insieme: entrambi seguono Gesù, entrambi gridano verso di Lui e chiedono la guarigione; non ciascuno per sé stesso, ma insieme. È significativo che dicano a Cristo: abbi pietà di noi. Usano il “noi”, non dicono “io”. Non pensano ciascuno alla propria cecità, ma chiedono aiuto insieme. Ecco il segno eloquente della vita cristiana, ecco il tratto distintivo dello spirito ecclesiale: pensare, parlare, agire come un “noi”, uscendo dall’individualismo e dalla pretesa di autosufficienza che fanno ammalare il cuore.

 

I due ciechi, con la condivisione delle loro sofferenze e con la loro fraterna amicizia, ci insegnano tanto. Ciascuno di noi è in qualche modo cieco a causa del peccato, che ci impedisce di “vedere” Dio come Padre e gli altri come fratelli. Questo fa il peccato, distorce la realtà: ci fa vedere Dio come padrone e gli altri come problemi. È l’opera del tentatore, che falsifica le cose e tende a mostrarcele sotto una luce negativa per gettarci nello sconforto e nell’amarezza. E la brutta tristezza, che è pericolosa e non viene da Dio, si annida bene nella solitudine. Dunque, non si può affrontare il buio da soli. Se portiamo da soli le nostre cecità interiori, veniamo sopraffatti. Abbiamo bisogno di metterci l’uno accanto all’altro, di condividere le ferite, di affrontare insieme la strada.

 

Cari fratelli e sorelle, dinanzi a ogni oscurità personale e alle sfide che abbiamo davanti nella Chiesa e nella società, siamo chiamati a rinnovare la fraternità. Se restiamo divisi tra di noi, se ciascuno pensa solo a sé o al suo gruppo, se non ci stringiamo insieme, non dialoghiamo, non camminiamo uniti, non possiamo guarire pienamente dalle cecità. La guarigione viene quando portiamo insieme le ferite, quando affrontiamo insieme i problemi, quando ci ascoltiamo e ci parliamo. E questa è la grazia di vivere in comunità, di capire il valore di essere insieme, di essere in comunità. Lo chiedo per voi: possiate stare sempre insieme, essere sempre uniti; andare avanti così e con gioia: fratelli cristiani, figli dell’unico Padre. E lo chiedo anche per me.

 

Ed ecco il terzo passaggio: annunciare il Vangelo con gioia. Dopo essere stati guariti insieme da Gesù, i due protagonisti anonimi del Vangelo, nei quali possiamo rispecchiarci, iniziano a diffondere la notizia in tutta la regione, a parlarne dappertutto. C’è un po’ di ironia in questo fatto: Gesù aveva raccomandato loro di non dire niente a nessuno, ma essi fanno l’esatto contrario (cfr Mt 9,30-31). Dal racconto si capisce, però, che non è loro intenzione disobbedire al Signore; semplicemente non riescono a contenere l’entusiasmo di essere stati risanati, la gioia per quanto hanno vissuto nell’incontro con Lui. E qui c’è un altro segno distintivo del cristiano: la gioia del Vangelo, che è incontenibile, «riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 1); la gioia del Vangelo libera dal rischio di una fede intimista, seriosa, lamentosa, e immette nel dinamismo della testimonianza.

 

Carissimi, è bello vedervi e vedere che vivete con gioia l’annuncio liberante del Vangelo. Vi ringrazio per questo. Non si tratta di proselitismo – per favore, non fare mai proselitismo! – ma di testimonianza; non di moralismo che giudica – no, non farlo – ma di misericordia che abbraccia; non di culto esteriore, ma di amore vissuto. Vi incoraggio ad andare avanti su questa strada: come i due ciechi del Vangelo, rinnoviamo anche noi l’incontro con Gesù e usciamo da noi stessi senza paura per testimoniarlo a quanti incontriamo! Usciamo a portare la luce che abbiamo ricevuto, usciamo a illuminare la notte che spesso ci circonda! Fratelli e sorelle, c’è bisogno di cristiani illuminati ma soprattutto luminosi, che tocchino con tenerezza le cecità dei fratelli; che con gesti e parole di consolazione accendano luci di speranza nel buio. Cristiani che seminino germogli di Vangelo nei campi aridi della quotidianità, che portino carezze nelle solitudini della sofferenza e della povertà.

 

Fratelli, sorelle, il Signore Gesù passa, passa anche per le nostre strade di Cipro, ascolta il grido delle nostre cecità, vuole toccare i nostri occhi, vuole toccare il nostro cuore, farci venire alla luce, rinascere, rialzarci dentro: questo vuole fare Gesù. E rivolge anche a noi la domanda che fece ai quei ciechi: «Credete che io possa fare questo?» (Mt 9,28). Crediamo che Gesù possa fare questo? Rinnoviamo la nostra fiducia in Lui! Diciamogli: Gesù, crediamo che la tua luce è più grande di ogni nostra tenebra; crediamo che Tu puoi guarirci, che Tu puoi rinnovare la nostra fraternità, che puoi moltiplicare la nostra gioia; e con tutta la Chiesa Ti invochiamo, tutti insieme: Vieni, Signore Gesù! [tutti ripetono: “Vieni, Signore Gesù!”] Vieni, Signore Gesù! [tutti: “Vieni, Signore Gesù!”] Vieni, Signore Gesù! [tutti: “Vieni, Signore Gesù!”]

 

Saluto finale al termine della Messa

 

Cari fratelli e sorelle,

sono io che desidero ringraziare tutti voi! Domani mattina avrò modo di salutare il Signor Presidente della Repubblica, qui presente: lo saluterò al momento di congedarmi da questo Paese, ma fin da ora desidero di cuore esprimere a tutti la mia gratitudine per l’accoglienza e l’affetto che mi sono stati riservati. Grazie!

 

Qui a Cipro sto respirando un po’ di quell’atmosfera tipica della Terra Santa, dove l’antichità e la varietà delle tradizioni cristiane arricchiscono il pellegrino. Questo mi fa bene, e fa bene incontrare comunità di credenti che vivono il presente con speranza, aperti al futuro, e condividono questo orizzonte con i più bisognosi. Penso, in particolare, ai migranti in cerca di una vita migliore, con i quali trascorrerò il mio ultimo incontro su quest’isola, insieme ai fratelli e alle sorelle di varie confessioni cristiane.

 

Grazie a tutti coloro che hanno collaborato per questa visita! Pregate per me. Il Signore vi benedica e la Madonna vi protegga. Efcharistó! [Grazie!]



 

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Messaggio Cristiano
UDIENZA GENERALE Piazza San Pietro - Mercoledì, 9 Ottobre 2024

Ciclo di Catechesi. Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza. 8. «Tutti furono colmati di Spirito Santo». Lo Spirito Santo negli Atti degli Apostoli

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel nostro itinerario di catechesi sullo Spirito Santo e la Chiesa, oggi facciamo riferimento al Libro degli Atti degli Apostoli.

Il racconto della discesa dello Spirito Santo a Pentecoste inizia con la descrizione di alcuni segni preparatori – il vento fragoroso e le lingue di fuoco –, ma trova la sua conclusione nell’affermazione: «E tutti furono colmati di Spirito Santo» (At 2,4). San Luca – che ha scritto gli Atti degli Apostoli – mette in luce che lo Spirito Santo è Colui che assicura l’universalità e l’unità della Chiesa. L’effetto immediato dell’essere “colmati di Spirito Santo” è che gli Apostoli «cominciarono a parlare in altre lingue» e uscirono dal Cenacolo per annunciare Gesù Cristo alla folla (cfr At 2,4ss).

Così facendo, Luca ha voluto mettere in risalto la missione universale della Chiesa, come segno di una nuova unità tra tutti i popoli. In due modi vediamo che lo Spirito lavora per l’unità. Da un lato, spinge la Chiesa verso l’esterno, perché possa accogliere un numero sempre maggiore di persone e di popoli; dall’altro lato, la raccoglie al suo interno per consolidare l’unità raggiunta. Le insegna a estendersi in universalità e a raccogliersi in unità. Universale e una: questo è il mistero della Chiesa.

Il primo dei due movimenti – l’universalità – lo vediamo in atto nel capitolo 10 degli Atti, nell’episodio della conversione di Cornelio. Il giorno di Pentecoste gli Apostoli avevano annunciato Cristo a tutti i giudei e gli osservanti della legge mosaica, a qualsiasi popolo appartenessero. Ci vuole un’altra “pentecoste”, molto simile alla prima, quella in casa del centurione Cornelio, per indurre gli Apostoli ad allargare l’orizzonte e far cadere l’ultima barriera, quella tra giudei e pagani (cfr At 10-11).

A questa espansione etnica si aggiunge quella geografica. Paolo – si legge sempre negli Atti degli Apostoli (cfr 16,6-10) – voleva annunciare il Vangelo in una nuova regione dell’Asia Minore; ma, è scritto, «lo Spirito Santo glielo aveva impedito»; voleva passare in Bitinia «ma lo Spirito di Gesù non lo permise». Si scopre subito il perché di questi sorprendenti divieti dello Spirito: la notte seguente l’Apostolo riceve in sogno l’ordine di passare in Macedonia. Il Vangelo usciva così dalla nativa Asia ed entrava in Europa.

Il secondo movimento dello Spirito Santo – quello che crea l’unità – lo vediamo in atto nel capitolo 15 degli Atti, nello svolgimento del cosiddetto concilio di Gerusalemme. Il problema è come far sì che l’universalità raggiunta non comprometta l’unità della Chiesa. Lo Spirito Santo non opera sempre l’unità in maniera repentina, con interventi miracolosi e risolutivi, come a Pentecoste. Lo fa anche – e nella maggioranza dei casi – con un lavorio discreto, rispettoso dei tempi e delle divergenze umane, passando attraverso persone e istituzioni, preghiera e confronto. In maniera, diremmo oggi, sinodale. Così infatti avvenne, nel concilio di Gerusalemme, per la questione degli obblighi della Legge mosaica da imporre ai convertiti dal paganesimo. La sua soluzione fu annunciata a tutta la Chiesa con le ben note parole: «Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi...» (At 15,28).

Sant’Agostino spiega l’unità operata dallo Spirito Santo con una immagine, divenuta classica: «Ciò che è l’anima per il corpo umano, lo Spirito Santo lo è per il corpo di Cristo che è la Chiesa» [1]. L’immagine ci aiuta a capire una cosa importante. Lo Spirito Santo non opera l’unità della Chiesa dall’esterno; non si limita a comandare di essere uniti. È Lui stesso il “vincolo di unità”. È Lui che fa l’unità della Chiesa.

Come sempre, concludiamo con un pensiero che ci aiuta a passare dall’insieme della Chiesa a ciascuno di noi. L’unità della Chiesa è l’unità tra persone e non si realizza a tavolino, ma nella vita. Si realizza nella vita. Tutti vogliamo l’unità, tutti la desideriamo dal profondo del cuore; eppure essa è tanto difficile da ottenere che, anche all’interno del matrimonio e della famiglia, l’unione e la concordia sono tra le cose più difficili da raggiungere e più ancora da mantenere.

Il motivo – per cui è difficile l’unità tra noi – è che ognuno vuole, sì, che si faccia l’unità, ma intorno al proprio punto di vista, senza pensare che l’altro che gli sta davanti pensa esattamente la stessa cosa circa il “suo” punto di vista. Per questa via, l’unità non fa che allontanarsi. L’unità di vita, l’unità di Pentecoste, secondo lo Spirito, si realizza quando ci si sforza di mettere al centro Dio, non sé stessi. Anche l’unità dei cristiani si costruisce così: non aspettando che gli altri ci raggiungano là dove noi siamo, ma muovendoci insieme verso Cristo.

Chiediamo allo Spirito Santo che ci aiuti ad essere strumenti di unità e di pace.

[1] Discorsi, 267, 4

Papa Francesco