Il norvegese Krueger e il canadese McMorris tra i protagonisti di alcune delle storie più significative dei primi giorni di gara ai Giochi di PyeongChang
 
 

 

Lo skiathlon è la prova più completa del programma di gare olimpico dello sci di fondo. Metà gara disputata a tecnica classica (per intenderci quella in cui gli sci degli atleti viaggiano normalmente all’interno di binari praticati sulla neve) poi, dopo un breve pit-stop per il cambio degli sci, l’altra metà percorsa utilizzando la tecnica libera. Di solito questa specialità è terra di conquista degli atleti più forti. Per gli altri, rimangono solo le briciole. Di solito … Sabato scorso, ad esempio, nella prima gara che ha assegnato medaglie ai Giochi di PyeongChang 2018, abbiamo assistito a un duello appassionante tra quelle che, in questo momento, sono considerate le migliori fondiste del panorama internazionale. Alla fine ha vinto Charlotte Kalla, un vero e proprio idolo per gli appassionati di sport svedesi, che ha preceduto la norvegese Marit Bjoergen, l’insaziabile dominatrice degli ultimi dieci anni di questo sport. Una campionessa straordinaria, che con il podio conquistato in Corea del sud è salita a un bottino complessivo di undici medaglie a cinque cerchi. Un record eccezionale, che fa di lei la donna più medagliata di sempre nella storia delle Olimpiadi invernali.

 

Domenica mattina, al via dello skiathlon maschile, i favori del pronostico andavano tutti al talentuoso Johannes Hosflot Klaebo, l’ultimo talento espresso dall’interminabile serbatoio che è capace di produrre lo sci di fondo norvegese. Il ventunenne di Trondheim, vero astro nascente di questo sport, quest’anno aveva vinto (spesso dominando) quasi tutte le gare cui aveva preso parte prima dei Giochi (9 vittorie e 2 secondi posti su 12 apparizioni complessive in coppa del mondo!). Sulla carta, chi avrebbe potuto fermarlo? Forse il campione olimpico uscente di questa specialità, lo svizzero Dario Cologna, e pochi altri. Al via, tra i fondisti che speravano di poter ben figurare, c’era anche Simen Hegstad Krueger, connazionale del grande favorito della vigilia. Un buon atleta il norvegese, certo, ma non proprio uno di quelli indicati dagli addetti ai lavori tra i più “indiziati” per salire sul podio. Al massimo, un outsider. Krueger, dopo appena venti secondi di gara, cade e rompe un bastoncino. Mentre gli altri sessantasette concorrenti procedono spediti, lui rimane arretrato e perde parecchio terreno. Produce il massimo sforzo per cerca di risalire la china, ma dopo un quarto di gara è “solo” in ventiquattresima posizione, con un ritardo di oltre trenta secondi dal gruppo di testa.

 

Solitamente, con un distacco di questo genere, in questo sport recuperare i primi diventa quasi impossibile. Simen però non si da per vinto. A metà gara cambia in quattordicesima posizione, poi approfitta di un rallentamento di chi lo precede per rifarsi sotto. Intorno al ventesimo chilometro (dei trenta complessivi da percorrere), è di nuovo con i migliori, ma tutti pensano che le energie spese per recuperare gli presenteranno presto il conto. Invece lui, a cinque chilometri dal traguardo parte in salita, tenta l’allungo vincente e, tra la sorpresa generale, va a vincere una medaglia d’oro davvero insperata. Mentre si appresta a tagliare il traguardo, fa un gesto d’incredulità con le mani. Più forte della sfortuna, più forte del pronostico sfavorevole. Una storia degna delle Olimpiadi, da libro cuore, che dimostra come nello sport non bisogna mai arrendersi, neanche davanti ad avversari più “titolati” o a un imprevisto che sembra mettere fine a un sogno. E di cosa vuol dire non arrendersi, di cosa significhi provare ad andare oltre gli ostacoli, ne sa qualcosa anche un altro atleta in gara domenica ai Giochi olimpici.

 

Il canadese Mark McMorris è un venticinquenne canadese che gareggia nello snowboard. Uno di quei “Millennial” devoti della tavola da snowboard che, con le loro performance, appassionano tantissimi giovani (e non solo) in tutto il mondo. La sua specialità è lo slopestyle, in cui l’obiettivo è di realizzare, lungo una pista in discesa, dei salti e delle acrobazie estreme cui i giudici attribuiscono poi un punteggio in base ad alcuni parametri (sostanzialmente tenendo in considerazione l’altezza dei salti e la difficoltà delle acrobazie). Il ragazzo canadese ne ha fatta di strada, e da anni è uno dei riders (come sono chiamati in gergo i praticanti di questo sport) migliori del pianeta. Nella sua ancor giovane carriera, Mark ha però dovuto spesso fare i conti con gli infortuni. Come, ad esempio, quello capitatogli alla vigilia delle precedenti Olimpiadi, nel 2014. Quando, nonostante la rottura di una clavicola patita appena dieci giorni prima della gara a cinque cerchi, riuscì comunque a stringere i denti e a vincere la medaglia di bronzo.

 

Altre volte, invece, gli è andata molto peggio. A inizio 2016 si è rotto il femore, ed è stato costretto a uno stop agonistico di oltre sei mesi. Tornato brillantemente al successo nei mesi successivi, a marzo del 2017 ecco poi un nuovo stop. Un sabato mattina, mentre si trova sulla neve insieme a alcuni amici per fare un po’ di snowboard alpinismo, subisce un grave infortunio che gli procura il collassamento di un polmone, molteplici fratture (al costato e al bacino), oltre alla rottura della mandibola, dell’omero sinistro e della milza. Mark è sottoposto così ad una serie di interventi chirurgici, ma a quel punto il sogno di provare a salire nuovamente sul podio olimpico sembra davvero complicato da realizzare. Lui però è un ragazzo con una forza d’animo straordinaria, e anche questa volta “reagisce” all’imprevisto capitatogli. Lotta con tutte le sue energie per conquistarsi un posto in squadra in vista dei Giochi (cosa non facile considerando che i canadesi vantano una squadra di riders di altissimo livello), e alla fine porta a casa un altro bronzo olimpico nella gara vinta dal primo atleta nato negli anni 2000 capace di conquistare una medaglia d’oro alle Olimpiadi, il diciassettenne statunitense Redmond Gerard.

 

Questi primi giorni “olimpici” ci hanno già regalato diverse emozioni. Abbiamo trepidato per i colori azzurri, in continuo bilico tra dolore e gioia. Soffrendo per una medaglia sfuggita di un soffio (quella che Dominik Fischnaller ha perso nello slittino per l’inezia di due millesimi di secondo), e gioendo per una medaglia … in questo caso vinta per un soffio (grazie a Dominik Windisch, bronzo nella prova sprint di biathlon con un vantaggio di appena sette decimi di secondo sul quarto classificato). Abbiamo visto fuoriclasse trionfare e cadere fragorosamente. Talenti purissimi che hanno vinto come l’olandese Sven Kramer, il Leo Messi del pattinaggio di velocità, probabilmente il migliore pattinatore di sempre, capace di conquistare il terzo oro olimpico consecutivo nei 5.000 metri. O campionissimi che invece hanno perso come Felix Loch, lo slittinista tedesco vincitore della medaglia d’oro sia a Vancouver 2010 sia a Sochi 2014, che ha visto sfuggire il possibile tris, che sembrava ormai a portata di mano, per colpa di uno scriteriato errore nell’ultima discesa (alla fine è giunto “solo” quinto).

 

E, ancora, in queste prime giornate dei Giochi di PyeongChang 2018 (qui il programma completo) abbiamo assistito anche a momenti di portata storica, che hanno una valenza non soltanto sportiva. Come dimenticare l’immagine del pilota di bob sudcoreano Won Yun-jong e della giocatrice di hockey nordcoreana Hwang Chung-gum che, durante la cerimonia di apertura, hanno fatto da portabandiera (insieme) alla delegazione coreana riunita sotto un’unica bandiera come non accadeva dai Giochi di Torino 2006? Come sottovalutare l’importanza di un evento sportivo come la partita del torneo di hockey femminile disputata sabato tra la nazionale unificata della Corea e quella della Svizzera? Magari un match non entusiasmante sotto l’aspetto tecnico (8-0 il risultato finale per le giocatrici elvetiche), ma ricco di significati extra sportivi (alla partita hanno assistito rappresentanti ad alto livello dei due Paesi “in guerra” ormai da quasi settanta anni). Timidi ma significativi segnali di speranza, come ha avuto modo di sottolineare anche Papa Francesco, in uno degli angoli più “caldi” del pianeta.

 

Tra le emozioni più forti di questi primi giorni di Olimpiadi, però, un posto speciale lo meritano anche le storie di Simen e Mark, due atleti che non hanno “mollato”, due ragazzi autori di “recuperi prodigiosi”.