Giovedì 19 Dicembre 2024

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Cronaca Bianca


VIVERE DA CRISTIANI

Testimonianza di padre Giovanni DUTTO, Missionario della Consolata

Padre Giovanni Dutto è un missionario della Consolata di Torino. L’ho conosciuto quarant’anni fa quando, insieme con i missionari di altre Congregazioni come la SMA e il PIME, ogni anno incontrava i giovani dei Seminari Diocesani per presentare il lavoro delle missioni.

Passando da Loppiano (Incisa Valdarno), questi missionari si fermavano da noi, Religiosi della Claritas. Da una ventina d’anni padre Giovanni si trova nell’Est del Kenia, al margine del deserto di Marsabit, per animare un Eremo/Santuario Mariano.

Ho sempre avuto una buona impressione di lui, avendo osservato che il suo dire e il suo fare coincidono!  Il lettore del nostro SITO  … può saziare la sua sete di Acqua fresca e pura! Buona lettura dal “KOKO”

 

          Ero l’unico cristiano a Moyale, nel cuore del deserto di Marsabit. Non ho sofferto di solitudine, ma mi chiedevo fino a quando e con chi avrei potuto condividere il Vangelo.

 

Uno dei giovani, che mi aiutavano a costruire una scuola, mi sembrava lavorato dallo Spirito: qualcosa di pulito ispiravano i suoi occhi.

 

Infatti, dopo pochi giorni, mi ha fermato dopo il lavoro e ha fatto domande sulla mia religione. Lì erano tutti analfabeti e pagani: sapevano della scuola da iniziare e intuivano che ero tra loro per un messaggio più grande.

Gli ho fatto vedere la Bibbia. Ci siamo seduti nella sabbia e ho risposto così: “Leggiamo insieme questa pagina. Dio ha detto: Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Matteo 18, 19-20).

Gababo aveva gli occhi sbarrati nel vedermi leggere un libro. Eravamo commossi e senza parole nostre. Poi ho ripreso: “Non ti sembra meraviglioso che, se tu e io siamo uniti nel suo nome, Dio è qui in mezzo a te e a me? In questo deserto… tra la nostra gente…”.

 

Gli occhi parlanti di Gababo sprizzavano luce e gioia; ma non disse nulla. Ci salutammo. Io restai con un certo imbarazzo interiore: non avevo osato troppo? Gli avevo detto ‘Dio’: perché tutti gli amici borana sanno di un dio. Non gli ho detto ‘Gesù’: non aveva mai sentito questo nomeSono passati alcuni giorni. Gababo era sempre più luminoso, laborioso e raccolto: avrei detto che ‘camminava in punta di piedi’. Una sera, non se ne andò con i compagni di lavoro. Io ero entrato nella ‘baracca della preghiera’ e mi sentii chiamare: “Padre, ho dentro le parole del Libro che abbiamo letto. Ora voglio solo più che ‘Dio sia in mezzo a noi’. Penso che, se lo vogliamo in mezzo a noi, dobbiamo stare insieme il più possibile. Hai visto che da qualche giorno, io cerco di stare qui anche oltre il tempo del lavoro. Domenica sono rimasto tutto il giorno. E, quando sono a casa, mamma ha notato che sono diverso. Persino durante la notte penso a te. È troppo bello che Dio sia qui, nel nostro villaggio, nel nostro deserto…”.   Non ho detto niente: ero solo cosciente che lo Spirito coltivava la Parola in profondità.

 

Passò un po’ di tempo e Gababo, una sera, mi fermò e mi disse: “Padre, penso che, se vogliamo Dio in mezzo a noi, dobbiamo pregare insieme. Noi non abbiamo né riti, né preghiere ma tu hai la ‘baracca della preghiera’. Mi piace andarvi quando ci sei tu. Vorrei starci sempre”. Avevo visto che al mattino presto era là, e si fermava alla sera fino quasi al buio. Durante il giorno ho dovuto diradare le mie visite al Santissimo Sacramento. Me lo sarei trovato con me! Di notte mi piaceva dire il Rosario passeggiando sotto le stelle e presto me lo sono visto accanto.

 

Un altro giorno venne a dirmi: “Padre, penso che, se Dio è in mezzo a noi, dobbiamo volerci bene!” Mi chiedevo che cosa volesse dire. L’ho compreso dai fatti. Il suo saluto al mattino era diventato un grido di gioia. Lavorava con più dedizione. Quando passavo a sorvegliare il lavoro, il saluto e lo sguardo dicevano ‘il volerci bene’. Una domenica mi ha portato la più bella papaia colta sull’unico albero davanti alla loro capanna. Dopo un viaggio di qualche giorno per provviste (a 600 chilometri) mi ha detto: “Non assentarti più. È come se mancasse il sole”. La dolcezza con cui parlava con me divenne il modo di trattare tutti.

L’atmosfera della missione era impregnata di un clima traboccante pace e fervore. Non avrei più osato alzare la voce con operai o scolari che nei loro primi passi mettevano alla prova la pazienza. Non mi veniva più di lamentarmi per il caldo, le zanzare, il cibo…

 

Gababo venne a darmi l’ultima lezione: “Padre, ‘Dio in mezzo a noi’ vuol dire questo: Tu e io non possiamo più fare nulla di male contro Dio. Noi dobbiamo fare tutto come a Lui fa piacere”.

Aveva il dito puntato verso di me e il volto pieno di fermezza e di bontà. Che cosa sapesse di male e di volontà di Dio, non lo so.

Era però evidente che io ero un missionario ridondante. Lo Spirito santo fa capire lui stesso la Parola, la fa ricordare e dà la fortezza per viverla.

 

La missione di Moyale era eretta e consacrata prima che il ‘primo’ battesimo fosse amministrato!

 



 

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Messaggio Cristiano
UDIENZA GENERALE - Aula Paolo VI Mercoledì, 11 Dicembre 2024

Ciclo di Catechesi. Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza. 17. Lo Spirito e la Sposa dicono: “Vieni!”. Lo Spirito Santo e la speranza cristiana

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Siamo arrivati al termine delle nostre catechesi sullo Spirito Santo e la Chiesa. Dedichiamo quest’ultima riflessione al titolo che abbiamo dato all’intero ciclo, e cioè: “Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il Popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza”. Questo titolo si riferisce a uno degli ultimi versetti della Bibbia, nel Libro dell’Apocalisse, che dice: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”» (Ap 22,17). A chi è rivolta questa invocazione? È rivolta a Cristo risorto. Infatti, sia San Paolo (cfr 1 Cor 16,22), sia la Didaché, uno scritto dei tempi apostolici, attestano che nelle riunioni liturgiche dei primi cristiani risuonava, in aramaico, il grido “Maràna tha!”, che significa appunto “Vieni Signore!”. Una preghiera al Cristo perché venga.

In quella fase più antica l’invocazione aveva uno sfondo che oggi diremmo escatologico. Esprimeva, infatti, l’ardente attesa del ritorno glorioso del Signore. E tale grido e l’attesa che esso esprime non si sono mai spenti nella Chiesa. Ancora oggi, nella Messa, subito dopo la consacrazione, essa proclama la morte e la risurrezione del Cristo “nell’attesa della sua venuta”. La Chiesa è in attesa della venuta del Signore.

Ma questa attesa della venuta ultima di Cristo non è rimasta l’unica e la sola. Ad essa si è unita anche l’attesa della sua venuta continua nella situazione presente e pellegrinante della Chiesa. Ed è a questa venuta che pensa soprattutto la Chiesa, quando, animata dallo Spirito Santo, grida a Gesù: “Vieni!”.

È avvenuto un cambiamento – meglio, uno sviluppo – pieno di significato, a proposito del grido “Vieni!”, “Vieni, Signore!”. Esso non è abitualmente rivolto solo a Cristo, ma anche allo Spirito Santo stesso! Colui che grida è ora anche Colui al quale si grida. “Vieni!” è l’invocazione con cui iniziano quasi tutti gli inni e le preghiere della Chiesa rivolti allo Spirito Santo: «Vieni, o Spirito creatore», diciamo nel Veni Creator, e «Vieni, Spirito Santo», «Veni Sancte Spiritus», nella sequenza di Pentecoste; e così in tante altre preghiere. È giusto che sia così, perché, dopo la Risurrezione, lo Spirito Santo è il vero “alter ego” di Cristo, Colui che ne fa le veci, che lo rende presente e operante nella Chiesa. È Lui che “annuncia le cose future” (cfr Gv 16,13) e le fa desiderare e attendere. Ecco perché Cristo e lo Spirito sono inseparabili, anche nell’economia della salvezza.

Lo Spirito Santo è la sorgente sempre zampillante della speranza cristiana. San Paolo ci ha lasciato queste preziose parole: «Il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo» (Rm 15,13). Se la Chiesa è una barca, lo Spirito Santo è la vela che la spinge e la fa avanzare nel mare della storia, oggi come in passato!

Speranza non è una parola vuota, o un nostro vago desiderio che le cose vadano per il meglio: la speranza è una certezza, perché è fondata sulla fedeltà di Dio alle sue promesse. E per questo si chiama virtù teologale: perché è infusa da Dio e ha Dio per garante. Non è una virtù passiva, che si limita ad attendere che le cose succedano. È una virtù sommamente attiva che aiuta a farle succedere. Qualcuno, che ha lottato per la liberazione dei poveri, ha scritto queste parole: «Lo Spirito Santo è all’origine del grido dei poveri. È la forza data a quelli che non hanno forza. Egli guida la lotta per l’emancipazione e per la piena realizzazione del popolo degli oppressi» [1].

Il cristiano non può accontentarsi di avere speranza; deve anche irradiare speranza, essere seminatore di speranza. È il dono più bello che la Chiesa può fare all’umanità intera, soprattutto nei momenti in cui tutto sembra spingere ad ammainare le vele.

L’apostolo Pietro esortava i primi cristiani con queste parole: «Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi». Ma aggiungeva una raccomandazione: «Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto» (1 Pt 3,15-16). E questo perché non sarà tanto la forza degli argomenti a convincere le persone, quanto l’amore che in essi sapremo mettere. Questa è la prima e più efficace forma di evangelizzazione. Ed è aperta a tutti!

Cari fratelli e sorelle, che lo Spirito ci aiuti sempre, sempre ad “abbondare nella speranza in virtù dello Spirito Santo”!

[1] J. Comblin, Spirito Santo e liberazione, Assisi 1989, 236.

Papa Francesco