A tutto campo


Io, migrante al contrario

A Damasco, fra le macerie, a fianco del popolo siriano

 

L'esperienza di una bambina, Myriam di Qaraqoush: 

https://www.youtube.com/watch?v=nZ-yT1w5Cto

 

23 aprile 2016

M. Chiara Biagioni

Maria Grazia Brusadelli, focolarina italiana, ha deciso di trasferirsi a Damasco per condividere le sorti di chi, nonostante tutto, decide di rimanere. "Mi immagino la distruzione materiale. Sento che mi devo inginocchiare di fronte a questi fratelli. Io ho avuto la fortuna di essere nata in Italia, di avere una bella famiglia, di vivere in una realtà di pace. Perché loro e non io?”.

 

C’è chi decide di fare la strada al contrario. Di lasciare l’Italia, un lavoro, una vita sicura per trasferirsi in Siria, a fianco di una popolazione logorata da un conflitto che il 15 marzo scorso è entrato nel suo sesto anno. Si chiama Maria Grazia Brusadelli, è una focolarina italiana, ha 63 anni ed è di Molteno, un paesino vicino a Lecco. Da qualche giorno ha preso un aereo per il Libano. Da Beirut a Damasco dove ad attenderla c’è la comunità del Movimento dei Focolari in Siria.

 

“L’idea – racconta Maria Grazia – è nata da un desiderio forte di essere sempre più coerente con la mia vocazione”. Lo scorso anno, a settembre, papa Francesco di fronte alla tragedia di decine di migliaia di profughi in fuga, lanciò l’appello ad accogliere queste persone. Maria Voce, presidente del Movimento dei Focolari, si lasciò interpellare da quell’appello e “ci chiese: noi come Movimento cosa facciamo? In quel momento – ricorda Maria Grazia – ho sentito che Gesù rivolgeva a me quella domanda: tu cosa stai facendo. Io, in fin de conti, conducevo una vita bella, buona, con le mie abitudini, comodità, con un letto caldo e il cibo tutti i giorni. Allora ho sentito come una seconda chiamata di Gesù”.

 

“Lo avevo seguito con tutto l’entusiasmo a 23 anni. Adesso a 63, risentivo con la maturità di oggi che dovevo rimettere in gioco la mia vita”.

 

Cinque anni di conflitto hanno provocato ovunque morte e distruzione. Secondo i dati dell’Osservatorio siriano per i diritti umani, sono 273.520 le persone morte in Siria. Tra le vittime, 79.585 sono civili e tra loro almeno 13.694 sono bambini e 8.823 le donne. Trasferirsi in un focolare in Siria, non è come andare a vivere a Milano piuttosto che a New York. In Siria la Chiesa cattolica è attiva con gesuiti, francescani, congregazioni di suore. Il Movimento dei Focolari è presente nelle principali città, a Damasco, Aleppo, ma anche in piccoli villaggi. Rimanere può essere pericoloso, ma molti decidono di non partire.

 

“Mi hanno detto: preparati all’impatto. Un conto è vedere la guerra da qui. Un conto sarà essere lì”, racconta Maria Grazia. “Mi immagino la distruzione materiale. Immagino anche una distruzione interiore. La guerra ha logorato dentro le persone. Sento che mi devo inginocchiare di fronte a questi fratelli. Papa Francesco dice: perché loro e non io. Io ho avuto la fortuna di essere nata in Italia, di avere una bella famiglia, di vivere in una realtà di pace. Perché loro e non io?”.

 

Maria Grazia ha avuto la possibilità di incontrare papa Francesco prima di partire. “Si è avvicinato. Mi ha dato la mano. L’ho guardato fisso negli occhi. Un secondo che vale una eternità. Gli ho detto: papa Francesco sono una focolarina in partenza per la Siria e vado a portare lì tutto l’amore suo e della chiesa. E lui mi ha fissato e mi ha detto: Meraviglioso, meraviglioso”.

 

“E’ stato come se mi dicesse, vai a nome mio. Fai sentire che la chiesa è lì, che noi ci siamo, che io sono con loro. Fai in modo che non abbiano mai un attimo in cui si possano sentire soli, che siano certi dell’amore”.

 

Maria Grazia ha messo in conto di poter morire. E’ stato il cardinale João Braz de Aviz, prefetto della congregazione per i religiosi, a renderla consapevole di questa possibilità. “Quando gli ho raccontato che ero in partenza per la Siria lui mi ha detto: ti do una benedizione speciale. E ricordati che se anche dovessi morire, quello che vale è Gesù. E’ lì che ho pensato che sì, poteva succedere”.

 

La Siria è un paese che a causa della guerra si sta svuotando. Un esodo che è arrivato anche sulle coste del Mediterraneo e lungo la rotta balcanica. Sono oltre 4 milioni i rifugiati siriani che hanno lasciato il Paese dall’inizio del conflitto, con una tragica media di un siriano ogni 27 secondi. Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto ospitano il 97 per cento dei rifugiati siriani. Maria Grazia invece ha fatto le valigie per fare la via del rientro: “Non hanno più nessuna prospettiva – dice – e questo spinge la gente a partire. Sono andati via anche le persone migliori, anche le eccellenze. Si direbbe che non c’è più niente. Io non conosco la lingua. Ho però un cuore per amare e vado con questo, certa che la Madonna mi aiuterà a far casa, ad essere madre, compagna, amica di quanti incontrerò in ciò che la vita di ogni giorno porterà con sé ”.

 

 

27 gennaio 2016

 

Nei quartieri e nei sobborghi della città siriana di Deir el Zor, sotto assedio dei jihadisti del sedicente Stato Islamico (Daesh), e in questi giorni stretti anche dalla morsa del freddo, almeno 120mila civili siriani sono ridotti alla fame. A lanciare l’allarme sull’ennesima, potenziale catastrofe umanitaria innescata dal conflitto siriano è l’arcivescovo Jacques Behnan Hindo, alla guida dell’arcidiocesi siro-cattolica di Hassakè-Nisibi.

 

“Da più di un anno, da quando cioè hanno perso postazioni strategiche e una parte dei quartieri cittadini – riferisce all’agenzia Fides l’arcivescovo – i jihadisti hanno intensificato la stretta dell’assedio, non facendo entrare i viveri. Quei pochi prodotti che ancora si trovano – pomodori, scatole di sardine, un po’ di té – vengono venduti al mercato nero con prezzi più che decuplicati, quando va bene”.

 

Lo scorso 17 gennaio, i miliziani del Daesh hanno attaccato quartieri della città massacrando almeno 300 civili e deportandone altre centinaia. L’arcivescovo Hindo, sulla base di informazioni raccolte sul campo, ritiene che la città rappresenti in questo momento un interesse strategico per i jihadisti dello Stato Islamico.

 

“Molti dei miliziani – riferisce l’arcivescovo – cominciano a pensare che Raqqa, la loro capitale in Siria, dove stanno confluendo anche le loro milizie in fuga dall’area di Aleppo, potrebbe cadere. E allora si stanno trasferendo a Deir el Zor, forse con l’intenzione di trasformarla in una loro nuova roccaforte. Ma finora le incursioni aere russe e anche quelle degli Usa sono scattate solo quando i jihadisti hanno provato a occupare l’aeroporto”.

 

A Deir el Zor prima della guerra vivevano mille famiglie cristiane. Adesso, secondo quanto risulta all’arcivescovo Hindo, nella città sarebbe rimasto un solo cristiano.



 

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Messaggio Cristiano
Udienza Generale - Piazza San Pietro Mercoledì, 10 Settembre 2025

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. III. La Pasqua di Gesù. 6. La morte. «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37)

Cari fratelli e sorelle,
buongiorno e grazie per la vostra presenza, una bella testimonianza!

Oggi contempliamo il vertice della vita di Gesù in questo mondo: la sua morte in croce. I Vangeli attestano un particolare molto prezioso, che merita di essere contemplato con l’intelligenza della fede. Sulla croce, Gesù non muore in silenzio. Non si spegne lentamente, come una luce che si consuma, ma lascia la vita con un grido: «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37). Quel grido racchiude tutto: dolore, abbandono, fede, offerta. Non è solo la voce di un corpo che cede, ma il segno ultimo di una vita che si consegna.

Il grido di Gesù è preceduto da una domanda, una delle più laceranti che possano essere pronunciate: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È il primo verso del Salmo 22, ma sulle labbra di Gesù assume un peso unico. Il Figlio, che ha sempre vissuto in intima comunione con il Padre, sperimenta ora il silenzio, l’assenza, l’abisso. Non si tratta di una crisi di fede, ma dell’ultima tappa di un amore che si dona fino in fondo. Il grido di Gesù non è disperazione, ma sincerità, verità portata al limite, fiducia che resiste anche quando tutto tace.

In quel momento, il cielo si oscura e il velo del tempio si squarcia (cfr Mc 15,33.38). È come se il creato stesso partecipasse a quel dolore, e insieme rivelasse qualcosa di nuovo: Dio non abita più dietro un velo, il suo volto è ora pienamente visibile nel Crocifisso. È lì, in quell’uomo straziato, che si manifesta l’amore più grande. È lì che possiamo riconoscere un Dio che non resta distante, ma attraversa fino in fondo il nostro dolore.

Il centurione, un pagano, lo capisce. Non perché ha ascoltato un discorso, ma perché ha visto morire Gesù in quel modo: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). È la prima professione di fede dopo la morte di Gesù. È il frutto di un grido che non si è disperso nel vento, ma ha toccato un cuore. A volte, ciò che non riusciamo a dire a parole lo esprimiamo con la voce. Quando il cuore è pieno, grida. E questo non è sempre un segno di debolezza, può essere un atto profondo di umanità.

Noi siamo abituati a pensare al grido come a qualcosa di scomposto, da reprimere. Il Vangelo conferisce al nostro grido un valore immenso, ricordandoci che può essere invocazione, protesta, desiderio, consegna. Addirittura, può essere la forma estrema della preghiera, quando non ci restano più parole. In quel grido, Gesù ha messo tutto ciò che gli restava: tutto il suo amore, tutta la sua speranza.

Sì, perché anche questo c’è, nel gridare: una speranza che non si rassegna. Si grida quando si crede che qualcuno possa ancora ascoltare. Si grida non per disperazione, ma per desiderio. Gesù non ha gridato contro il Padre, ma verso di Lui. Anche nel silenzio, era convinto che il Padre era lì. E così ci ha mostrato che la nostra speranza può gridare, persino quando tutto sembra perduto.

Gridare diventa allora un gesto spirituale. Non è solo il primo atto della nostra nascita – quando veniamo al mondo piangendo –: è anche un modo per restare vivi. Si grida quando si soffre, ma pure quando si ama, si chiama, si invoca. Gridare è dire che ci siamo, che non vogliamo spegnerci nel silenzio, che abbiamo ancora qualcosa da offrire.

Nel viaggio della vita, ci sono momenti in cui trattenere tutto dentro può consumarci lentamente. Gesù ci insegna a non avere paura del grido, purché sia sincero, umile, orientato al Padre. Un grido non è mai inutile, se nasce dall’amore. E non è mai ignorato, se è consegnato a Dio. È una via per non cedere al cinismo, per continuare a credere che un altro mondo è possibile.

Cari fratelli e sorelle, impariamo anche questo dal Signore Gesù: impariamo il grido della speranza quando giunge l’ora della prova estrema. Non per ferire, ma per affidarci. Non per urlare contro qualcuno, ma per aprire il cuore. Se il nostro grido sarà vero, potrà essere la soglia di una nuova luce, di una nuova nascita. Come per Gesù: quando tutto sembrava finito, in realtà la salvezza stava per iniziare. Se manifestata con la fiducia e la libertà dei figli di Dio, la voce sofferta della nostra umanità, unita alla voce di Cristo, può diventare sorgente di speranza per noi e per chi ci sta accanto.

LEONE XIV