Venerdì 26 Aprile 2024
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I Cappuccini


Fra Stefano Luca

Un giovane attore, che frequenta la prestigiosa "Accademia dei filodrammatici di Milano", incontra Gesù, si mette in ascolto e la sua vita si trasfigura.

 

 

        Chiamatemi Fratello
 
 

«Al primo anno di Accademia, racconta fra Stefano Luca, partecipo a un ritiro in montagna, in preparazione al Natale. Nella mia mente un unico pensiero: che cosa fare nell'immediato futuro? Avevo ricevuto buone proposte di lavoro e vorrei capire se finire l'Accademia, oppure iniziare a lavorare a tempo pieno.

 

E poi mi capita di fare un’adorazione eucaristica notturna.
Non so neanche che cosa sia e mi ritrovo in ginocchio di fronte a Gesù Eucaristia.
Quel momento è un disastro, scoppio a piangere: tutto è cambiato! Tutto quello che desideravo prima non ha più senso per me: non è più importante il palcoscenico, recitare…
Più niente ha valore. Mi interessa solo Gesù!


Ne parlo con un frate e mi suggerisce di portare a termine assolutamente l’Accademia, col massimo impegno.
E intanto comincio un cammino di discernimento vocazionale aperto al matrimonio, alla vita religiosa, a una buona vocazione al lavoro.

Diplomato in Accademia, il primo ottobre 2007 entro in convento dai frati cappuccini».

 

La vita trasfigurata di fra Stefano da quel momento si apre, con tutte le sue potenzialità artistiche, al servizio degli scartati del mondo. Propone laboratori di teatro sociale in Italia, Albania, Camerun, Libia e Repubblica Democratica del Congo.

 

«Uso il teatro come strumento per prendermi cura della persona. Lavorare con il proprio corpo, dice, apre nuovi mondi, apre nuove strade.

 

In Camerun, all’interno del carcere di Bamenda, dove i detenuti vivono in una condizione disumana, cerco di ridare dignità e speranza ai giovani attraverso un percorso teatrale-terapeutico e i ragazzi apprezzano molto questo laboratorio di attività col corpo.
Pian piano imparano a fidarsi e, dopo tre mesi e mezzo di lavoro insieme, matura tra loro un certo equilibrio di rapporti.

 

È il miracolo del teatro che rigenera e trasforma in una metamorfosi di corpo e anima, dando speranza di potersi rialzare, di diventare uomini.

Attirato dall’idea di un laboratorio per “ex bambini soldato”, vado a Goma in Congo.

 

I bambini mi guardano strano, anche perché non hanno mai visto un frate.
All’inizio, continuano a rivolgersi a me chiamandomi “bianco”. Allora dico: “Chiamatemi fratello, solo così mi volterò verso chi mi ha chiamato!”

 

Accettano subito. Ma la cosa simpatica è che i bambini, arrivati qualche giorno dopo perché appena strappati dalle milizie, non conoscendo questa richiesta di chiamarmi “fratello”, mi chiamano “mzungu” (uomo bianco), ma vengono immediatamente rintuzzati dagli altri: “Hapana, mzungu, kaka!” (“non dire uomo bianco, ma fratello”).

 

I ragazzi sono stupendi: mi donano la vita e soprattutto mi donano Gesù. In loro posso toccarlo con mano».



 

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Messaggio Cristiano
Udienza Generale, 17 Aprile 2024

Catechesi. I vizi e le virtù. 15. La temperanza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi parlerò della quarta e ultima virtù cardinale: la temperanza. Con le altre tre, questa virtù condivide una storia che risale molto indietro nel tempo e che non appartiene ai soli cristiani. Per i greci la pratica delle virtù aveva come obbiettivo la felicità. Il filosofo Aristotele scrive il suo più importante trattato di etica indirizzandolo al figlio Nicomaco, per istruirlo nell’arte del vivere. Perché tutti cerchiamo la felicità eppure così pochi la raggiungono? Questa è la domanda. Per rispondere ad essa Aristotele affronta il tema delle virtù, tra le quali ha uno spazio di rilievo la enkráteia, cioè la temperanza. Il termine greco significa letteralmente “potere su sé stessi”. La temperanza è un potere su sé stessi. Questa virtù è dunque la capacità di autodominio, l’arte di non farsi travolgere da passioni ribelli, di mettere ordine in quello che il Manzoni chiama il “guazzabuglio del cuore umano”.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci dice che «la temperanza è la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati». «Essa – prosegue il Catechismo – assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore» (n. 1809).

Dunque, la temperanza, come dice la parola italiana, è la virtù della giusta misura. In ogni situazione, si comporta con saggezza, perché le persone che agiscono mosse sempre dall’impeto o dall’esuberanza alla fine sono inaffidabili. Le persone senza temperanza sono sempre inaffidabili. In un mondo dove tanta gente si vanta di dire quello che pensa, la persona temperante preferisce invece pensare quello che dice. Capite la differenza? Non dire quello che mi viene in mente, così… No, pensare a quello che devo dire. Non fa promesse a vanvera, ma assume impegni nella misura in cui li può soddisfare.

Anche con i piaceri, la persona temperante agisce con giudizio. Il libero corso delle pulsioni e la totale licenza accordata ai piaceri, finiscono per ritorcersi contro noi stessi, facendoci precipitare in uno stato di noia. Quanta gente che ha voluto provare tutto con voracità si è ritrovata a perdere il gusto di ogni cosa! Meglio allora cercare la giusta misura: ad esempio, per apprezzare un buon vino, assaporarlo a piccoli sorsi è meglio che ingurgitarlo tutto d’un fiato. Tutti sappiamo questo.

La persona temperante sa pesare e dosare bene le parole. Pensa a quello che dice. Non permette che un momento di rabbia rovini relazioni e amicizie che poi solo con fatica potranno essere ricostruite. Specialmente nella vita famigliare, dove le inibizioni si abbassano, tutti corriamo il rischio di non tenere a freno tensioni, irritazioni, arrabbiature. C’è un tempo per parlare e un tempo per tacere, ma entrambi richiedono la giusta misura. E questo vale per tante cose, ad esempio lo stare con gli altri e lo stare da soli.

Se la persona temperante sa controllare la propria irascibilità, non per questo la vedremo perennemente con il volto pacifico e sorridente. Infatti, qualche volta è necessario indignarsi, ma sempre nella giusta maniera. Queste sono le parole: la giusta misura, la giusta maniera. Una parola di rimprovero a volte è più salutare rispetto a un silenzio acido e rancoroso. Il temperante sa che nulla è più scomodo del correggere un altro, ma sa anche che è necessario: altrimenti si offrirebbe libero campo al male. In certi casi, il temperante riesce a tenere insieme gli estremi: afferma i principi assoluti, rivendica i valori non negoziabili, ma sa anche comprendere le persone e dimostra empatia per esse. Dimostra empatia.

Il dono del temperante è dunque l’equilibrio, qualità tanto preziosa quanto rara. Tutto, infatti, nel nostro mondo spinge all’eccesso. Invece la temperanza si sposa bene con atteggiamenti evangelici quali la piccolezza, la discrezione, il nascondimento, la mitezza. Chi è temperante apprezza la stima degli altri, ma non ne fa l’unico criterio di ogni azione e di ogni parola. È sensibile, sa piangere e non se ne vergogna, ma non si piange addosso. Sconfitto, si rialza; vincitore, è capace di tornare alla vita nascosta di sempre. Non cerca gli applausi, ma sa di avere bisogno degli altri.

Fratelli e sorelle, non è vero che la temperanza rende grigi e privi di gioie. Anzi, fa gustare meglio i beni della vita: lo stare insieme a tavola, la tenerezza di certe amicizie, la confidenza con le persone sagge, lo stupore per le bellezze del creato. La felicità con la temperanza è letizia che fiorisce nel cuore di chi riconosce e dà valore a ciò che più conta nella vita. Preghiamo il Signore perché ci dia questo dono: il dono della maturità, della maturità dell’età, della maturità affettiva, della maturità sociale. Il dono della temperanza.

Papa Francesco