Sabato 20 Aprile 2024
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Cronaca Bianca


Fatima. Francesco e Giacinta santi

Saranno i primi bambini ad essere proclamati santi (il 13 maggio).

Sabato, 13 maggio 2017

PELLEGRINAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AL SANTUARIO DI NOSTRA SIGNORA DI FÁTIMA  in occasione del centenario delle Apparizioni della Beata Vergine Maria alla Cova da Iria (12-13 maggio 2017)

SANTA MESSA CON IL RITO DELLA CANONIZZAZIONE  DEI BEATI FRANCISCO MARTO E JACINTA MARTO

 

«Apparve nel cielo [...] una donna vestita di sole»: attesta il veggente di Patmos nell’Apocalisse (12,1), osservando anche che ella era in procinto di dare alla luce un figlio. Poi, nel Vangelo, abbiamo sentito Gesù dire al discepolo: «Ecco tua madre» (Gv 19,26-27). Abbiamo una Madre! Una “Signora tanto bella”, commentavano tra di loro i veggenti di Fatima sulla strada di casa, in quel benedetto giorno 13 maggio di cento anni fa. E, alla sera, Giacinta non riuscì a trattenersi e svelò il segreto alla mamma: “Oggi ho visto la Madonna”. Essi avevano visto la Madre del cielo. Nella scia che seguivano i loro occhi, si sono protesi gli occhi di molti, ma… questi non l’hanno vista. La Vergine Madre non è venuta qui perché noi la vedessimo: per questo avremo tutta l’eternità, beninteso se andremo in Cielo.

 

Ma Ella, presagendo e avvertendoci sul rischio dell’inferno a cui conduce una vita – spesso proposta e imposta – senza Dio e che profana Dio nelle sue creature, è venuta a ricordarci la Luce di Dio che dimora in noi e ci copre, perché, come abbiamo ascoltato nella prima Lettura, il «figlio fu rapito verso Dio» (Ap 12,5). E, secondo le parole di Lucia, i tre privilegiati si trovavano dentro la Luce di Dio che irradiava dalla Madonna. Ella li avvolgeva nel manto di Luce che Dio Le aveva dato. Secondo il credere e il sentire di molti pellegrini, se non proprio di tutti, Fatima è soprattutto questo manto di Luce che ci copre, qui come in qualsiasi altro luogo della Terra quando ci rifugiamo sotto la protezione della Vergine Madre per chiederLe, come insegna la Salve Regina, “mostraci Gesù”.

 

Carissimi pellegrini, abbiamo una Madre, abbiamo una Madre! Aggrappati a Lei come dei figli, viviamo della speranza che poggia su Gesù, perché, come abbiamo ascoltato nella seconda Lettura, «quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo» (Rm 5,17). Quando Gesù è salito al cielo, ha portato accanto al Padre celeste l’umanità – la nostra umanità – che aveva assunto nel grembo della Vergine Madre, e mai più la lascerà. Come un’ancora, fissiamo la nostra speranza in quella umanità collocata nel Cielo alla destra del Padre (cfr Ef 2,6). Questa speranza sia la leva della vita di tutti noi! Una speranza che ci sostiene sempre, fino all’ultimo respiro.

 

Forti di questa speranza, ci siamo radunati qui per ringraziare delle innumerevoli benedizioni che il Cielo ha concesso lungo questi cento anni, passati sotto quel manto di Luce che la Madonna, a partire da questo Portogallo ricco di speranza, ha esteso sopra i quattro angoli della Terra. Come esempi, abbiamo davanti agli occhi San Francesco Marto e Santa Giacinta, che la Vergine Maria ha introdotto nel mare immenso della Luce di Dio portandoli ad adorarLo. Da ciò veniva loro la forza per superare le contrarietà e le sofferenze. La presenza divina divenne costante nella loro vita, come chiaramente si manifesta nell’insistente preghiera per i peccatori e nel desiderio permanente di restare presso “Gesù Nascosto” nel Tabernacolo.

 

Nelle sue Memorie (III, n. 6), Suor Lucia dà la parola a Giacinta appena beneficiata da una visione: «Non vedi tante strade, tanti sentieri e campi pieni di persone che piangono per la fame e non hanno niente da mangiare? E il Santo Padre in una chiesa, davanti al Cuore Immacolato di Maria, in preghiera? E tanta gente in preghiera con lui?». Grazie, fratelli e sorelle, di avermi accompagnato! Non potevo non venire qui per venerare la Vergine Madre e affidarLe i suoi figli e figlie. Sotto il suo manto non si perdono; dalle sue braccia verrà la speranza e la pace di cui hanno bisogno e che io supplico per tutti i miei fratelli nel Battesimo e in umanità, in particolare per i malati e i persone con disabilità, i detenuti e i disoccupati, i poveri e gli abbandonati. Carissimi fratelli, preghiamo Dio con la speranza che ci ascoltino gli uomini; e rivolgiamoci agli uomini con la certezza che ci soccorre Dio.

 

Egli infatti ci ha creati come una speranza per gli altri, una speranza reale e realizzabile secondo lo stato di vita di ciascuno. Nel “chiedere” ed “esigere” da ciascuno di noi l’adempimento dei doveri del proprio stato (Lettera di Suor Lucia, 28 febbraio 1943), il cielo mette in moto qui una vera e propria mobilitazione generale contro questa indifferenza che ci raggela il cuore e aggrava la nostra miopia. Non vogliamo essere una speranza abortita! La vita può sopravvivere solo grazie alla generosità di un’altra vita. «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24): lo ha detto e lo ha fatto il Signore, che sempre ci precede. Quando passiamo attraverso una croce, Egli vi è già passato prima. Così non saliamo alla croce per trovare Gesù; ma è stato Lui che si è umiliato ed è sceso fino alla croce per trovare noi e, in noi, vincere le tenebre del male e riportarci verso la Luce.

 

Sotto la protezione di Maria, siamo nel mondo sentinelle del mattino che sanno contemplare il vero volto di Gesù Salvatore, quello che brilla a Pasqua, e riscoprire il volto giovane e bello della Chiesa, che risplende quando è missionaria, accogliente, libera, fedele, povera di mezzi e ricca di amore.

 

 

I primi bambini in due millenni di storia della Chiesa. Il 13 maggio è la data attesa per la canonizzazione dei due pastorinhos di Fatima, Francesco e Giacinta Marto. Proprio in questo stesso giorno di diciassette anni fa Giovanni Paolo II celebrava la loro beatificazione

 

Papa Francesco, nel corso della sua visita in Portogallo in occasione del centenario delle apparizioni mariane, li eleverà al culto della Chiesa universale durante la celebrazione eucaristica prevista nel piazzale davanti al santuario di Fatima.

 

La storia dei primi bambini non martiri proclamati santi: i fratelli Marto

 

È a Giacinta e Francesco Marto, i due fratelli di appena nove e dieci anni, che insieme alla cugina Lucia dos Santos, apparve la Madre di Dio in quel lontano 13 maggio 1917 e riapparve loro ogni 13 del mese fino all'ottobre di quell'anno. Quel 13 maggio era per i bambini un giorno come tanti altri. Avevano portato le pecore in un campo chiamato Cova da Iria, di proprietà della famiglia di Lucia e, come al solito, tra qualche screzio, stavano giocando.

 

Nelle sue semplici memorie Lucia racconta così quello che accadde: «Vedemmo all'improvviso qualcosa come un lampo. “È meglio che ce ne andiamo a casa” dissi ai miei cugini “perché sta lampeggiando, potrebbe venire un temporale”. E cominciammo a scendere il pendio, spingendo le pecore verso la strada. Arrivati all'incirca a metà pendio, quasi vicino a un grande leccio che c’era lì, vedemmo un altro lampo e, fatti alcuni passi più avanti, vedemmo sopra un’elce una signora, era vestita di bianco e diffondeva una luce più chiara del sole... Sorpresi, ci fermammo. Eravamo così vicini che ci trovavamo dentro alla luce che la circondava o che lei diffondeva. Forse a un metro e mezzo, più o meno, di distanza. Allora quella signora ci disse: “Non abbiate paura. Io non voglio farvi del male”. “Di dove siete?”, le domandai.“Sono del cielo”. “E che cosa volete?”. “Sono venuta a chiedervi che veniate qui sei mesi di fila, il giorno 13 a questa stessa ora. Poi vi dirò chi sono e che cosa voglio. Tornerò qui ancora una settima volta”. “E anch’io andrò in cielo?”. “Sì. Ci andrai”. “E Giacinta?”. “Sì. Ci andrà anche lei”. “E Francesco?”. “Pure”. Poi ci disse di recitare il rosario tutti i giorni e che avremmo avuto molto da soffrire ma che la grazia di Dio sarebbe stata il nostro conforto».

 

La fama di santità dei due pastorinhos aveva già fatto il giro del mondo subito dopo la loro morte. Francesco era morto a causa della febbre spagnola il 4 aprile 1919 e Giacinta dieci mesi più tardi, il 20 febbraio 1920. Giacinta, dopo molte sofferenze offerte per la conversione dei peccatori, morì sola in un ospedale di Lisbona e venne sepolta a Vila Nova de Ourém, il comune a cui appartiene il villaggio di Fatima. Di Francesco, che chiamavano “il consolatore”, per il suo desiderio di consolare con la preghiera la Madonna, si perse memoria del punto esatto della sepoltura; solo più tardi i resti vennero riconosciuti dal padre per il particolare rosario che il bambino stringeva tra le mani. Nel settembre 1935 il corpo incorrotto della piccola Giacinta fu rimosso da Vila Nova de Ourém e portato a Fatima. Venne scattata una fotografia e il vescovo di Leiria-Fatima, José Alves Correira da Silva, ne mandò una copia a Lucia, divenuta nel frattempo suora dorotea.

 

Fu questa occasione che indusse il vescovo a ordinare a Lucia di scrivere tutto quello che sapeva sulla vita di Giacinta. Nacque così la Prima memoria, che era pronta a Natale del 1935. Successivamente lo stesso vescovo le ordinò di scrivere anche i suoi ricordi su Francesco e sui fatti avvenuti a Fatima. Le fughe dalla gente e dai preti che volevano interrogarli, e che per loro erano «una vera e propria tortura», l'ingenuità e la voglia di continuare a giocare, i bambini analfabeti di Fatima, che nel 1917 videro quella che chiamavano «la signora», vissero questo incontro sempre da bambini. Il linguaggio di queste memorie è perciò semplicissimo e disarmante, a volte sgrammaticato, così come semplicissimi e assolutamente normali i due ragazzini. Ma se non fosse stato per i ricordi scritti lasciati da Lucia sulla loro breve vita, forse nessuno avrebbe pensato di aprire una causa di canonizzazione, anche perché a quei tempi non era ancora stato decretato il riconoscimento di «esercizio delle virtù in grado eroico» anche per i piccoli. L’inchiesta canonica venne infatti avviata dalla diocesi di Leiria solamente nel 1952.

 

E solo molti anni più tardi, nel 1989, la loro causa venne portata a conclusione con il decreto sulla pratica delle virtù in considerazione dell’età dei due bambini. L’ostacolo era una questione di fondo dibattuta a lungo nel corso del Novecento riguardo alla possibilità o meno di prendere in considerazione dei fanciulli come candidati alla canonizzazione. Questione che venne definitivamente risolta nel 1981 con un documento ad hoc della Congregazione delle cause dei santi.

 

Il secondo miracolo dei due pastorelli: guarito Lucas, bambino brasiliano

 

Il miracolo attribuito alla intercessione dei due bambini che consentì la loro beatificazione è stato riconosciuto nel 1999. Quello che invece ha aperto la strada alla loro canonizzazione è stato promulgato il 23 marzo scorso. È accaduto nella diocesi brasiliana di Campo Mourao, in Paranà il 3 marzo del 2013 e riguarda un bambino, Lucas Maeda de Oliveira, che all’epoca del fatto aveva quasi 6 anni. Il bambino si trovava nell'abitazione del nonno e stava giocando con la sorellina quando accidentalmente cadde dalla finestra da un’altezza di circa sei metri e mezzo, riportando un gravissimo trauma cranio-encefalico con perdita di materia cerebrale. Portato in ospedale in stato di coma, con prognosi infausta quoad vitam, fu sottoposto ad intervento chirurgico, seppure in una struttura sanitaria inadeguata per la cura di lesioni traumatiche così gravi e dove permase in un quadro di particolare gravità clinica con elevato rischio di decesso, o di stato vegetativo permanente o di gravi deficit neurologici e cognitivi, nella migliore delle ipotesi.

 

Dopo solo alcuni giorni invece il bambino è stato dimesso con rapidissima e completa restituito ad integrum, in assenza di terapie specifiche, con deambulazione autonoma e senza nessun esito di danni neurologici e cognitivi. La guarigione del bambino è intatti così riassunta nella Positio super miracolo che presenta e comprende l’inchiesta svolta sul caso unita alla completa documentazione clinica: «Guarigione di Lucas Maeda de Oliveira, vittima di una caduta da una altezza di 6,5 metri in seguito alla quale ha riportato grave trauma cranio-encefalico aperto con perdita di sostanza cerebrale, coma grave e danno assonale diffuso, con serio pericolo di morte o di gravi conseguenze».

 

I medici della Consulta medica, il 2 febbraio 2017, avevano pertanto espresso parere positivo unanime (6 voti su 6) riguardo all'inspiegabilità scientifica della guarigione. Al momento dell’incidente, prendendo il bambino dal marciapiede, suo padre aveva invocato la Madonna di Fatima e i due piccoli beati e quella notte stessa i familiari, insieme a una comunità di suore di clausura carmelitane avevano pregato con insistenza i pastorelli di Fatima. A oggi permane lo stato di benessere del bambino che da subito ha ripreso le normali attività comprese quelle sportive.

 



 

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Messaggio Cristiano
Udienza Generale, 17 Aprile 2024

Catechesi. I vizi e le virtù. 15. La temperanza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi parlerò della quarta e ultima virtù cardinale: la temperanza. Con le altre tre, questa virtù condivide una storia che risale molto indietro nel tempo e che non appartiene ai soli cristiani. Per i greci la pratica delle virtù aveva come obbiettivo la felicità. Il filosofo Aristotele scrive il suo più importante trattato di etica indirizzandolo al figlio Nicomaco, per istruirlo nell’arte del vivere. Perché tutti cerchiamo la felicità eppure così pochi la raggiungono? Questa è la domanda. Per rispondere ad essa Aristotele affronta il tema delle virtù, tra le quali ha uno spazio di rilievo la enkráteia, cioè la temperanza. Il termine greco significa letteralmente “potere su sé stessi”. La temperanza è un potere su sé stessi. Questa virtù è dunque la capacità di autodominio, l’arte di non farsi travolgere da passioni ribelli, di mettere ordine in quello che il Manzoni chiama il “guazzabuglio del cuore umano”.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci dice che «la temperanza è la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati». «Essa – prosegue il Catechismo – assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore» (n. 1809).

Dunque, la temperanza, come dice la parola italiana, è la virtù della giusta misura. In ogni situazione, si comporta con saggezza, perché le persone che agiscono mosse sempre dall’impeto o dall’esuberanza alla fine sono inaffidabili. Le persone senza temperanza sono sempre inaffidabili. In un mondo dove tanta gente si vanta di dire quello che pensa, la persona temperante preferisce invece pensare quello che dice. Capite la differenza? Non dire quello che mi viene in mente, così… No, pensare a quello che devo dire. Non fa promesse a vanvera, ma assume impegni nella misura in cui li può soddisfare.

Anche con i piaceri, la persona temperante agisce con giudizio. Il libero corso delle pulsioni e la totale licenza accordata ai piaceri, finiscono per ritorcersi contro noi stessi, facendoci precipitare in uno stato di noia. Quanta gente che ha voluto provare tutto con voracità si è ritrovata a perdere il gusto di ogni cosa! Meglio allora cercare la giusta misura: ad esempio, per apprezzare un buon vino, assaporarlo a piccoli sorsi è meglio che ingurgitarlo tutto d’un fiato. Tutti sappiamo questo.

La persona temperante sa pesare e dosare bene le parole. Pensa a quello che dice. Non permette che un momento di rabbia rovini relazioni e amicizie che poi solo con fatica potranno essere ricostruite. Specialmente nella vita famigliare, dove le inibizioni si abbassano, tutti corriamo il rischio di non tenere a freno tensioni, irritazioni, arrabbiature. C’è un tempo per parlare e un tempo per tacere, ma entrambi richiedono la giusta misura. E questo vale per tante cose, ad esempio lo stare con gli altri e lo stare da soli.

Se la persona temperante sa controllare la propria irascibilità, non per questo la vedremo perennemente con il volto pacifico e sorridente. Infatti, qualche volta è necessario indignarsi, ma sempre nella giusta maniera. Queste sono le parole: la giusta misura, la giusta maniera. Una parola di rimprovero a volte è più salutare rispetto a un silenzio acido e rancoroso. Il temperante sa che nulla è più scomodo del correggere un altro, ma sa anche che è necessario: altrimenti si offrirebbe libero campo al male. In certi casi, il temperante riesce a tenere insieme gli estremi: afferma i principi assoluti, rivendica i valori non negoziabili, ma sa anche comprendere le persone e dimostra empatia per esse. Dimostra empatia.

Il dono del temperante è dunque l’equilibrio, qualità tanto preziosa quanto rara. Tutto, infatti, nel nostro mondo spinge all’eccesso. Invece la temperanza si sposa bene con atteggiamenti evangelici quali la piccolezza, la discrezione, il nascondimento, la mitezza. Chi è temperante apprezza la stima degli altri, ma non ne fa l’unico criterio di ogni azione e di ogni parola. È sensibile, sa piangere e non se ne vergogna, ma non si piange addosso. Sconfitto, si rialza; vincitore, è capace di tornare alla vita nascosta di sempre. Non cerca gli applausi, ma sa di avere bisogno degli altri.

Fratelli e sorelle, non è vero che la temperanza rende grigi e privi di gioie. Anzi, fa gustare meglio i beni della vita: lo stare insieme a tavola, la tenerezza di certe amicizie, la confidenza con le persone sagge, lo stupore per le bellezze del creato. La felicità con la temperanza è letizia che fiorisce nel cuore di chi riconosce e dà valore a ciò che più conta nella vita. Preghiamo il Signore perché ci dia questo dono: il dono della maturità, della maturità dell’età, della maturità affettiva, della maturità sociale. Il dono della temperanza.

Papa Francesco