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Cronaca Bianca


APRIRE LE PORTE DI CASA – UN´ARRICCHENTE ESPERIENZA

25 Febbraio 2018

In seguito a un’iniziativa che ci sentivamo di portare avanti nei confronti dei fratelli migranti, abbiamo deciso di aprire le porte della nostra casa. Per questo abbiamo preso contatto con un responsabile della Comunità di S. Egidio a Genova, chiedendogli di poter conoscere uno di questi giovani.

 

Così, abbiamo conosciuto un ragazzo ventenne, africano, originario della Costa D’Avorio, che si trova ad essere ospitato presso una delle strutture di accoglienza presenti nella nostra città.

Pochi giorni dopo averlo incontrato, a gennaio, accompagnato quella volta da una volontaria di S. Egidio, lo abbiamo invitato a cena da noi. Si è, così, creato subito un clima di simpatia e di calore familiare.

 

Da quel momento, il giovane è venuto e viene con regolarità settimanale a cena. Abbiamo cercato, in questo modo, di “ fare famiglia” per uno dei molti ragazzi che sono stati costretti, per motivi di sicurezza, a lasciare i loro paesi, in Africa o in altre parti del mondo e hanno affrontato difficili e lunghi spostamenti per giungere in Europa, in numerosi casi come è noto passando per l’Italia.

 

 Così è stato anche per lui, che dopo un faticoso viaggio con mezzi di fortuna dalla Costa D’avorio alla Libia, si è trovato a cadere nelle mani di squallidi personaggi che, come ci ha raccontato, lo hanno ridotto in stato di schiavitù per tre mesi; tra l’altro veniva frustato e poteva mangiare, solo, una volta al giorno.

 

Poi, è riuscito a trovare il modo di sfuggire alle mani dei suoi carcerieri e ad imbarcarsi su uno di quei “barconi” che, ormai lo sappiamo bene, lasciano le coste libiche in direzione della Sicilia. Ci ha, ancora, raccontato che quell’imbarcazione aveva una falla e pertanto entrava acqua durante la pericolosa traversata. Ci ha detto di aver visto persone morire in quella circostanza; ora, comprensibilmente, prova un senso di paura e repulsione verso il mare.

In Africa ha lasciato la mamma, che con un’altra figlia si è trasferita in Guinea, paese confinante con la Costa D’Avorio  e un papà che,  vive, per motivi di sicurezza, nascosto.

 

 Speriamo che questa nostra iniziativa trovi un seguito anche da parte di altri nuclei familiari, disponibili a offrire un po’ di accoglienza, insomma a farsi un po’ famiglia per questi giovani, certamente meno fortunati dei nostri, che pur nelle difficoltà che la vita di oggi presenta hanno qualcuno vicino.

 

Ora, insieme con altri suoi compagni, fa scuola d’italiano e impara il mestiere di cameriere in attesa di poter trovare un lavoro.

Questa esperienza ci ha molto gratificato. Si e’ trattato di un semplice gesto che, pensiamo, possa andare nella direzione di una maggiore comprensione delle vere ragioni che spingono questi giovani a lasciare i loro Paesi   e risvegliare i nostri animi spesso addormentati e ripiegati su se stessi e i nostri cuori ad aprirsi ad una forma familiare di accoglienza.

Maria, Renato e Davide

 

 

Svizzera – Immigrati che aiutano immigrati

 

 

 

 

Régine, immigrata dalla Repubblica Democratica del Congo, va oltre il suo dramma personale e trasforma la propria sofferenza in idee e progetti per altri nel bisogno.

 

 

Il Papa ai bimbi: i migranti non sono un pericolo, sono in pericolo 

 

Francesco lo afferma durante l’incontro con i piccoli del «Treno dei bambini» proveniente dalla Calabria. Che cosa significa per Bergoglio essere Pontefice? «Il bene che posso fare».

 

Una bambina chiede a Jorge Mario Bergoglio che cosa significhi per lui essere Pontefice: il «bene che io posso fare», è la risposta. Francesco esclama anche, con un gioco di parole: ma quale pericolo per gli altri, i migranti sono loro stessi in pericolo. Lo afferma durante l’incontro con i piccoli del «Treno dei bambini», nell’atrio dell’«aula Paolo VI» in Vaticano. 

 

È un’iniziativa, giunta alla quarta edizione, promossa dal «Cortile dei gentili» del Pontificio Consiglio della Cultura, presieduto dal cardinale Gianfranco Ravasi; quest’anno viene dedicata ai piccoli migranti che hanno affrontato un viaggio in cerca di speranza e rivolta anche ai bambini che li hanno accolti nelle loro città, nelle loro scuole e nelle case. Il tema è «Portati dalle onde», come è successo a un giovane nigeriano che ha lasciato il suo paese con i genitori per fuggire dalla guerra. Ma nel viaggio ha perso papà e mamma in una delle tante tragedie del mare. Lui ce l’ha fatta e si è fermato a Lamezia dove, in una comunità per minori stranieri, ha trovato un’altra famiglia che lo ha accolto come un figlio.  

 

Il «Frecciargento», messo a disposizione da Ferrovie dello Stato, è partito alle 6 di questa mattina da Vibo Valentia, e dopo una breve sosta a Roma Termini, dove è salita a bordo la presidente delle Ferrovie dello Stato Gioia Ghezzi, è giunto alla Stazione di Città del Vaticano. Ad attenderli, il cardinale Giuseppe Bertello, presidente del Governatorato della Città del Vaticano, e Ravasi.  

 

Il Papa durante l’incontro con i 500 bimbi profughi giunti dalla Calabria con il «Treno dei bambini» porta con sé e mostra ai piccoli il giubbotto salvagente di una bambina profuga morta in mare; al Papa lo ha avuto in regalo da un volontario mercoledì scorso all’udienza generale. «Mi ha portato questo giubbetto - raccontato papa Francesco - e piangendo un po’ mi ha detto: “Padre, non ce l’ho fatta. C’era una bambina, sulle onde, ma non ce l’ho fatta a salvarla. Soltanto è rimasto il giubbetto”. Questo giubbetto è di quella bambina. Non voglio rattristarvi - dice ancora Bergoglio ai bambini - ma voi siete coraggiosi e conoscete la verità. Sono in pericolo: tanti ragazzi, bambini, bambine, uomini, donne, sono in pericolo. Pensiamo a questa bambina? Come si chiamava? Ma, non so: una bambina senza nome. Ognuno di voi le dia il nome che vuole, nel suo cuore. Lei è in cielo, lei ci guarda».  

 

I migranti «non sono un pericolo, ma sono in pericolo». Così papa Francesco fotografa la situazione di chi è in fuga da guerre e persecuzioni.  

 

L’incontro odierno è stato introdotto dalla lettura di una lettera, rivolta al mondo, dei bambini italiani che hanno accolto in Calabria bimbi migranti: «Abbiamo riflettuto su tutti quegli adulti e bambini che lasciano la loro terra a causa della guerra e delle persecuzioni. Molti non riescono nemmeno a raggiungere la meta a causa di quelle onde che dovrebbero garantire loro la salvezza e che, invece, li tradiscono e li portano alla morte. Pensiamo a loro e non riusciamo a capire come nel mondo possano esserci tante ingiustizie. Promettiamo di accogliere chiunque arriverà nel nostro Paese, senza considerare chi ha un colore di pelle diverso, chi parla una lingua differente o professa un’altra religione, un nemico pericoloso».  

 

Una bimba, durante l’incontro del Papa con i 500 piccoli profughi del «Treno dei bambini», domanda a Bergoglio cosa vuole dire per lui essere Papa: il «bene che io posso fare» è stata la risposta di papa Francesco. «Ma io sento - aggiunge - che Gesù mi ha chiamato per questo. Gesù ha voluto che io fossi cristiano, e un cristiano deve fare questo. E anche Gesù ha voluto che io fossi sacerdote, vescovo e un sacerdote e un vescovo devono fare questo. Io sento che Gesù mi dice di fare questo: questo è quello che sento».  

 

Le mani di tutti i bambini liberano in volo centinaia di palloncini bianchi, in ricordo di tutti quei bimbi migranti che mai sono arrivati. 

 

 

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Mentre continua il dramma nel Mediterraneo, delle persone che fuggono dalle guerre e la fame, in un comune di montagna del nord d’Italia, l'accoglienza si traduce in una rinascita della comunità e del territorio.

 

20150826-01Cinque anni fa era inquadrato nelle classifiche tra i paesi con più alto tasso di “marginalità” sociale ed economica in Piemonte. Ma l’intera comunità ha imparato ad accogliere. Oggi, 30 profughi, quasi tutti africani oltre a una famiglia del Kosovo con tre bambini, vivono da otto mesi in un immobile di proprietà del Cottolengo.

 

«Li abbiamo adottati», confidano due ultraottantenni sedute sulla panchina nella piazza del municipio. Lo avevano fatto anche durante la guerra, fa notare il presidente della “Pro Loco”, con gli ebrei e i partigiani. La Storia ritorna. Il sindaco Giacomo Lisa non ha dovuto convincere i 180 residenti del paese. Di questi solo 90 vivono a Lemie tutto l’anno.

 

Era successo già nel 2011, quando era meno forte il problema dell’accoglienza dei profughi e dei rifugiati arrivati sulle coste italiane a bordo di un barcone arrugginito. Per Lemie già allora, quell’arrivo di “amici” aveva rappresentato una rinascita della comunità. 12 bambini, seguiti da formatori e dal parroco, erano anche stati battezzati nella chiesa parrocchiale durante una cerimonia destinata a entrare nella piccola storia del paese. Una festa. Tutte famiglie con bambini, accolti da famiglie e da altri bambini in quelle valli alpine.

 

«Certo, all’inizio eravamo un po’ sorpresi – spiega Giacomo Lisa -, la popolazione qui ha una media di età molto alta, non è semplice aprirsi. O almeno non lo era. Non ho dovuto dare molte spiegazioni perché nessuno mi ha fatto domande. Accogliere ci è parso naturale». Così nel 2011, così oggi.

 

E come allora, uomini e donne arrivati dalla Libia e da altri Paesi dell’Africa sub sahariana vorrebbero lavorare, rendersi utili. «Con la Provincia di Torino nel 2011 avevamo anche messo in piedi delle borse lavoro. Adesso alcuni stanno facendo domanda per prestare un “volontariato di restituzione” che fa bene a loro e a noi», commenta il primo cittadino.

 

20150826-03Non solo questi “amici profughi” vorrebbero fermarsi in Italia, è la stessa comunità a chiedere loro di restare. «I cittadini li hanno subito accettati, direi di più, accolti – conferma Giacomo Lisa – e un paio di persone del posto hanno trovato lavoro come formatori, d’intesa con un’associazione legata ad una cooperativa.

 

I problemi? «Solo di ordine burocratico. Hanno fatto domanda di protezione, come rifugiati, ma i tempi per le risposte sono lunghissimi». Poi i trasporti: «Chiederò a chi gestisce i pullman per Torino, di aiutarli; trovo inutile far pagare loro il biglietto per le corse che fanno verso il capoluogo».

 

Quando chiedi al sindaco se il paese grazie ai profughi africani sia rinato, lui sorride e apre le braccia.
«Guardi questa valle. È piena di seconde case, aperte solo qualche settimana d’estate. Molti giovani continuano ad andarsene, anche se il legame con il paese resta forte. Le nuove persone arrivate hanno portato molta vivacità. Basta scendere al parco giochi in un pomeriggio di sole per vedere finalmente dei bambini che giocano, urlano, si divertono. Hanno pure salvato la scuola». Scusi? «Certo. Cinque bambini in più nella scuola hanno permesso di mantenere più insegnanti e una migliore qualità formativa. Cosa possiamo volere di più da questi amici che abbiamo accolto? La famiglia si è allargata e Lemie non è più così piccolo e marginale. Vogliamo essere un paese diverso, nuovo, aperto a tutti».

 

Fonte: Città Nuova online



 

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Messaggio Cristiano
UDIENZA GENERALE - Aula Paolo VI Mercoledì, 11 Dicembre 2024

Ciclo di Catechesi. Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza. 17. Lo Spirito e la Sposa dicono: “Vieni!”. Lo Spirito Santo e la speranza cristiana

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Siamo arrivati al termine delle nostre catechesi sullo Spirito Santo e la Chiesa. Dedichiamo quest’ultima riflessione al titolo che abbiamo dato all’intero ciclo, e cioè: “Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il Popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza”. Questo titolo si riferisce a uno degli ultimi versetti della Bibbia, nel Libro dell’Apocalisse, che dice: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”» (Ap 22,17). A chi è rivolta questa invocazione? È rivolta a Cristo risorto. Infatti, sia San Paolo (cfr 1 Cor 16,22), sia la Didaché, uno scritto dei tempi apostolici, attestano che nelle riunioni liturgiche dei primi cristiani risuonava, in aramaico, il grido “Maràna tha!”, che significa appunto “Vieni Signore!”. Una preghiera al Cristo perché venga.

In quella fase più antica l’invocazione aveva uno sfondo che oggi diremmo escatologico. Esprimeva, infatti, l’ardente attesa del ritorno glorioso del Signore. E tale grido e l’attesa che esso esprime non si sono mai spenti nella Chiesa. Ancora oggi, nella Messa, subito dopo la consacrazione, essa proclama la morte e la risurrezione del Cristo “nell’attesa della sua venuta”. La Chiesa è in attesa della venuta del Signore.

Ma questa attesa della venuta ultima di Cristo non è rimasta l’unica e la sola. Ad essa si è unita anche l’attesa della sua venuta continua nella situazione presente e pellegrinante della Chiesa. Ed è a questa venuta che pensa soprattutto la Chiesa, quando, animata dallo Spirito Santo, grida a Gesù: “Vieni!”.

È avvenuto un cambiamento – meglio, uno sviluppo – pieno di significato, a proposito del grido “Vieni!”, “Vieni, Signore!”. Esso non è abitualmente rivolto solo a Cristo, ma anche allo Spirito Santo stesso! Colui che grida è ora anche Colui al quale si grida. “Vieni!” è l’invocazione con cui iniziano quasi tutti gli inni e le preghiere della Chiesa rivolti allo Spirito Santo: «Vieni, o Spirito creatore», diciamo nel Veni Creator, e «Vieni, Spirito Santo», «Veni Sancte Spiritus», nella sequenza di Pentecoste; e così in tante altre preghiere. È giusto che sia così, perché, dopo la Risurrezione, lo Spirito Santo è il vero “alter ego” di Cristo, Colui che ne fa le veci, che lo rende presente e operante nella Chiesa. È Lui che “annuncia le cose future” (cfr Gv 16,13) e le fa desiderare e attendere. Ecco perché Cristo e lo Spirito sono inseparabili, anche nell’economia della salvezza.

Lo Spirito Santo è la sorgente sempre zampillante della speranza cristiana. San Paolo ci ha lasciato queste preziose parole: «Il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo» (Rm 15,13). Se la Chiesa è una barca, lo Spirito Santo è la vela che la spinge e la fa avanzare nel mare della storia, oggi come in passato!

Speranza non è una parola vuota, o un nostro vago desiderio che le cose vadano per il meglio: la speranza è una certezza, perché è fondata sulla fedeltà di Dio alle sue promesse. E per questo si chiama virtù teologale: perché è infusa da Dio e ha Dio per garante. Non è una virtù passiva, che si limita ad attendere che le cose succedano. È una virtù sommamente attiva che aiuta a farle succedere. Qualcuno, che ha lottato per la liberazione dei poveri, ha scritto queste parole: «Lo Spirito Santo è all’origine del grido dei poveri. È la forza data a quelli che non hanno forza. Egli guida la lotta per l’emancipazione e per la piena realizzazione del popolo degli oppressi» [1].

Il cristiano non può accontentarsi di avere speranza; deve anche irradiare speranza, essere seminatore di speranza. È il dono più bello che la Chiesa può fare all’umanità intera, soprattutto nei momenti in cui tutto sembra spingere ad ammainare le vele.

L’apostolo Pietro esortava i primi cristiani con queste parole: «Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi». Ma aggiungeva una raccomandazione: «Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto» (1 Pt 3,15-16). E questo perché non sarà tanto la forza degli argomenti a convincere le persone, quanto l’amore che in essi sapremo mettere. Questa è la prima e più efficace forma di evangelizzazione. Ed è aperta a tutti!

Cari fratelli e sorelle, che lo Spirito ci aiuti sempre, sempre ad “abbondare nella speranza in virtù dello Spirito Santo”!

[1] J. Comblin, Spirito Santo e liberazione, Assisi 1989, 236.

Papa Francesco