A tutto campo


VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO IN ROMANIA (31 MAGGIO - 2 GIUGNO 2019)

Nuova Cattedrale Ortodossa (Bucarest) Venerdì, 31 maggio 2019

PREGHIERA DEL PADRE NOSTRO

 

Santità, caro Fratello, cari fratelli e sorelle!

Vorrei esprimere la mia gratitudine e la mia commozione nel trovarmi in questo tempio santo, che ci raccoglie in unità. Gesù chiamò i fratelli Andrea e Pietro a lasciare le reti per diventare insieme pescatori di uomini (cfr Mc 1,16-17). La propria chiamata non è completa senza quella del fratello. Oggi vogliamo elevare insieme, gli uni accanto agli altri, “gettare insieme”, dal cuore del Paese, la comune preghiera del Padre Nostro. In essa è racchiusa la nostra identità di figli e, oggi in modo particolare, di fratelli che pregano l’uno accanto all’altro. La preghiera del Padre Nostro contiene la certezza della promessa fatta da Gesù ai suoi discepoli: «Non vi lascerò orfani» (Gv 14,18) e ci offre la fiducia per ricevere e accogliere il dono del fratello. Vorrei perciò condividere alcune parole in preparazione alla preghiera, che reciterò per il nostro cammino di fraternità e perché la Romania possa sempre essere casa di tutti, terra di incontro, giardino dove fiorisce la riconciliazione e la comunione.

 

Ogni volta che diciamo “Padre nostro” ribadiamo che la parola Padre non può stare senza dire nostro. Uniti nella preghiera di Gesù, ci uniamo anche nella sua esperienza di amore e di intercessione che ci porta a dire: Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro (cfr Gv 20,17). È l’invito a che il “mio” si trasformi in nostro e il nostro si faccia preghiera. Aiutaci, Padre, a prendere sul serio la vita del fratello, a fare nostra la sua storia. Aiutaci, Padre, a non giudicare il fratello per le sue azioni e i suoi limiti, ma ad accoglierlo prima di tutto come figlio tuo. Aiutaci a vincere la tentazione di sentirci figli maggiori, che a forza di stare al centro dimenticano il dono dell’altro (cfr Lc 15,25-32).

 

A Te, che sei nei cieli, i cieli che abbracciano tutti e dove fai sorgere il sole sui buoni e sui cattivi, sui giusti e sugli ingiusti (cfr Mt 5,45), a Te domandiamo quella concordia che in terra non abbiamo saputo custodire. La chiediamo per l’intercessione di tanti fratelli e sorelle nella fede che insieme abitano il tuo Cielo dopo aver creduto, amato e molto sofferto, anche ai nostri giorni, per il solo fatto di essere cristiani.

 

Come loro anche noi vogliamo santificare il tuo nome mettendolo al centro di tutti i nostri interessi. Che sia il tuo nome, Signore, e non il nostro a muoverci e risvegliarci nell’esercizio della carità. Quante volte, pregando, ci limitiamo a chiedere doni ed elencare richieste, dimenticando che la prima cosa è lodare il tuo nome, adorare la tua persona, per poi riconoscere nella persona del fratello che ci hai posto accanto il tuo riflesso vivente. In mezzo a tante cose che passano e per le quali ci affanniamo, aiutaci, Padre, a ricercare quello che resta: la presenza tua e del fratello.

 

Siamo nell’attesa che venga il tuo regno: lo domandiamo e desideriamo perché vediamo che le dinamiche del mondo non lo assecondano. Dinamiche orientate dalle logiche del denaro, degli interessi, del potere. Mentre ci troviamo immersi in un consumismo sempre più sfrenato, che ammalia con bagliori luccicanti ma evanescenti, aiutaci, Padre, a credere in quello che preghiamo: a rinunciare alle comode sicurezze del potere, alle ingannevoli seduzioni della mondanità, alla vuota presunzione di crederci autosufficienti, all’ipocrisia di curare le apparenze. Così non perderemo di vista quel Regno al quale tu ci chiami.

 

Sia fatta la tua volontà, non la nostra. «È volontà di Dio la salvezza di tutti» (S. Giovanni Cassiano, Conferenze spirituali, IX, 20). Abbiamo bisogno, Padre, di allargare gli orizzonti, per non restringere nei nostri limiti la tua misericordiosa volontà salvifica, che tutti vuole abbracciare. Aiutaci, Padre, mandando a noi, come a Pentecoste, lo Spirito Santo, autore del coraggio e della gioia, perché ci spinga ad annunciare la lieta notizia del Vangelo oltre i confini delle nostre appartenenze, delle lingue, delle culture, delle nazioni.

 

Ogni giorno abbiamo bisogno di Lui, nostro pane quotidiano. Egli è il pane della vita (cfr Gv 6,35.48), che ci fa sentire figli amati e sfama ogni nostra solitudine e orfanezza. Egli è il pane del servizio: spezzatosi per farsi servo nostro, chiede a noi di servirci a vicenda (cfr Gv 13,14). Padre, mentre ci doni il pane quotidiano, alimenta in noi la nostalgia del fratello, il bisogno di servirlo. Chiedendo il pane quotidiano, Ti domandiamo anche il pane della memoria, la grazia di rinsaldare le radici comuni della nostra identità cristiana, radici indispensabili in un tempo in cui l’umanità, e le giovani generazioni in particolare, rischiano di sentirsi sradicate in mezzo a tante situazioni liquide, incapaci di fondare l’esistenza. Il pane che chiediamo, con la sua lunga storia che va dalla semina alla spiga, dal raccolto alla tavola, ispiri in noi il desiderio di essere pazienti coltivatori di comunione, che non si stancano di far germogliare semi di unità, di far lievitare il bene, di operare sempre accanto al fratello: senza sospetti e senza distanze, senza forzature e senza omologazioni, nella convivialità delle diversità riconciliate.

 

Il pane che domandiamo oggi è anche il pane di cui tanti ogni giorno sono privi, mentre pochi hanno il superfluo. Il Padre Nostro non è preghiera che acquieta, è grido di fronte alle carestie di amore del nostro tempo, di fronte all’individualismo e all’indifferenza che profanano il nome tuo, Padre. Aiutaci ad avere fame di donarci. Ricordaci, ogni volta che preghiamo, che per vivere non abbiamo bisogno di conservarci, ma di spezzarci; di condividere, non di accumulare; di sfamare gli altri più che riempire noi stessi, perché il benessere è tale solo se è di tutti.

 

Ogni volta che preghiamo chiediamo che i nostri debiti siano rimessi. Ci vuole coraggio, perché al tempo stesso ci impegniamo a rimettere i debiti che gli altri hanno con noi. Pertanto, dobbiamo trovare la forza di perdonare di cuore il fratello (cfr Mt 18,35) come Tu, Padre, perdoni i nostri peccati: di lasciarci alle spalle il passato e di abbracciare insieme il presente. Aiutaci, Padre, a non cedere alla paura, a non vedere nell’apertura un pericolo; ad avere la forza di perdonarci e di camminare, il coraggio di non accontentarci del quieto vivere e di ricercare sempre, con trasparenza e sincerità, il volto del fratello.

 

E quando il male, accovacciato alla porta del cuore (cfr Gen 4,7), ci indurrà a chiuderci in noi stessi; quando la tentazione di isolarci si farà più forte, nascondendo la sostanza del peccato, che è distanza da Te e dal nostro prossimo, aiutaci ancora, Padre. Incoraggiaci a trovare nel fratello quel sostegno che Tu ci hai posto a fianco per camminare verso di Te, e ad avere insieme il coraggio di dire: “Padre nostro”. Amen.

Ed ora recitiamo la preghiera che il Signore ci ha insegnato.

 

 

2017.04.26 - Videomessaggio del Papa al TED2017 su "Il futuro sei tu" 

    https://www.youtube.com/watch?v=WLwHbqaaiXs

 

Buona sera – oppure buon giorno, non so che ora è lì da voi!

A qualsiasi ora, sono però contento di partecipare al vostro incontro. Mi è piaciuto molto il titolo – “The future you” – perché, mentre guarda al domani, invita già da oggi al dialogo: guardando al futuro, invita a rivolgersi a un “tu”. “The future you”, il futuro è fatto di te, è fatto cioè di incontri, perché la vita scorre attraverso le relazioni. Parecchi anni di vita mi hanno fatto maturare sempre più la convinzione che l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli altri: la vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro.

 

Incontrando o ascoltando ammalati che soffrono, migranti che affrontano tremende difficoltà in cerca di un futuro migliore, carcerati che portano l’inferno nel proprio cuore, persone, specialmente giovani, che non hanno lavoro, mi accompagna spesso una domanda: “Perché loro e non io?” Anch’io sono nato in una famiglia di migranti: mio papà, i miei nonni, come tanti altri italiani, sono partiti per l’Argentina e hanno conosciuto la sorte di chi resta senza nulla. Anch’io avrei potuto essere tra gli “scartati” di oggi. Perciò nel mio cuore rimane sempre quella domanda: “Perché loro e non io?”

 

Mi piacerebbe innanzitutto che questo incontro ci aiuti a ricordare che abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, che nessuno di noi è un’isola, un io autonomo e indipendente dagli altri, che possiamo costruire il futuro solo insieme, senza escludere nessuno. Spesso non ci pensiamo, ma in realtà tutto è collegato e abbiamo bisogno di risanare i nostri collegamenti: anche quel giudizio duro che porto nel cuore contro mio fratello o mia sorella, quella ferita non curata, quel male non perdonato, quel rancore che mi farà solo male, è un pezzetto di guerra che porto dentro, è un focolaio nel cuore, da spegnere perché non divampi in un incendio e non lasci cenere.

 

Molti oggi, per diversi motivi, sembrano non credere che sia possibile un futuro felice. Questi timori vanno presi sul serio. Ma non sono invincibili. Si possono superare, se non ci chiudiamo in noi stessi. Perché la felicità si sperimenta solo come dono di armonia di ogni particolare col tutto. Anche le scienze – lo sapete meglio di me – ci indicano oggi una comprensione della realtà, dove ogni cosa esiste in collegamento, in interazione continua con le altre.

 

E qui arrivo al mio secondo messaggio. Come sarebbe bello se alla crescita delle innovazioni scientifiche e tecnologiche corrispondesse anche una sempre maggiore equità e inclusione sociale! Come sarebbe bello se, mentre scopriamo nuovi pianeti lontani, riscoprissimo i bisogni del fratello e della sorella che mi orbitano attorno! Come sarebbe bello che la fraternità, questa parola così bella e a volte scomoda, non si riducesse solo a assistenza sociale, ma diventasse atteggiamento di fondo nelle scelte a livello politico, economico, scientifico, nei rapporti tra le persone, tra i popoli e i Paesi. Solo l’educazione alla fraternità, a una solidarietà concreta, può superare la “cultura dello scarto”, che non riguarda solo il cibo e i beni, ma prima di tutto le persone che vengono emarginate da sistemi tecno-economici dove al centro, senza accorgerci, spesso non c’è più l’uomo, ma i prodotti dell’uomo.

 

La solidarietà è una parola che tanti vogliono togliere dal dizionario. La solidarietà però non è un meccanismo automatico, non si può programmare o comandare: è una risposta libera che nasce dal cuore di ciascuno. Sì, una risposta libera! Se uno comprende che la sua vita, anche in mezzo a tante contraddizioni, è un dono, che l’amore è la sorgente e il senso della vita, come può trattenere il desiderio di fare del bene agli altri?

 

Per essere attivi nel bene ci vuole memoria, ci vuole coraggio e anche creatività. Mi hanno detto che a TED c’è riunita tanta gente molto creativa. Sì, l’amore chiede una risposta creativa, concreta, ingegnosa. Non bastano i buoni propositi e le formule di rito, che spesso servono solo a tranquillizzare le coscienze. Insieme, aiutiamoci a ricordare che gli altri non sono statistiche o numeri: l’altro ha un volto, il "tu" è sempre un volto concreto, un fratello di cui prendersi cura.

 

C’è una storia che Gesù ha raccontato per far comprendere la differenza tra chi non si scomoda e chi si prende cura dell’altro. Probabilmente ne avrete sentito parlare: è la parabola del Buon Samaritano. Quando hanno chiesto a Gesù chi è il mio prossimo – cioè: di chi devo prendermi cura? – Gesù ha raccontato questa storia, la storia di un uomo che i ladri avevano assalito, derubato, percosso e abbandonato lungo la strada. Due persone molto rispettabili del tempo, un sacerdote e un levita, lo videro, ma passarono oltre senza fermarsi. Poi arrivò un samaritano, che apparteneva a una etnia disprezzata, e questo samaritano, alla vista di quell’uomo ferito a terra, non passò oltre come gli altri, come se nulla fosse, ma ne ebbe compassione. Si commosse e questa compassione lo portò a compiere gesti molto concreti: versò olio e vino sulle ferite di quell’uomo, lo portò in un albergo e pagò di tasca sua per la sua assistenza.

 

La storia del Buon Samaritano è la storia dell’umanità di oggi. Sul cammino dei popoli ci sono ferite provocate dal fatto che al centro c’è il denaro, ci sono le cose, non le persone. E c’è l’abitudine spesso di chi si ritiene “per bene”, di non curarsi degli altri, lasciando tanti esseri umani, interi popoli, indietro, a terra per la strada. C’è però anche chi dà vita a un mondo nuovo, prendendosi cura degli altri, anche a proprie spese. Infatti – diceva Madre Teresa di Calcutta – non si può amare se non a proprie spese.

 

Abbiamo tanto da fare, e dobbiamo farlo insieme. Ma come fare, con il male che respiriamo? Grazie a Dio, nessun sistema può annullare l’apertura al bene, la compassione, la capacità di reagire al male che nascono dal cuore dell’uomo. Ora voi mi direte: “sì, sono belle parole, ma io non sono il Buon Samaritano e nemmeno Madre Teresa di Calcutta”. Invece ciascuno di noi è prezioso; ciascuno di noi è insostituibile agli occhi di Dio. Nella notte dei conflitti che stiamo attraversando, ognuno di noi può essere una candela accesa che ricorda che la luce prevale sulle tenebre, non il contrario.

 

Per noi cristiani il futuro ha un nome e questo nome è speranza. Avere speranza non significa essere ottimisti ingenui che ignorano il dramma del male dell’umanità. La speranza è la virtù di un cuore che non si chiude nel buio, non si ferma al passato, non vivacchia nel presente, ma sa vedere il domani. La speranza è la porta aperta sull’avvenire. La speranza è un seme di vita umile e nascosto, che però si trasforma col tempo in un grande albero; è come un lievito invisibile, che fa crescere tutta la pasta, che dà sapore a tutta la vita. E può fare tanto, perché basta una sola piccola luce che si alimenta di speranza, e il buio non sarà più completo. Basta un solo uomo perché ci sia speranza, e quell’uomo puoi essere tu. Poi c’è un altro “tu” e un altro “tu”, e allora diventiamo “noi”. E quando c’è il “noi”, comincia la speranza? No. Quella è incominciata con il “tu”. Quando c’è il noi, comincia una rivoluzione.

 

Il terzo e ultimo messaggio che vorrei condividere oggi riguarda proprio la rivoluzione: la rivoluzione della tenerezza. Che cos’è la tenerezza? È l’amore che si fa vicino e concreto. È un movimento che parte dal cuore e arriva agli occhi, alle orecchie, alle mani. La tenerezza è usare gli occhi per vedere l’altro, usare le orecchie per sentire l’altro, per ascoltare il grido dei piccoli, dei poveri, di chi teme il futuro; ascoltare anche il grido silenzioso della nostra casa comune, della terra contaminata e malata. La tenerezza significa usare le mani e il cuore per accarezzare l’altro. Per prendersi cura di lui.

 

La tenerezza è il linguaggio dei più piccoli, di chi ha bisogno dell’altro: un bambino si affeziona e conosce il papà e la mamma per le carezze, per lo sguardo, per la voce, per la tenerezza. A me piace sentire quando il papà o la mamma parlano al loro piccolo bambino, quando anche loro si fanno bambini, parlando come parla lui, il bambino. Questa è la tenerezza: abbassarsi al livello dell’altro. Anche Dio si è abbassato in Gesù per stare al nostro livello. Questa è la strada percorsa dal Buon Samaritano. Questa è la strada percorsa da Gesù, che si è abbassato, che ha attraversato tutta la vita dell’uomo con il linguaggio concreto dell’amore.

 

Sì, la tenerezza è la strada che hanno percorso gli uomini e le donne più coraggiosi e forti. Non è debolezza la tenerezza, è fortezza. È la strada della solidarietà, la strada dell’umiltà. Permettetemi di dirlo chiaramente: quanto più sei potente, quanto più le tue azioni hanno un impatto sulla gente, tanto più sei chiamato a essere umile. Perché altrimenti il potere ti rovina e tu rovinerai gli altri. In Argentina si diceva che il potere è come il gin preso a digiuno: ti fa girare la testa, ti fa ubriacare, ti fa perdere l’equilibrio e ti porta a fare del male a te stesso e agli altri, se non lo metti insieme all’umiltà e alla tenerezza. Con l’umiltà e l’amore concreto, invece, il potere – il più alto, il più forte – diventa servizio e diffonde il bene.

 

Il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei politici, dei grandi leader, delle grandi aziende. Sì, la loro responsabilità è enorme. Ma il futuro è soprattutto nelle mani delle persone che riconoscono l’altro come un “tu” e se stessi come parte di un “noi”.

 

Abbiamo bisogno gli uni degli altri. E perciò, per favore, ricordatevi anche di me con tenerezza, perché svolga il compito che mi è stato affidato per il bene degli altri, di tutti, di tutti voi, di tutti noi.

Grazie.



 

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Messaggio Cristiano
GIUBILEO DEI MOVIMENTI, DELLE ASSOCIAZIONI E DELLE NUOVE COMUNITÀ

OMELIA DEL SANTO PADRE LEONE XIV

Piazza San Pietro
Domenica, 8 giugno 2025

Fratelli e sorelle,

«È spuntato a noi gradito il giorno nel quale […] il Signore Gesù Cristo, glorificato con la sua ascesa al cielo dopo la risurrezione, inviò lo Spirito Santo» (S. Agostino, Discorso 271, 1). E anche oggi si ravviva ciò che accadde nel Cenacolo: come un vento impetuoso che ci scuote, come un fragore che ci risveglia, come un fuoco che ci illumina, discende su di noi il dono dello Spirito Santo (cfr At 2,1-11).

Come abbiamo ascoltato dalla prima Lettura, lo Spirito opera qualcosa di straordinario nella vita degli Apostoli. Essi, dopo la morte di Gesù, si erano rinchiusi nella paura e nella tristezza, ma ora ricevono finalmente uno sguardo nuovo e un’intelligenza del cuore che li aiuta a interpretare gli eventi accaduti e a fare l’intima esperienza della presenza del Risorto: lo Spirito Santo vince la loro paura, spezza le catene interiori, lenisce le ferite, li unge di forza e dona loro il coraggio di uscire incontro a tutti ad annunciare le opere di Dio.

Il brano degli Atti degli Apostoli ci dice che a Gerusalemme, in quel momento, c’era una moltitudine di svariate provenienze, eppure, «ciascuno li udiva parlare nella propria lingua» (v. 6). Ecco che, allora, a Pentecoste le porte del cenacolo si aprono perché lo Spirito apre le frontiere. Come afferma Benedetto XVI: «Lo Spirito Santo dona di comprendere. Supera la rottura iniziata a Babele – la confusione dei cuori, che ci mette gli uni contro gli altri – e apre le frontiere. […] La Chiesa deve sempre nuovamente divenire ciò che essa già è: deve aprire le frontiere fra i popoli e infrangere le barriere fra le classi e le razze. In essa non vi possono essere né dimenticati né disprezzati. Nella Chiesa vi sono soltanto liberi fratelli e sorelle di Gesù Cristo» (Omelia a Pentecoste, 15 maggio 2005).

Ecco un’immagine eloquente della Pentecoste sulla quale vorrei soffermarmi con voi a meditare.

Lo Spirito apre le frontiere anzitutto dentro di noi. È il Dono che dischiude la nostra vita all’amore. E questa presenza del Signore scioglie le nostre durezze, le nostre chiusure, gli egoismi, le paure che ci bloccano, i narcisismi che ci fanno ruotare solo intorno a noi stessi. Lo Spirito Santo viene a sfidare, in noi, il rischio di una vita che si atrofizza, risucchiata dall’individualismo. È triste osservare come in un mondo dove si moltiplicano le occasioni di socializzare, rischiamo di essere paradossalmente più soli, sempre connessi eppure incapaci di “fare rete”, sempre immersi nella folla restando però viaggiatori spaesati e solitari.

E invece lo Spirito di Dio ci fa scoprire un nuovo modo di vedere e vivere la vita: ci apre all’incontro con noi stessi oltre le maschere che indossiamo; ci conduce all’incontro con il Signore educandoci a fare esperienza della sua gioia; ci convince – secondo le stesse parole di Gesù appena proclamate – che solo se rimaniamo nell’amore riceviamo anche la forza di osservare la sua Parola e quindi di esserne trasformati. Apre le frontiere dentro di noi, perché la nostra vita diventi uno spazio ospitale.

Lo Spirito, inoltre, apre le frontiere anche nelle nostre relazioni. Infatti, Gesù dice che questo Dono è l’amore tra Lui e il Padre che viene a prendere dimora in noi. E quando l’amore di Dio abita in noi, diventiamo capaci di aprirci ai fratelli, di vincere le nostre rigidità, di superare la paura nei confronti di chi è diverso, di educare le passioni che si agitano dentro di noi. Ma lo Spirito trasforma anche quei pericoli più nascosti che inquinano le nostre relazioni, come i fraintendimenti, i pregiudizi, le strumentalizzazioni. Penso anche – con molto dolore – a quando una relazione viene infestata dalla volontà di dominare sull’altro, un atteggiamento che spesso sfocia nella violenza, come purtroppo dimostrano i numerosi e recenti casi di femminicidio.

Lo Spirito Santo, invece, fa maturare in noi i frutti che ci aiutano a vivere relazioni vere e buone: «Amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22). In questo modo, lo Spirito allarga le frontiere dei nostri rapporti con gli altri e ci apre alla gioia della fraternità. E questo è un criterio decisivo anche per la Chiesa: siamo davvero la Chiesa del Risorto e i discepoli della Pentecoste soltanto se tra di noi non ci sono né frontiere e né divisioni, se nella Chiesa sappiamo dialogare e accoglierci reciprocamente integrando le nostre diversità, se come Chiesa diventiamo uno spazio accogliente e ospitale verso tutti.

Infine, lo Spirito apre le frontiere anche tra i popoli. A Pentecoste gli Apostoli parlano le lingue di coloro che incontrano e il caos di Babele viene finalmente pacificato dall’armonia generata dallo Spirito. Le differenze, quando il Soffio divino unisce i nostri cuori e ci fa vedere nell’altro il volto di un fratello, non diventano occasione di divisione e di conflitto, ma un patrimonio comune da cui tutti possiamo attingere, e che ci mette tutti in cammino, insieme, nella fraternità.

Lo Spirito infrange le frontiere e abbatte i muri dell’indifferenza e dell’odio, perché “ci insegna ogni cosa” e ci “ricorda le parole di Gesù” (cfr Gv 14,26); e, perciò, per prima cosa insegna, ricorda e incide nei nostri cuori il comandamento dell’amore, che il Signore ha posto al centro e al culmine di tutto. E dove c’è l’amore non c’è spazio per i pregiudizi, per le distanze di sicurezza che ci allontanano dal prossimo, per la logica dell’esclusione che vediamo emergere purtroppo anche nei nazionalismi politici.

Proprio celebrando la Pentecoste, Papa Francesco osservava che «oggi nel mondo c’è tanta discordia, tanta divisione. Siamo tutti collegati eppure ci troviamo scollegati tra di noi, anestetizzati dall’indifferenza e oppressi dalla solitudine» (Omelia, 28 maggio 2023). E di tutto questo sono tragico segno le guerre che agitano il nostro pianeta. Invochiamo lo Spirito dell’amore e della pace, perché apra le frontiere, abbatta i muri, dissolva l’odio e ci aiuti a vivere da figli dell’unico Padre che è nei cieli.

Fratelli e sorelle, è la Pentecoste che rinnova la Chiesa, rinnova il mondo! Il vento gagliardo dello Spirito venga su di noi e in noi, apra le frontiere del cuore, ci doni la grazia dell’incontro con Dio, allarghi gli orizzonti dell’amore e sostenga i nostri sforzi per la costruzione di un mondo in cui regni la pace.

Maria Santissima, Donna della Pentecoste, Vergine visitata dallo Spirito, Madre piena di grazia, ci accompagni e interceda per noi.

LEONE XIV