Le parole del Papa


SANTA MESSA DELLA DIVINA MISERICORDIA

Chiesa di Santo Spirito in Sassia - II Domenica di Pasqua (o della Divina Misericordia), 19 aprile 2020

https://youtu.be/Oez6BvKKrQE

 

 

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

 

Domenica scorsa abbiamo celebrato la risurrezione del Maestro, oggi assistiamo alla risurrezione del discepolo. È passata una settimana, una settimana che i discepoli, pur avendo visto il Risorto, hanno trascorso nel timore, stando «a porte chiuse» (Gv 20,26), senza nemmeno riuscire a convincere della risurrezione l’unico assente, Tommaso. Che cosa fa Gesù davanti a questa incredulità timorosa? Ritorna, si mette nella stessa posizione, «in mezzo» ai discepoli, e ripete lo stesso saluto: «Pace a voi!» (Gv 20,19.26). Ricomincia da capo. La risurrezione del discepolo inizia da qui, da questa misericordia fedele e paziente, dalla scoperta che Dio non si stanca di tenderci la mano per rialzarci dalle nostre cadute. Egli vuole che lo vediamo così: non come un padrone con cui dobbiamo regolare i conti, ma come il nostro Papà che ci rialza sempre. Nella vita andiamo avanti a tentoni, come un bambino che inizia a camminare, ma cade; pochi passi e cade ancora; cade e ricade, e ogni volta il papà lo rialza. La mano che ci rialza sempre è la misericordia: Dio sa che senza misericordia restiamo a terra, che per camminare abbiamo bisogno di essere rimessi in piedi.

 

E tu puoi obiettare: “Ma io non smetto mai di cadere!”. Il Signore lo sa ed è sempre pronto a risollevarti. Egli non vuole che ripensiamo continuamente alle nostre cadute, ma che guardiamo a Lui, che nelle cadute vede dei figli da rialzare, nelle miserie vede dei figli da amare con misericordia. Oggi, in questa chiesa diventata santuario della misericordia in Roma, nella Domenica che vent’anni fa san Giovanni Paolo II dedicò alla Misericordia Divina, accogliamo fiduciosi questo messaggio. A santa Faustina Gesù disse: «Io sono l’amore e la misericordia stessa; non c’è miseria che possa misurarsi con la mia misericordia» (Diario, 14 settembre 1937). Una volta, poi, la santa disse a Gesù, con soddisfazione, di avergli offerto tutta la vita, tutto quel che aveva. Ma la risposta di Gesù la spiazzò: «Non mi hai offerto quello che è effettivamente tuo». Che cosa aveva trattenuto per sé quella santa suora? Gesù le disse con amabilità: «Figlia, dammi la tua miseria» (10 ottobre 1937). Anche noi possiamo chiederci: “Ho dato la mia miseria al Signore? Gli ho mostrato le mie cadute perché mi rialzi?”. Oppure c’è qualcosa che tengo ancora dentro di me? Un peccato, un rimorso del passato, una ferita che ho dentro, un rancore verso qualcuno, un’idea su una determinata persona… Il Signore attende che gli portiamo le nostre miserie, per farci scoprire la sua misericordia.

 

Torniamo ai discepoli. Avevano abbandonato il Signore durante la Passione e si sentivano colpevoli. Ma Gesù, incontrandoli, non fa lunghe prediche. A loro, che erano feriti dentro, mostra le sue piaghe. Tommaso può toccarle e scopre l’amore, scopre quanto Gesù aveva sofferto per lui, che lo aveva abbandonato. In quelle ferite tocca con mano la vicinanza tenera di Dio. Tommaso, che era arrivato in ritardo, quando abbraccia la misericordia supera gli altri discepoli: non crede solo alla risurrezione, ma all’amore sconfinato di Dio. E fa la confessione di fede più semplice e più bella: «Mio Signore e mio Dio!» (v. 28). Ecco la risurrezione del discepolo: si compie quando la sua umanità fragile e ferita entra in quella di Gesù. Lì si dissolvono i dubbi, lì Dio diventa il mio Dio, lì si ricomincia ad accettare sé stessi e ad amare la propria vita.

 

Cari fratelli e sorelle, nella prova che stiamo attraversando, anche noi, come Tommaso, con i nostri timori e i nostri dubbi, ci siamo ritrovati fragili. Abbiamo bisogno del Signore, che vede in noi, al di là delle nostre fragilità, una bellezza insopprimibile. Con Lui ci riscopriamo preziosi nelle nostre fragilità. Scopriamo di essere come dei bellissimi cristalli, fragili e preziosi al tempo stesso. E se, come il cristallo, siamo trasparenti di fronte a Lui, la sua luce, la luce della misericordia, brilla in noi e, attraverso di noi, nel mondo. Ecco il motivo per essere, come ci ha detto la Lettera di Pietro, «ricolmi di gioia, anche se ora […], per un po’ di tempo, afflitti da varie prove» (1 Pt 1,6).

 

In questa festa della Divina Misericordia l’annuncio più bello giunge attraverso il discepolo arrivato più tardi. Mancava solo lui, Tommaso. Ma il Signore lo ha atteso. La misericordia non abbandona chi rimane indietro. Ora, mentre pensiamo a una lenta e faticosa ripresa dalla pandemia, si insinua proprio questo pericolo: dimenticare chi è rimasto indietro. Il rischio è che ci colpisca un virus ancora peggiore, quello dell’egoismo indifferente. Si trasmette a partire dall’idea che la vita migliora se va meglio a me, che tutto andrà bene se andrà bene per me. Si parte da qui e si arriva a selezionare le persone, a scartare i poveri, a immolare chi sta indietro sull’altare del progresso. Questa pandemia ci ricorda però che non ci sono differenze e confini tra chi soffre. Siamo tutti fragili, tutti uguali, tutti preziosi. Quel che sta accadendo ci scuota dentro: è tempo di rimuovere le disuguaglianze, di risanare l’ingiustizia che mina alla radice la salute dell’intera umanità! Impariamo dalla comunità cristiana delle origini, descritta nel libro degli Atti degli Apostoli. Aveva ricevuto misericordia e viveva con misericordia: «Tutti i credenti avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (At 2,44-45). Non è ideologia, è cristianesimo.

 

In quella comunità, dopo la risurrezione di Gesù, uno solo era rimasto indietro e gli altri lo aspettarono. Oggi sembra il contrario: una piccola parte dell’umanità è andata avanti, mentre la maggioranza è rimasta indietro. E ognuno potrebbe dire: “Sono problemi complessi, non sta a me prendermi cura dei bisognosi, altri devono pensarci!”. Santa Faustina, dopo aver incontrato Gesù, scrisse: «In un’anima sofferente dobbiamo vedere Gesù Crocifisso e non un parassita e un peso… [Signore], ci dai la possibilità di esercitarci nelle opere di misericordia e noi ci esercitiamo nei giudizi» (Diario, 6 settembre 1937). Lei stessa, però, un giorno si lamentò con Gesù che, ad esser misericordiosi, si passa per ingenui. Disse: «Signore, abusano spesso della mia bontà». E Gesù: «Non importa, figlia mia, non te ne curare, tu sii sempre misericordiosa con tutti» (24 dicembre 1937). Con tutti: non pensiamo solo ai nostri interessi, agli interessi di parte. Cogliamo questa prova come un’opportunità per preparare il domani di tutti, senza scartare nessuno: di tutti. Perché senza una visione d’insieme non ci sarà futuro per nessuno.

 

Oggi l’amore disarmato e disarmante di Gesù risuscita il cuore del discepolo. Anche noi, come l’apostolo Tommaso, accogliamo la misericordia, salvezza del mondo. E usiamo misericordia a chi è più debole: solo così ricostruiremo un mondo nuovo.

 

REGINA COELI 

 

Cari fratelli e sorelle,

 

in questa Seconda Domenica di Pasqua, è stato significativo celebrare l’Eucaristia qui, nella chiesa di Santo Spirito in Sassia, che San Giovanni Paolo II volle come Santuario della Divina Misericordia. La risposta dei cristiani nelle tempeste della vita e della storia non può che essere la misericordia: l’amore compassionevole tra di noi e verso tutti, specialmente verso chi soffre, chi fa più fatica, chi è più abbandonato… Non pietismo, non assistenzialismo, ma compassione, che viene dal cuore. E la misericordia divina viene dal Cuore di Cristo, di Cristo Risorto. Scaturisce dalla ferita sempre aperta del suo costato, aperta per noi, che sempre abbiamo bisogno di perdono e di conforto. La misericordia cristiana ispiri anche la giusta condivisione tra le nazioni e le loro istituzioni, per affrontare la crisi attuale in maniera solidale.

 

Formulo l’augurio ai fratelli e alle sorelle delle Chiese d’oriente che oggi celebrano la Festa di Pasqua. Insieme annunciamo: «Davvero il Signore è risorto!» (Lc 24,34). Soprattutto in questo tempo di prova, sentiamo quale grande dono è la speranza che nasce dall’essere risorti con Cristo! In particolare, mi rallegro con le comunità cattoliche orientali che, per motivi ecumenici, celebrano la Pasqua insieme con quelle ortodosse: questa fraternità sia di conforto là dove i cristiani sono una piccola minoranza.

Con gioia pasquale ci rivolgiamo ora alla Vergine Maria, Madre di Misericordia.

 



 

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Messaggio Cristiano
Udienza Generale - Piazza San Pietro Mercoledì, 10 Settembre 2025

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. III. La Pasqua di Gesù. 6. La morte. «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37)

Cari fratelli e sorelle,
buongiorno e grazie per la vostra presenza, una bella testimonianza!

Oggi contempliamo il vertice della vita di Gesù in questo mondo: la sua morte in croce. I Vangeli attestano un particolare molto prezioso, che merita di essere contemplato con l’intelligenza della fede. Sulla croce, Gesù non muore in silenzio. Non si spegne lentamente, come una luce che si consuma, ma lascia la vita con un grido: «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37). Quel grido racchiude tutto: dolore, abbandono, fede, offerta. Non è solo la voce di un corpo che cede, ma il segno ultimo di una vita che si consegna.

Il grido di Gesù è preceduto da una domanda, una delle più laceranti che possano essere pronunciate: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È il primo verso del Salmo 22, ma sulle labbra di Gesù assume un peso unico. Il Figlio, che ha sempre vissuto in intima comunione con il Padre, sperimenta ora il silenzio, l’assenza, l’abisso. Non si tratta di una crisi di fede, ma dell’ultima tappa di un amore che si dona fino in fondo. Il grido di Gesù non è disperazione, ma sincerità, verità portata al limite, fiducia che resiste anche quando tutto tace.

In quel momento, il cielo si oscura e il velo del tempio si squarcia (cfr Mc 15,33.38). È come se il creato stesso partecipasse a quel dolore, e insieme rivelasse qualcosa di nuovo: Dio non abita più dietro un velo, il suo volto è ora pienamente visibile nel Crocifisso. È lì, in quell’uomo straziato, che si manifesta l’amore più grande. È lì che possiamo riconoscere un Dio che non resta distante, ma attraversa fino in fondo il nostro dolore.

Il centurione, un pagano, lo capisce. Non perché ha ascoltato un discorso, ma perché ha visto morire Gesù in quel modo: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). È la prima professione di fede dopo la morte di Gesù. È il frutto di un grido che non si è disperso nel vento, ma ha toccato un cuore. A volte, ciò che non riusciamo a dire a parole lo esprimiamo con la voce. Quando il cuore è pieno, grida. E questo non è sempre un segno di debolezza, può essere un atto profondo di umanità.

Noi siamo abituati a pensare al grido come a qualcosa di scomposto, da reprimere. Il Vangelo conferisce al nostro grido un valore immenso, ricordandoci che può essere invocazione, protesta, desiderio, consegna. Addirittura, può essere la forma estrema della preghiera, quando non ci restano più parole. In quel grido, Gesù ha messo tutto ciò che gli restava: tutto il suo amore, tutta la sua speranza.

Sì, perché anche questo c’è, nel gridare: una speranza che non si rassegna. Si grida quando si crede che qualcuno possa ancora ascoltare. Si grida non per disperazione, ma per desiderio. Gesù non ha gridato contro il Padre, ma verso di Lui. Anche nel silenzio, era convinto che il Padre era lì. E così ci ha mostrato che la nostra speranza può gridare, persino quando tutto sembra perduto.

Gridare diventa allora un gesto spirituale. Non è solo il primo atto della nostra nascita – quando veniamo al mondo piangendo –: è anche un modo per restare vivi. Si grida quando si soffre, ma pure quando si ama, si chiama, si invoca. Gridare è dire che ci siamo, che non vogliamo spegnerci nel silenzio, che abbiamo ancora qualcosa da offrire.

Nel viaggio della vita, ci sono momenti in cui trattenere tutto dentro può consumarci lentamente. Gesù ci insegna a non avere paura del grido, purché sia sincero, umile, orientato al Padre. Un grido non è mai inutile, se nasce dall’amore. E non è mai ignorato, se è consegnato a Dio. È una via per non cedere al cinismo, per continuare a credere che un altro mondo è possibile.

Cari fratelli e sorelle, impariamo anche questo dal Signore Gesù: impariamo il grido della speranza quando giunge l’ora della prova estrema. Non per ferire, ma per affidarci. Non per urlare contro qualcuno, ma per aprire il cuore. Se il nostro grido sarà vero, potrà essere la soglia di una nuova luce, di una nuova nascita. Come per Gesù: quando tutto sembrava finito, in realtà la salvezza stava per iniziare. Se manifestata con la fiducia e la libertà dei figli di Dio, la voce sofferta della nostra umanità, unita alla voce di Cristo, può diventare sorgente di speranza per noi e per chi ci sta accanto.

LEONE XIV