Le parole del Papa


13 marzo. Francesco è Papa da 1O anni

 

Il 13 marzo 2013 il Conclave elesse al soglio di Pietro un cardinale preso «quasi alla fine del mondo». Le linee guida del Pontificato
 
 

Se dovessimo scegliere a chi affidare gli auguri a Francesco per i suoi otto anni da Papa, sceglieremmo chi sta ai margini, un diseredato, un migrante, uno degli scartati cui Bergoglio fa riferimento sin dal primo giorno sul soglio di Pietro. E ancora prima, da semplice gesuita, da prete, da arcivescovo e cardinale. Perché Il Vangelo piaccia o no mette al centro i poveri, il Signore per così dire ha un debole per loro. E non si tratta di populismo a buon mercato ma di provare a mettere in pratica l’insegnamento di Gesù. Non a caso quando parla di giustizia sociale il Papa invita a prendere in mano il catechismo, a ripassare i dieci comandamenti, a capire le Beatitudini vera e proprio «carta d’identità del cristiano». Una definizione che abbiamo imparato a conoscere insieme a tante altre immagini suggestive, come il richiamo alla Chiesa ospedale da campo, alle periferie esistenziali da raggiungere, al pastore con l’odore delle pecore per definire i preti, all’esigenza di essere cristiani in uscita, in modo da poter incontrare l’uomo, ogni uomo, là dove vive.

 

Tutto è cominciato il 13 marzo 2013 quando al quinto scrutinio il Conclave scelse come successore di Benedetto XVI un cardinale “preso” «quasi alla fine del mondo», come disse il neo Vescovo di Roma annunciando di aver scelto come nome Francesco in onore del Poverello di Assisi. Da allora ci sono state tre encicliche, cinque Sinodi, altrettante Esortazioni apostoliche, 33 viaggi internazionali, una miriade di prime volte e di gesti profetici, la volontà pertinace di operare cambiamenti, dalla riforma della Curia di Roma, all’impegno di dare spazio alle donne nei luoghi di responsabilità. Tutto portato avanti con profonda umiltà, senza mai perdere di vista il senso della comunità e la consapevolezza di essere il “servo dei servi di Dio”. Bisognoso per rispondere alla chiamata del Signore di preghiera, di tanta preghiera, quella che il Papa chiede alla fine di ogni discorso, di ogni incontro, di ogni saluto.

 

Gli auguri della Cei

 

"Santità,

i Vescovi italiani ricordano con gioia l’ottavo anniversario dalla Sua elezione al soglio pontificio.

Il nostro augurio si fa riconoscenza per il dono della Sua parola, arricchita da segni e iniziative che orientano il cammino delle nostre Chiese verso una nuova tappa evangelizzatrice.

Siamo consapevoli, come Lei ha avuto modo di ricordarci, che «la vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro». Con se stessi, con Dio, con gli altri, con gli ultimi.

Questo periodo della storia, segnato dalla pandemia e dai suoi effetti, ci ha tolto la bellezza dello stare insieme, ma ci ha ancora più radicati nella convinzione che nessun uomo si salva da solo.

Con le nostre comunità, La ringraziamo per averci fatto capire che «abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, che nessuno di noi è un’isola, […] che possiamo costruire il futuro solo insieme, senza escludere nessuno».

La ringraziamo per averci insegnato, con gesti concreti, che lo scorrere dei giorni ha senso pieno quando è vissuto per gli altri.

La ringraziamo per il dono della Sua presenza, affettuosa e paterna, nella vita della nostra Chiesa.

Nel porgerLe gli auguri per questo anniversario, Le rinnoviamo la nostra vicinanza operosa e Le assicuriamo la nostra preghiera".

 

Roma, 13 marzo 2021

 

La Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana

 



 

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Messaggio Cristiano
Udienza Generale - Piazza San Pietro Mercoledì, 10 Settembre 2025

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. III. La Pasqua di Gesù. 6. La morte. «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37)

Cari fratelli e sorelle,
buongiorno e grazie per la vostra presenza, una bella testimonianza!

Oggi contempliamo il vertice della vita di Gesù in questo mondo: la sua morte in croce. I Vangeli attestano un particolare molto prezioso, che merita di essere contemplato con l’intelligenza della fede. Sulla croce, Gesù non muore in silenzio. Non si spegne lentamente, come una luce che si consuma, ma lascia la vita con un grido: «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37). Quel grido racchiude tutto: dolore, abbandono, fede, offerta. Non è solo la voce di un corpo che cede, ma il segno ultimo di una vita che si consegna.

Il grido di Gesù è preceduto da una domanda, una delle più laceranti che possano essere pronunciate: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È il primo verso del Salmo 22, ma sulle labbra di Gesù assume un peso unico. Il Figlio, che ha sempre vissuto in intima comunione con il Padre, sperimenta ora il silenzio, l’assenza, l’abisso. Non si tratta di una crisi di fede, ma dell’ultima tappa di un amore che si dona fino in fondo. Il grido di Gesù non è disperazione, ma sincerità, verità portata al limite, fiducia che resiste anche quando tutto tace.

In quel momento, il cielo si oscura e il velo del tempio si squarcia (cfr Mc 15,33.38). È come se il creato stesso partecipasse a quel dolore, e insieme rivelasse qualcosa di nuovo: Dio non abita più dietro un velo, il suo volto è ora pienamente visibile nel Crocifisso. È lì, in quell’uomo straziato, che si manifesta l’amore più grande. È lì che possiamo riconoscere un Dio che non resta distante, ma attraversa fino in fondo il nostro dolore.

Il centurione, un pagano, lo capisce. Non perché ha ascoltato un discorso, ma perché ha visto morire Gesù in quel modo: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). È la prima professione di fede dopo la morte di Gesù. È il frutto di un grido che non si è disperso nel vento, ma ha toccato un cuore. A volte, ciò che non riusciamo a dire a parole lo esprimiamo con la voce. Quando il cuore è pieno, grida. E questo non è sempre un segno di debolezza, può essere un atto profondo di umanità.

Noi siamo abituati a pensare al grido come a qualcosa di scomposto, da reprimere. Il Vangelo conferisce al nostro grido un valore immenso, ricordandoci che può essere invocazione, protesta, desiderio, consegna. Addirittura, può essere la forma estrema della preghiera, quando non ci restano più parole. In quel grido, Gesù ha messo tutto ciò che gli restava: tutto il suo amore, tutta la sua speranza.

Sì, perché anche questo c’è, nel gridare: una speranza che non si rassegna. Si grida quando si crede che qualcuno possa ancora ascoltare. Si grida non per disperazione, ma per desiderio. Gesù non ha gridato contro il Padre, ma verso di Lui. Anche nel silenzio, era convinto che il Padre era lì. E così ci ha mostrato che la nostra speranza può gridare, persino quando tutto sembra perduto.

Gridare diventa allora un gesto spirituale. Non è solo il primo atto della nostra nascita – quando veniamo al mondo piangendo –: è anche un modo per restare vivi. Si grida quando si soffre, ma pure quando si ama, si chiama, si invoca. Gridare è dire che ci siamo, che non vogliamo spegnerci nel silenzio, che abbiamo ancora qualcosa da offrire.

Nel viaggio della vita, ci sono momenti in cui trattenere tutto dentro può consumarci lentamente. Gesù ci insegna a non avere paura del grido, purché sia sincero, umile, orientato al Padre. Un grido non è mai inutile, se nasce dall’amore. E non è mai ignorato, se è consegnato a Dio. È una via per non cedere al cinismo, per continuare a credere che un altro mondo è possibile.

Cari fratelli e sorelle, impariamo anche questo dal Signore Gesù: impariamo il grido della speranza quando giunge l’ora della prova estrema. Non per ferire, ma per affidarci. Non per urlare contro qualcuno, ma per aprire il cuore. Se il nostro grido sarà vero, potrà essere la soglia di una nuova luce, di una nuova nascita. Come per Gesù: quando tutto sembrava finito, in realtà la salvezza stava per iniziare. Se manifestata con la fiducia e la libertà dei figli di Dio, la voce sofferta della nostra umanità, unita alla voce di Cristo, può diventare sorgente di speranza per noi e per chi ci sta accanto.

LEONE XIV