I Cappuccini


DISCORSO DEL SANTO PADRE NELLA BASILICA DI SANTA MARIA DEGLI ANGELI

14 Novembre 2021 - Giornata dei poveri

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

 

Vi ringrazio per avere accolto il mio invito – io sono stato l’invitato! – a celebrare qui ad Assisi, la città di San Francesco, la quinta Giornata Mondiale dei Poveri, che ricorre dopodomani. È un’idea che è nata da voi, è cresciuta e siamo arrivati già alla quinta. Assisi non è una città come le altre: Assisi porta impresso il volto di San Francesco. Pensare che tra queste strade lui ha vissuto la sua giovinezza inquieta, ha ricevuto la chiamata a vivere il Vangelo alla lettera, è per noi una lezione fondamentale. Certo, per alcuni versi la sua santità ci fa rabbrividire, perché sembra impossibile poterlo imitare. Ma poi, nel momento in cui ricordiamo alcuni momenti della sua vita, quei “fioretti” che sono stati raccolti per mostrare la bellezza della sua vocazione, ci sentiamo attratti da questa semplicità di cuore e semplicità di vita: è l’attrazione stessa di Cristo, del Vangelo. Sono fatti di vita che valgono più delle prediche.

 

Mi piace ricordarne uno, che esprime bene la personalità del Poverello (cfr Fioretti, cap. 13: Fonti Francescane, 1841-1842). Lui e fra Masseo si erano messi in viaggio per raggiungere la Francia, ma non avevano portato con sé provviste. A un certo punto dovettero cominciare a chiedere la carità. Francesco andò da una parte e fra Masseo da un’altra. Ma, come raccontano i Fioretti, Francesco era piccolo di statura e chi non lo conosceva lo riteneva un “barbone”; invece fra Masseo “era un uomo grande e bello”. Fu così che San Francesco riuscì a stento a raccogliere qualche pezzo di pane raffermo e duro, mentre fra Masseo raccolse dei bei pezzi di pane buono.

 

Quando i due si ritrovarono si sedettero per terra e su una pietra misero quanto avevano raccolto. Vedendo i pezzi di pane raccolti dal frate, Francesco disse: “Fra Masseo, noi non siamo degni di questo grande tesoro”. Il frate, meravigliato, rispose: “Padre Francesco, come si può parlare di tesoro dove c’è così tanta povertà e mancano anche le cose necessarie?”. Francesco rispose: “È proprio questo che io reputo un gran tesoro, perché non c’è nulla, ma quello che abbiamo è donato dalla Provvidenza che ci ha dato questo pane». Ecco l’insegnamento che ci dà San Francesco: saperci accontentare di quel poco che abbiamo e dividerlo con gli altri.

 

Siamo qui alla Porziuncola, una delle chiesette che San Francesco pensava di restaurare, dopo che Gesù che gli aveva chiesto di “riparare la sua casa”. Allora mai avrebbe pensato che il Signore gli chiedesse di dare la sua vita per rinnovare non la chiesa fatta di pietre, ma quella di persone, di uomini e donne che sono le pietre vive della Chiesa. E se noi siamo qui oggi è proprio per imparare da ciò che ha fatto San Francesco. A lui piaceva stare a lungo in questa chiesetta a pregare. Si raccoglieva qui in silenzio e si metteva in ascolto del Signore, di quello che Dio voleva da lui. Anche noi siamo venuti qui per questo: vogliamo chiedere al Signore che ascolti il nostro grido, che ascolti il nostro grido!, e venga in nostro aiuto. Non dimentichiamo che la prima emarginazione di cui i poveri soffrono è quella spirituale. Ad esempio, tante persone e tanti giovani trovano un po’ di tempo per aiutare i poveri e portano loro cibo e bevande calde. Questo è molto buono e ringrazio Dio della loro generosità. Ma soprattutto mi rallegra quando sento che questi volontari si fermano un po’ a parlare con le persone, e a volte pregano insieme a loro… Ecco, anche il nostro trovarci qui, alla Porziuncola, ci ricorda la compagnia del Signore, che Lui non ci lascia mai soli, ci accompagna sempre in ogni momento della nostra vita. Il Signore oggi è con noi. Ci accompagna, nell’ascolto, nella preghiera e nelle testimonianze date: è Lui, con noi.

 

C’è un altro fatto importante: qui alla Porziuncola San Francesco ha accolto Santa Chiara, i primi frati, e tanti poveri che venivano da lui. Con semplicità li riceveva come fratelli e sorelle, condividendo con loro ogni cosa. Ecco l’espressione più evangelica che siamo chiamati a fare nostra: l’accoglienza. Accogliere significa aprire la porta, la porta della casa e la porta del cuore, e permettere a chi bussa di entrare. E che possa sentirsi a suo agio, non in soggezione, no, a suo agio, libero. Dove c’è un vero senso di fraternità, lì si vive anche l’esperienza sincera dell’accoglienza. Dove invece c’è la paura dell’altro, il disprezzo della sua vita, allora nasce il rifiuto o, peggio, l’indifferenza: quel guardare da un’altra parte. L’accoglienza genera il senso di comunità; il rifiuto al contrario chiude nel proprio egoismo. Madre Teresa, che aveva fatto della sua vita un servizio all’accoglienza, amava dire: “Qual è l’accoglienza migliore? Il sorriso”. Il sorriso. Condividere un sorriso con chi è nel bisogno fa bene a tutt’e due, a me e all’altro. Il sorriso come espressione di simpatia, di tenerezza. E poi il sorriso ti coinvolge, e tu non potrai allontanarti dalla persona alla quale hai fatto un sorriso.

 

Vi ringrazio, perché siete venuti qui da tanti Paesi diversi per vivere questa esperienza di incontro e di fede. Vorrei ringraziare Dio che ha dato questa idea della Giornata dei Poveri. Un’idea nata in modo un po’ strano, in una sagrestia. Io stavo per celebrare la Messa e uno di voi – si chiama Étienne – lo conoscete? È un enfant terrible – Étienne mi ha dato il suggerimento: “Facciamo la Giornata dei poveri”. Io sono uscito e sentivo che lo Spirito Santo, dentro, mi diceva di farla. Così è incominciato: dal coraggio di uno di voi che ha il coraggio di portare avanti le cose. Lo ringrazio per il suo lavoro in questi anni e il lavoro di tanti che lo accompagnano. E vorrei ringraziare, mi scusi, Eminenza, per la sua presenza il Cardinale [Barbarin]: lui è fra i poveri, anche lui ha subito con dignità l’esperienza della povertà, dell’abbandono, della sfiducia. E lui si è difeso con il silenzio e la preghiera. Grazie, Cardinale Barbarin, per la Sua testimonianza che edifica la Chiesa. Dicevo che siamo venuti per incontrarci: questa è la prima cosa, cioè andare uno verso l’altro con il cuore aperto e la mano tesa. Sappiamo che ognuno di noi ha bisogno dell’altro, e che anche la debolezza, se vissuta insieme, può diventare una forza che migliora il mondo. Spesso la presenza dei poveri è vista con fastidio e sopportata; a volte si sente dire che i responsabili della povertà sono i poveri: un insulto in più! Pur di non compiere un serio esame di coscienza sui propri atti, sull’ingiustizia di alcune leggi e provvedimenti economici, un esame di coscienza sull’ipocrisia di chi vuole arricchirsi a dismisura, si getta la colpa sulle spalle dei più deboli.

 

È tempo invece che ai poveri sia restituita la parola, perché per troppo tempo le loro richieste sono rimaste inascoltate. È tempo che si aprano gli occhi per vedere lo stato di disuguaglianza in cui tante famiglie vivono. È tempo di rimboccarsi le maniche per restituire dignità creando posti di lavoro. È tempo che si torni a scandalizzarsi davanti alla realtà di bambini affamati, ridotti in schiavitù, sballottati dalle acque in preda al naufragio, vittime innocenti di ogni sorta di violenza. È tempo che cessino le violenze sulle donne e queste siano rispettate e non trattate come merce di scambio. È tempo che si spezzi il cerchio dell’indifferenza per ritornare a scoprire la bellezza dell’incontro e del dialogo. È tempo di incontrarsi. È il momento dell’incontro. Se l’umanità, se noi uomini e donne non impariamo a incontrarci, andiamo verso una fine molto triste.

 

Ho ascoltato con attenzione le vostre testimonianze, e vi dico grazie per tutto quello che avete manifestato con coraggio e sincerità. Coraggio, perché le avete volute condividere con tutti noi, nonostante siano parte della vostra vita personale; sincerità, perché vi mostrate così come siete e aprite il vostro cuore con il desiderio di essere capiti. Ci sono alcune cose che mi sono piaciute particolarmente e che vorrei in qualche modo riprendere, per farle diventare ancora più mie e lasciarle depositare nel mio cuore. Ho colto, anzitutto, un grande senso di speranza. La vita non è stata sempre indulgente con voi, anzi, spesso vi ha mostrato un volto crudele. L’emarginazione, la sofferenza della malattia e della solitudine, la mancanza di tanti mezzi necessari non vi ha impedito di guardare con occhi carichi di gratitudine per le piccole cose che vi hanno permesso di resistere.

 

Resistere. Questa è la seconda impressione che ho ricevuto e che deriva proprio dalla speranza. Cosa vuol dire resistere? Avere la forza di andare avanti nonostante tutto, andare controcorrente. Resistere non è un’azione passiva, al contrario, richiede il coraggio di intraprendere un nuovo cammino sapendo che porterà frutto. Resistere vuol dire trovare dei motivi per non arrendersi davanti alle difficoltà, sapendo che non le viviamo da soli ma insieme, e che solo insieme le possiamo superare. Resistere ad ogni tentazione di lasciar perdere e cadere nella solitudine e nella tristezza. Resistere, aggrappandosi alla piccola o poca ricchezza che possiamo avere. Penso alla ragazza dell’Afghanistan, con la sua frase lapidaria: il mio corpo è qui, la mia anima è là. Resistere con la memoria, oggi. Penso alla mamma romena che ha parlato alla fine: dolori, speranza e non si vede l’uscita, ma la speranza forte nei figli che l’accompagnano e le ridanno la tenerezza che hanno ricevuto da lei.

 

Chiediamo al Signore che ci aiuti sempre a trovare la serenità e la gioia. Qui alla Porziuncola, San Francesco ci insegna la gioia che viene dal guardare a chi ci sta vicino come a un compagno di viaggio che ci capisce e ci sostiene, così come noi lo siamo per lui o per lei. Questo incontro apra il cuore di tutti noi a metterci a disposizione gli uni degli altri; aprire il cuore per rendere la nostra debolezza una forza che aiuta a continuare il cammino della vita, per trasformare la nostra povertà in ricchezza da condividere, e così migliorare il mondo.

 

La Giornata dei Poveri. Grazie ai poveri che aprono il cuore per darci la loro ricchezza e guarire il nostro cuore ferito. Grazie per questo coraggio. Grazie, Étienne, per essere stato docile all’ispirazione dello Spirito Santo. Grazie per questi anni di lavoro; e anche per la “testardaggine” di portare il Papa ad Assisi! Grazie! Grazie, Eminenza, per il Suo appoggio, per il Suo aiuto a questo movimento di Chiesa – diciamo “movimento” perché si muovono – e per la Sua testimonianza. E grazie a tutti. Vi porto nel mio cuore. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me, perché io ho le mie povertà, e tante! Grazie.

 



 

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Messaggio Cristiano
UDIENZA GENERALE Piazza San Pietro, Mercoledì 22 ottobre 2025

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. IV. La Risurrezione di Cristo e le sfide del mondo attuale. 2. La Risurrezione di Cristo, risposta alla tristezza dell’essere umano

Cari fratelli e sorelle, buongiorno! E benvenuti tutti!

La risurrezione di Gesù Cristo è un evento che non si finisce mai di contemplare e di meditare, e più lo si approfondisce, più si resta pieni di meraviglia, si viene attratti, come da una luce insostenibile e al tempo stesso affascinante. È stata un’esplosione di vita e di gioia che ha cambiato il senso dell’intera realtà, da negativo a positivo; eppure non è avvenuta in modo eclatante, men che meno violento, ma mite, nascosto, si direbbe umile.

Oggi rifletteremo su come la risurrezione di Cristo può guarire una delle malattie del nostro tempo: la tristezza. Invasiva e diffusa, la tristezza accompagna le giornate di tante persone. Si tratta di un sentimento di precarietà, a volte di disperazione profonda che invade lo spazio interiore e che sembra prevalere su ogni slancio di gioia.

La tristezza sottrae senso e vigore alla vita, che diventa come un viaggio senza direzione e senza significato. Questo vissuto così attuale ci rimanda al celebre racconto del Vangelo di Luca (24,13-29) sui due discepoli di Emmaus. Essi, delusi e scoraggiati, se ne vanno da Gerusalemme, lasciandosi alle spalle le speranze riposte in Gesù, che è stato crocifisso e sepolto. Nelle battute iniziali, questo episodio mostra come un paradigma della tristezza umana: la fine del traguardo su cui si sono investite tante energie, la distruzione di ciò che appariva l’essenziale della propria vita. La speranza è svanita, la desolazione ha preso possesso del cuore. Tutto è imploso in brevissimo tempo, tra il venerdì e il sabato, in una drammatica successione di eventi.

Il paradosso è davvero emblematico: questo triste viaggio di sconfitta e di ritorno all’ordinario si compie lo stesso giorno della vittoria della luce, della Pasqua che si è pienamente consumata. I due uomini danno le spalle al Golgota, al terribile scenario della croce ancora impresso nei loro occhi e nel loro cuore. Tutto sembra perduto. Occorre tornare alla vita di prima, col profilo basso, sperando di non essere riconosciuti.

A un certo punto, si affianca ai due discepoli un viandante, forse uno dei tanti pellegrini che sono stati a Gerusalemme per la Pasqua. È Gesù risorto, ma loro non lo riconoscono. La tristezza annebbia il loro sguardo, cancella la promessa che il Maestro aveva fatto più volte: che sarebbe stato ucciso e che il terzo giorno sarebbe risuscitato. Lo sconosciuto si accosta e si mostra interessato alle cose che loro stanno dicendo. Il testo dice che i due «si fermarono, col volto triste» (Lc 24,17). L’aggettivo greco utilizzato descrive una tristezza integrale: sul loro viso traspare la paralisi dell’anima.

Gesù li ascolta, lascia che sfoghino la loro delusione. Poi, con grande franchezza, li rimprovera di essere «stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti!» (v. 25), e attraverso le Scritture dimostra che il Cristo doveva soffrire, morire e risorgere. Nei cuori dei due discepoli si riaccende il calore della speranza, e allora, quando ormai scende la sera e arrivano alla meta, invitano il misterioso compagno a restare con loro.

Gesù accetta e siede a tavola con loro. Poi prende il pane, lo spezza e lo offre. In quel momento i due discepoli lo riconoscono… ma Lui subito sparisce dalla loro vista (vv. 30-31). Il gesto del pane spezzato riapre gli occhi del cuore, illumina di nuovo la vista annebbiata dalla disperazione. E allora tutto si chiarisce: il cammino condiviso, la parola tenera e forte, la luce della verità… Subito si riaccende la gioia, l’energia scorre di nuovo nelle membra stanche, la memoria torna a farsi grata. E i due tornano in fretta a Gerusalemme, per raccontare tutto agli altri.

“Il Signore è veramente Risorto” (cfr v. 34). In questo avverbio, veramente, si compie l’approdo certo della nostra storia di esseri umani. Non a caso è il saluto che i cristiani si scambiano nel giorno di Pasqua. Gesù non è risorto a parole, ma con i fatti, con il suo corpo che conserva i segni della passione, sigillo perenne del suo amore per noi. La vittoria della vita non è una parola vana, ma un fatto reale, concreto.

La gioia inattesa dei discepoli di Emmaus ci sia di dolce monito quando il cammino si fa duro. È il Risorto che cambia radicalmente la prospettiva, infondendo la speranza che riempie il vuoto della tristezza. Nei sentieri del cuore, il Risorto cammina con noi e per noi. Testimonia la sconfitta della morte, afferma la vittoria della vita, nonostante le tenebre del Calvario. La storia ha ancora molto da sperare in bene.

Riconoscere la Risurrezione significa cambiare sguardo sul mondo: tornare alla luce per riconoscere la Verità che ci ha salvato e ci salva. Sorelle e fratelli, restiamo vigili ogni giorno nello stupore della Pasqua di Gesù risorto. Lui solo rende possibile l’impossibile!

LEONE XIV