Venerdì 19 Aprile 2024
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I Cappuccini


Margherita Bays, la Santa del quotidiano

La nuova Santa è una laica svizzera, terziaria francescana, che scelse, come via per raggiungere il Signore, la quotidianità della famiglia, rifiutando sempre di entrare in un ordine religioso

 

Roberta Barbi – Città del Vaticano

 

Margherita Bays nasce a La Pierraz, nel Cantone svizzero di Friburgo, nel 1815. Seconda di sette figli di una modesta famiglia di agricoltori, verso i 15 anni inizia l’apprendistato da sarta, attività che non abbandonerà mai, esercitandola sia a casa sia a domicilio.

 

Il servizio ai poveri, “i preferiti di Dio”

 

La nuova Santa, però, si sente portata anche per la preghiera a per una vita di raccoglimento. Ogni giorno recita il Santo Rosario, partecipa alla Messa e si ferma a contemplare il Santissimo Sacramento, invitando a pregare con lei anche quanti incontra per lavoro oltre che in famiglia. Si impegna in parrocchia, anche, dove trascorre tutto il suo tempo libero: insegna il catechismo ai bambini, visita gli ammalati, si occupa dei poveri, tutte persone che a suo dire sono “i preferiti di Dio” perché indifesi. Per questa sua vita di apostolato attivo viene accolta nel Terz’Ordine Francescano, oggi Ordine Francescano secolare, nel 1860.

 

Una santità vissuta in famiglia

Molti chiedono a Margherita, viste le sue inclinazioni, perché non entra in convento, ma lei sa, in cuor suo, che il suo posto è a casa e la sua via verso la santità è il quotidiano servizio alla sua famiglia. E questa non sempre le renderà le cose facili: quando il fratello maggiore si sposa con la domestica Josette, per anni dovrà subire le angherie della cognata che non capisce la sua vita di preghiera mentre lei è costretta a lavorare nei campi. Margherita sopporta tutto con silenzio e quando Josette si ammalerà, in punto di morte, vorrà avere soltanto lei vicino. Con gli altri membri della famiglia Margherita è paziente, accoglie tutti e si occupa di tutti: la sorella rientrata a casa dopo un matrimonio fallito, un fratello finito in prigione e un nipote nato fuori dal matrimonio della cui educazione si occuperà proprio zia Margherita.  

 

L’esperienza del dolore fisico

Nel 1853 Margherita viene operata per un cancro all’intestino. Le cure sono molto invasive, così lei si mette a pregare la Vergine supplicandola di guarirla per farla soffrire in modo diverso. Viene accontentata l’8 dicembre 1854, mentre a Roma Papa Pio IX proclama il dogma dell’Immacolata Concezione. Da quel giorno Margherita è legata per sempre alla figura del Cristo sofferente sulla croce: le appaiono le stimmate che lei nasconde accortamente da occhi indiscreti, si ammala misteriosamente il venerdì e durante la Settimana Santa, sperimenta l’esperienza dell’estasi. Il dolore si fa via più intenso, finché Margherita rimette la sua vita nelle mani del Padre, il 27 giugno 1879. I parrocchiani e tutti quelli che la conoscono e la amano, dicono tra loro: “È morta la nostra Santa”.



 

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Messaggio Cristiano
Udienza Generale, 17 Aprile 2024

Catechesi. I vizi e le virtù. 15. La temperanza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi parlerò della quarta e ultima virtù cardinale: la temperanza. Con le altre tre, questa virtù condivide una storia che risale molto indietro nel tempo e che non appartiene ai soli cristiani. Per i greci la pratica delle virtù aveva come obbiettivo la felicità. Il filosofo Aristotele scrive il suo più importante trattato di etica indirizzandolo al figlio Nicomaco, per istruirlo nell’arte del vivere. Perché tutti cerchiamo la felicità eppure così pochi la raggiungono? Questa è la domanda. Per rispondere ad essa Aristotele affronta il tema delle virtù, tra le quali ha uno spazio di rilievo la enkráteia, cioè la temperanza. Il termine greco significa letteralmente “potere su sé stessi”. La temperanza è un potere su sé stessi. Questa virtù è dunque la capacità di autodominio, l’arte di non farsi travolgere da passioni ribelli, di mettere ordine in quello che il Manzoni chiama il “guazzabuglio del cuore umano”.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci dice che «la temperanza è la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati». «Essa – prosegue il Catechismo – assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore» (n. 1809).

Dunque, la temperanza, come dice la parola italiana, è la virtù della giusta misura. In ogni situazione, si comporta con saggezza, perché le persone che agiscono mosse sempre dall’impeto o dall’esuberanza alla fine sono inaffidabili. Le persone senza temperanza sono sempre inaffidabili. In un mondo dove tanta gente si vanta di dire quello che pensa, la persona temperante preferisce invece pensare quello che dice. Capite la differenza? Non dire quello che mi viene in mente, così… No, pensare a quello che devo dire. Non fa promesse a vanvera, ma assume impegni nella misura in cui li può soddisfare.

Anche con i piaceri, la persona temperante agisce con giudizio. Il libero corso delle pulsioni e la totale licenza accordata ai piaceri, finiscono per ritorcersi contro noi stessi, facendoci precipitare in uno stato di noia. Quanta gente che ha voluto provare tutto con voracità si è ritrovata a perdere il gusto di ogni cosa! Meglio allora cercare la giusta misura: ad esempio, per apprezzare un buon vino, assaporarlo a piccoli sorsi è meglio che ingurgitarlo tutto d’un fiato. Tutti sappiamo questo.

La persona temperante sa pesare e dosare bene le parole. Pensa a quello che dice. Non permette che un momento di rabbia rovini relazioni e amicizie che poi solo con fatica potranno essere ricostruite. Specialmente nella vita famigliare, dove le inibizioni si abbassano, tutti corriamo il rischio di non tenere a freno tensioni, irritazioni, arrabbiature. C’è un tempo per parlare e un tempo per tacere, ma entrambi richiedono la giusta misura. E questo vale per tante cose, ad esempio lo stare con gli altri e lo stare da soli.

Se la persona temperante sa controllare la propria irascibilità, non per questo la vedremo perennemente con il volto pacifico e sorridente. Infatti, qualche volta è necessario indignarsi, ma sempre nella giusta maniera. Queste sono le parole: la giusta misura, la giusta maniera. Una parola di rimprovero a volte è più salutare rispetto a un silenzio acido e rancoroso. Il temperante sa che nulla è più scomodo del correggere un altro, ma sa anche che è necessario: altrimenti si offrirebbe libero campo al male. In certi casi, il temperante riesce a tenere insieme gli estremi: afferma i principi assoluti, rivendica i valori non negoziabili, ma sa anche comprendere le persone e dimostra empatia per esse. Dimostra empatia.

Il dono del temperante è dunque l’equilibrio, qualità tanto preziosa quanto rara. Tutto, infatti, nel nostro mondo spinge all’eccesso. Invece la temperanza si sposa bene con atteggiamenti evangelici quali la piccolezza, la discrezione, il nascondimento, la mitezza. Chi è temperante apprezza la stima degli altri, ma non ne fa l’unico criterio di ogni azione e di ogni parola. È sensibile, sa piangere e non se ne vergogna, ma non si piange addosso. Sconfitto, si rialza; vincitore, è capace di tornare alla vita nascosta di sempre. Non cerca gli applausi, ma sa di avere bisogno degli altri.

Fratelli e sorelle, non è vero che la temperanza rende grigi e privi di gioie. Anzi, fa gustare meglio i beni della vita: lo stare insieme a tavola, la tenerezza di certe amicizie, la confidenza con le persone sagge, lo stupore per le bellezze del creato. La felicità con la temperanza è letizia che fiorisce nel cuore di chi riconosce e dà valore a ciò che più conta nella vita. Preghiamo il Signore perché ci dia questo dono: il dono della maturità, della maturità dell’età, della maturità affettiva, della maturità sociale. Il dono della temperanza.

Papa Francesco