Venerdì 26 Aprile 2024
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Letture e meditazioni


Da "un profano"

Riflessione su Gesù Abbandonato

“…Venerdì Santo. Un solo nome: Gesù abbandonato.

Ho scritto un libro su di Lui in questi giorni intitolato: "Il grido". L'ho dedicato a Lui con l'intenzione di scriverlo anche a nome vostro, a nome di tutta l'Opera di Maria "Come - questa è la dedica - una lettera d'amore a Gesù abbandonato".
In esso si parla di Lui che, nell'unica vita data a noi da Dio, un giorno, un preciso giorno, diverso per ciascuno di noi, ci ha chiamati a seguirlo, a donarci a Lui.

E si capisce - lo dichiaro lì - come tutto ciò che voglio dire in quelle pagine, non può essere un tema, pur familiare, caldo, intimo, sentito; ma vuol essere un canto, un inno di gioia e soprattutto di gratitudine verso di Lui.

Aveva dato tutto: una vita accanto a Maria nei disagi e nell'obbedienza. Tre anni di predicazione, tre ore di croce, dalla quale dà il perdono ai carnefici, apre il Paradiso al ladrone, dona a noi la Madre. Gli rimaneva la divinità.

La sua unione col Padre, la dolcissima e ineffabile unione con Lui, che l'aveva fatto tanto potente in terra, quale figlio di Dio, e tanto regale in croce, questo sentimento della presenza di Dio doveva scendere nel fondo della sua anima, non farsi più sentire, disunirlo in qualche modo da Colui col quale Egli aveva detto di essere uno, e grida: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Mt 27,46)…”.

                                                                                                                     

                                                                

Gesù, che in croce si sente abbandonato non solo dagli uomini ma anche dal Padre suo celeste, è un abissale mistero cui accenna il racconto dei Vangeli di Marco e Matteo, realtà così inaudita che la cristianità per secoli ha preferito concentrare la sua attenzione su altri aspetti della passione. Eppure è questa la domanda che Chiara Lubich alla fine del secondo millennio si è sentita un giorno interiormente rivolgere: “Ho aspettato venti secoli per rivelarmi a te. Se tu non mi ami, chi mi amerà?”. Sin dagli inizi della sua avventura spirituale, la Lubich aveva, infatti, chiesto al Crocifisso: “Dammi la passione della tua passione!". E proprio nel grido di Gesù in Croce ella ha progressivamente scoperto l’amore più grande, la chiave dell’unità, il volto di Dio che più parla all’umanità di oggi. 

 

20 luglio 1949

 

Gesù è Gesù Abbandonato. Gesù Abbandonato è Gesù. In ogni anima trovo Gesù. Se è nella perfetta unità con Dio è Gesù intero. Se non lo è, sarà il 30% Gesù ed il 70% Gesù Abbandonato o … in altre proporzioni. Se è in peccato mortale è 100% Gesù Abbandonato ed il cielo fa festa quando una di queste anime torna, perché nelle tenebre di quell’anima è nato un altro cielo. I 99 cieli dei giusti già c’erano".

 

24 luglio 1949

 

“Chi è nel Padre, venuto da una lunga trafila di peccati, per pura misericordia di Dio, è di fronte a un Dio uguale all’innocente che v’è arrivato a furia d’amore.

Infatti, quell’attimo in cui, riconoscendosi peccatore, godette (amando Dio più della sua anima e questo è puro amore) d’esser simile a Lui fatto peccato, riempì tutto il vuoto fatto dal peccato. Così è arrivato in Paradiso per pura misericordia di Dio, quindi avendo tutto avuto gratuitamente, ma nello stesso tempo per puro amore di Dio pronunciato liberamente dal suo cuore.

Infatti, Lassù Misericordia e Amore sono Uno. In Paradiso non si vedrà da che parte venne Cristo in noi, se per la Misericordia o per l’Amore, ma si vedrà che ogni anima è tutta Misericordia e tutto Amore: è Gesù.

Infatti, Misericordia è Gesù Abbandonato. Amore è Gesù. Ma Gesù Abbandonato è Gesù. Guarda perciò l’uomo come Dio lo vedrà e non come lo vedi tu. Ché il vero lo vede Lui”.

 

Chiara Lubich
 

 

1. Ho riflettuto a lungo sul brano tratto dal libro GESU’ ABBANDONATO di Chiara Lubich. Le frasi in causa, non avendole mai lette prima, mi sembrano “gocce d’oro della Misericordia di Dio per ogni uomo che viene in questo mondo” . Ho capito bene perché nei “primi tempi” Gesù Abbandonato era tenuto come un segreto … “bisbigliato a bassa voce”. Ora se ne parla dappertutto. Io sento tanto il bisogno di prenderlo sul serio, così come Chiara lo ha capito. Sarebbe come una vera e propria “teoria copernicana”, che cambia completamente il valore del bene e del male. Come sorpresa, sarebbe anche la vera manifestazione del nostro Dio RICCO in MISERICORDIA, per dare così più significato ai nostri limiti e peccati e sentirci tutti, o quasi tutti, dei veri  POVERI TIPI, tanto bisognosi di misericordia sia da parte di Dio che degli uomini!

 

2. Veramente quel grido di lassù dalla Croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi ha abbandonato?” suona così strano, specialmente dalle labbra tumefatte di Gesù, Figlio di Dio stesso, Uno e Trino! E poi con tanto di interrogativo! Poco prima alla domanda di Erode se era Dio, Gesù lo aveva confermato … ed ora, gridando da disperato lo chiama, lo ripete due volte: “Mio Dio …?”. Da semplice “profano” mi rivolgo a lui per chiedergli: “Perché, Gesù, gridi in quella maniera, e con quelle parole così sibilline, che da “Padre mio” sono diventate Dio mio”? Da familiare sei diventato suddito? O sei il primo o il secondo: non puoi essere tutti e due nello stesso tempo! Salvo che ci sia nascosto qualcosa di misterioso … da lasciar percepire a chi lo cerca! Sì sì, sotto sotto mi sembra di intravedere che sei Dio dal cuore grande e misericordioso! Hai gridato il tuo “ Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” a nome nostro, dopo aver accettato su di te ogni nostro peccato, che sempre è frutto di egoismo accanito! Tu, tutto dono e noi un insieme di gretto egoismo! Nel tuo grande amore ti sei fatto disperato, per prendere su di te ogni nostra disperazione.

 

3.  Un Dio che grida da disperato! E’ troppo misterioso e grande lo scontro tra queste due realtà : un diverbio da capogiro! In passato Gesù aveva affermato: “Dio è mio Padre” e lo ha detto davanti a tutti, con sicurezza e serenità; sulla croce urla da suddito: “Dio mio, Dio mio …”, in modo ripetitivo con insistenza, da disperato! Tra i due momenti c’è un’enorme distanza: un punto interrogativo da chiarire. E’ la stessa persona che parla o sono due persone differenti in tempi differenti?

A me sembra di capire che è la stessa Persona che parla, ma in situazioni differenti. La prime parole sono di un Figlio al Padre, ma “il Figlio di Dio si è fatto uomo… per fare anche noi figli di Dio di ”. Ecco la differenza. Gesù fattosi Uomo, pur essendo Dio, ha pagato caro il nostro debito di peccati, con la sua Passione, Morte e Risurrezione. Così facendo, si è messo dalla nostra parte e noi, assieme a Lui, “siamo alla pari” di Dio, Uno e Trino! Con il Grido “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Gesù era sicuro di ottenere tutto quello che aveva richiesto!

 

4.  In Dio, Gesù che si fa “barbone e disperato” dell’Umanità per supplicare l’elemosina di un aiuto, non è solo ma ha con Sé immancabilmente e immediatamente anche gli altri due “contagiati” e interessati, il Padre e lo Spirito. Perciò il Grido dell’Abbandono non è solo suo di Gesù (del Figlio) ma anche degli altri Due, che con Lui formano la Trinità. Per me  -  da profano  -  ha un bel coraggio il Figlio che si abbassa e si fa “barbone, disperato e povero tipo, per portarmi immediatamente a far parte della Famiglia di Dio. Grazie a quel GRIDO, non avrei mai immaginato di essere tanto prezioso e importante!

 

5.  La Passione di Gesù è durata un lungo e brutto giorno. Tenuto conto di come ha passato il tempo nell’orto degli ulivi, dopo Gesù ha subito ben tre giudizi: un primo da Ponzio Pilato, uno breve da Erode e un terzo e definitivo ancora da Pilato, a cui è seguita la flagellazione, la coronazione di spine e il viaggio carico della Croce fino al Calvario  (c’è da notare che i soldati romani non erano tanto “delicati” con i condannati a morte …). Dopo tutto ciò, Gesù era ridotto ad un vero e povero uomo distrutto …  tanto da cadere a terra per tre volte. Ora il Messaggio Evangelico afferma che Gesù sulla Croce “ha gridato”: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Avere ancora in sé la forza di “gridare”: ecco il primo mistero! Il Vangelo dice anche che Gesù ha gridato in lingua aramaica: “Eloi, Eloi, lama sabachthani”. Era questa la lingua usuale della gente; e se i vicini intendevano l’ebraico, la gente numerosa, ma distante conosceva solo l’aramaico …. Di conseguenza il GRIDO è stato “urlato” espressamente in aramaico … anche per noi, che da quel terribile supplizio sulla Croce siamo distanti ben duemila anni!

 

6. Sempre come un profano e solo sulla mia lunga esperienza cristiana, mi sembra di aver capito che Gesù, nei tre anni di vita pubblica, periodicamente andava al tempio di Gerusalemme partendo dalla Galilea, la “Galilea delle Genti = dei Pagani”. Leggendo il Vangelo si capisce che Gesù era attratto da Gerusalemme e solo all’ultimo è diventato chiaro che la sua attrazione consisteva nell’andare incontro alla Morte … affrontando i Farisei e i Sommi Sacerdoti. Alla fine si potrebbe dire che la Morte in Croce … l’ha desiderata! Più ancora di manifestare la sua capacità di fare miracoli, gli interessava  manifestare a tutta l’umanità che la sua Morte e Risurrezione sarebbe stata la garanzia per liberarci dalla Morte Eterna dovuta al Peccato Mortale, proprio “come il chicco di grano che se non muore non porta frutto”. Nei suoi tre anni di vita pubblica con il suo essere e il suo parlare ha insegnato che anche noi, col nostro “essere” e il nostro “parlare” da battezzati, possiamo darGli Testimonianza.

Con il suo GRIDO: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, Gesù morendo ci ha passato la sua Vita. Così ognuno può goderne ed essere Lui, ogni  qualvolta nelle/difficoltà e tentazioni gridiamo a nome suo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.

 

7.  In occasione del Giubileo della Misericordia, Papa Francesco ha commentato splendidamente la parabola del Buon Pastore, che Gesù ha annunciato nel suo Vangelo.

Il Buon Pastore aveva cento pecore e le conosceva ad una ad una, anzi si conoscevano reciprocamente. Per tanto tempo tutto procede in perfetto ordine, finché una di loro (la centesima) si perde tra i rovi o caduta in un burrone … Il Pastore subito decide di lasciare nell’ovile le altre 99 e parte alla ricerca della pecora smarrita. Dopo averla trovata e tolta dal pericolo, presa sulle sue spalle, fa ritorno all’ovile per rimetterla assieme alle altre 99. Non solo, ma vuole festeggiare con gli amici il ritrovamento della pecora perduta e ritrovata … Il pastore si stanca, andando a cercarla tra dirupi e valli, rischiando pure che le 99 rimaste nell’ovile corrano un grave pericolo …

Questa parabola, analizzandola bene, ci dimostra che Gesù, Uomo e Dio, sa prendere sul serio e amare fino all’estremo ognuno di noi, suoi figli e redenti … Col suo GRIDO, Egli vuole farci intendere che è bene a conoscenza di ogni “grido”, che noi gli rivolgiamo nel momento del dolore, a causa delle sofferenze spirituali e corporali.

Papa Francesco varie volte ci ha detto che Dio Padre non solo accetta che lo “importuniamo” con insistenti richieste, anzi gli facciamo piacere! Semplicemente Gesù ha gridato sulla Croce, perché è Dio, Uno e Trino: un GRIDO piacevole ed “attraente” il suo!

 

8. Con il grido: “Dio mio, Dio mio …” Gesù ci ha amati da Dio! anche se “esteriormente” appariva come il “figlio del carpentiere”. Di conseguenza devo prendere e fare mio il Suo GRIDO, semplicemente perché Lui ha fatto suo il mio grido, piccolo o grande, che continuamente gli rivolgo. Di “urla” ce ne sono di tutte le qualità e le dimensioni, sia di anima che di corpo. Certune sono abbastanza sopportabili, altre meno; sicuramente Gesù sulla Croce, avendo su di sé i mali/peccati, sofferenze di tutta l’umanità, il cui peso era proprio insopportabile, ha GRIDATO al Padre a nome nostro. Con questo voleva anche far sentire, a tutta la gente che lo poteva sentire, che era vivo e che i nostri mali (grida) gli erano arrivati.

 

Ho inteso che Chiara indica per sé e per  qualsiasi anima, che si sente chiamata e vuole “vivere” totalmente e sinceramente per Gesù Abbandonato, quattro parole/verbi per  innamorarsi di Lui: riconoscere, accogliere, abbracciare e fare festa per ogni situazione di squilibrio  -  morale e corporale  -  che incontriamo nel quotidiano.

 

CHIARA Lubich insegna come chiamare per nome Gesù Abbandonato (6 settembre 1949)

 

E’ bello vivere Gesù Abbandonato nell’attimo presente e chiamarLo per nome. Ho osservato che Gesù Abbandonato è tutto : è tutti i dolori -  è tutti gli amori  -  è tutte le virtù  -  è tutti i peccati ( s’è fatto “peccato”)  -   s’è fatto, per amore, tutti i peccati -  è tutte le realtà.

Ad esempio: Gesù Abbandonato è il muto, il sordo, il cieco, l’affamato, lo stanco, il disperato, il tradito, il fallito, il pauroso, l’assetato, il timido, il pazzo e tutti i vizi! La tenebra, la malinconia … E’ l’ardimento, l’Amore, la Vita, la Luce, la Pace, il Gaudio, l’Unità, la Sapienza, lo Spirito Santo, la Madre, il Padre, il Fratello, lo Sposo, il Tutto, il Nulla; l’affetto, l’effetto, l’abbaglio, il sonno, la veglia, ecc. ecc. E’ tutte le cose più opposte: principio e fine, l’infinitamente grande e piccolo. E si osserva che non è mai eguale.

 

9.      La Lubich in un suo scritto descrive quello che si deve fare quando ci si trova improvvisamente di fronte ad un “volto del Crocifisso” che grida. Si tratta semplicemente di chiamarlo per nome … per farGli capire che siamo pronti ad accoglierLo così com’è, come si presenta, sotto i nomi più diversi: disperato, illuso, squilibrato, sofferente, angosciato, in piena solitudine …  Insomma, quando la sofferenza di qualsiasi genere arriva, è sempre un incontro con Gesù nel suo Supremo Sacrificio. E’ lì, nel suo GRIDO, che Gesù è veramente Dio; e noi accettandoLo così, diventiamo Lui.

Nell’Incontro Finale, quasi a nostra insaputa, Egli ci ringrazierà per quella visita inattesa … E’ con il GRIDO che Gesù ha pagato l’UT OMNES e che noi la otteniamo. In quel suo GRIDO, facendo un “CIAK”, siamo Lui e di sicuro non lo dimenticherà, perché è attraverso tali incontri che l’UT OMNES diventa realtà!

 

Per concludere questa serie di “Pensieri” sul GRIDO di Gesù in Croce, riporto un brano che proprio ieri (Domenica 15 Gennaio) ho trovato in internet, nel “blog di fabiociardi”, che ringrazio sentitamente. Mi sembra il giusto compimento del tema trattato.

 

CALICI VUOTI SI FANNO TABERNACOLO - La parrocchia non ce l’ho, ma ogni tanto mi capita di parlare a dei “parrocchiani”, come ieri. Ne avevo davanti quasi un migliaio. Ed è per me sempre una gioia indicibile.

Questa volta ho parlato di quel “patto d’unità” che ogni giorno, dopo la comunione, chiediamo a Gesù Eucaristia di compiere “sul nulla di noi”, in modo che di tanti faccia l’uno.

Ma cos’è questo “nulla di noi”, premessa necessaria per questa nuova pienezza?

Il “nulla”, nella tradizione cristiana, richiama abitualmente alcuni concetti:

- Il nulla esistenziale, creaturale, sperimentato già nell’Antico Testamento, che faceva dire: gli uomini «sono come un soffio [si potrebbe tradurre anche: un niente] che va e non ritorna» (Sal 78, 36); sono come fiore del campo, come erba che si secca e fiore che appassisce (cf. Is 40, 6-7). È l’esperienza costantemente rinnovata lungo il cammino dell’umanità, che faceva dire, ad esempio, all’autore dell’Imitazione di Cristo: “Signore, ricordati di me, che sono un nulla, nulla ho e nulla valgo”.

- Il nulla tragico del peccato, frutto dell’allontanamento dalla fonte dell’essere e della vita. Parlando di quanti sono piombati in questo nulla, la seconda lettera di Pietro li paragona a «fonti senz’acqua», a «nuvole spinte dal vento: a loro è riservata l’oscurità delle tenebre» (2, 17).

- Il nulla ascetico, inteso come progressivo distacco da ogni creatura, sensibile o spirituale. San Giovanni della Croce mette in un rapporto inversamente proporzionale l’annullamento di sé con l’unione con Dio: «Per giungere al possesso del tutto, / non voler possedere niente. /Per giungere ad essere tutto, / non voler essere niente. (...) Per giungere al tutto, / devi totalmente rinnegarti in tutto».

 

Il “nulla di noi” del patto d’unità è un po’ diverso, è frutto di un amore reciproco che si fa dono totale. Se dai tutto rimane spazio solo per l’altro, solo per Dio: un vuoto che attira pienezza e restituisce sé a se stessi, ma nel sé più vero e profondo: Gesù, la vera identità del sé.

Gesù, nel suo abbandono sulla croce, ne è il modello compiuto: ha dato tutto fino a scomparire, con in sé la pienezza dell’intera creazione.

Ce l’ha spiegato tante volta la nostra Chiara: “Per accogliere in sé il Tutto bisogna essere il nulla come Gesù Abbandonato. E sul nulla tutti possono scrivere... Bisogna mettersi di fronte a tutti in posizione d’imparare, ché si ha da imparare realmente. E solo il nulla raccoglie tutto in sé e stringe a sé ogni cosa in unità: bisogna essere nulla (Gesù Abbandonato) di fronte ad ogni fratello per stringere a sé in lui Gesù”.

Siamo davanti all’altro (Dio o il fratello) come un foglio bianco, sul quale l’altro può scrivere…

Nella reciprocità dell’amore – del dono – siamo come “calici vuoti”, subito riempiti da Gesù Eucaristia: da calice vuoto diventiamo un tabernacolo che contiene la presenza di Gesù, diventiamo Chiesa!

È così – vivendo “fuori di sé”, nel dono, nell’amore – si entra nel paradiso di Dio, come in quello del fratello.



 

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Messaggio Cristiano
Udienza Generale, 17 Aprile 2024

Catechesi. I vizi e le virtù. 15. La temperanza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi parlerò della quarta e ultima virtù cardinale: la temperanza. Con le altre tre, questa virtù condivide una storia che risale molto indietro nel tempo e che non appartiene ai soli cristiani. Per i greci la pratica delle virtù aveva come obbiettivo la felicità. Il filosofo Aristotele scrive il suo più importante trattato di etica indirizzandolo al figlio Nicomaco, per istruirlo nell’arte del vivere. Perché tutti cerchiamo la felicità eppure così pochi la raggiungono? Questa è la domanda. Per rispondere ad essa Aristotele affronta il tema delle virtù, tra le quali ha uno spazio di rilievo la enkráteia, cioè la temperanza. Il termine greco significa letteralmente “potere su sé stessi”. La temperanza è un potere su sé stessi. Questa virtù è dunque la capacità di autodominio, l’arte di non farsi travolgere da passioni ribelli, di mettere ordine in quello che il Manzoni chiama il “guazzabuglio del cuore umano”.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci dice che «la temperanza è la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati». «Essa – prosegue il Catechismo – assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore» (n. 1809).

Dunque, la temperanza, come dice la parola italiana, è la virtù della giusta misura. In ogni situazione, si comporta con saggezza, perché le persone che agiscono mosse sempre dall’impeto o dall’esuberanza alla fine sono inaffidabili. Le persone senza temperanza sono sempre inaffidabili. In un mondo dove tanta gente si vanta di dire quello che pensa, la persona temperante preferisce invece pensare quello che dice. Capite la differenza? Non dire quello che mi viene in mente, così… No, pensare a quello che devo dire. Non fa promesse a vanvera, ma assume impegni nella misura in cui li può soddisfare.

Anche con i piaceri, la persona temperante agisce con giudizio. Il libero corso delle pulsioni e la totale licenza accordata ai piaceri, finiscono per ritorcersi contro noi stessi, facendoci precipitare in uno stato di noia. Quanta gente che ha voluto provare tutto con voracità si è ritrovata a perdere il gusto di ogni cosa! Meglio allora cercare la giusta misura: ad esempio, per apprezzare un buon vino, assaporarlo a piccoli sorsi è meglio che ingurgitarlo tutto d’un fiato. Tutti sappiamo questo.

La persona temperante sa pesare e dosare bene le parole. Pensa a quello che dice. Non permette che un momento di rabbia rovini relazioni e amicizie che poi solo con fatica potranno essere ricostruite. Specialmente nella vita famigliare, dove le inibizioni si abbassano, tutti corriamo il rischio di non tenere a freno tensioni, irritazioni, arrabbiature. C’è un tempo per parlare e un tempo per tacere, ma entrambi richiedono la giusta misura. E questo vale per tante cose, ad esempio lo stare con gli altri e lo stare da soli.

Se la persona temperante sa controllare la propria irascibilità, non per questo la vedremo perennemente con il volto pacifico e sorridente. Infatti, qualche volta è necessario indignarsi, ma sempre nella giusta maniera. Queste sono le parole: la giusta misura, la giusta maniera. Una parola di rimprovero a volte è più salutare rispetto a un silenzio acido e rancoroso. Il temperante sa che nulla è più scomodo del correggere un altro, ma sa anche che è necessario: altrimenti si offrirebbe libero campo al male. In certi casi, il temperante riesce a tenere insieme gli estremi: afferma i principi assoluti, rivendica i valori non negoziabili, ma sa anche comprendere le persone e dimostra empatia per esse. Dimostra empatia.

Il dono del temperante è dunque l’equilibrio, qualità tanto preziosa quanto rara. Tutto, infatti, nel nostro mondo spinge all’eccesso. Invece la temperanza si sposa bene con atteggiamenti evangelici quali la piccolezza, la discrezione, il nascondimento, la mitezza. Chi è temperante apprezza la stima degli altri, ma non ne fa l’unico criterio di ogni azione e di ogni parola. È sensibile, sa piangere e non se ne vergogna, ma non si piange addosso. Sconfitto, si rialza; vincitore, è capace di tornare alla vita nascosta di sempre. Non cerca gli applausi, ma sa di avere bisogno degli altri.

Fratelli e sorelle, non è vero che la temperanza rende grigi e privi di gioie. Anzi, fa gustare meglio i beni della vita: lo stare insieme a tavola, la tenerezza di certe amicizie, la confidenza con le persone sagge, lo stupore per le bellezze del creato. La felicità con la temperanza è letizia che fiorisce nel cuore di chi riconosce e dà valore a ciò che più conta nella vita. Preghiamo il Signore perché ci dia questo dono: il dono della maturità, della maturità dell’età, della maturità affettiva, della maturità sociale. Il dono della temperanza.

Papa Francesco