Cronaca Bianca


PASSAGGIO a VENTIMIGLIA

Oggetto: Emergenza freddo

http://www.ilsecoloxix.it/p/multimedia/imperia/2018/02/26/ACBepzbB-ventimiglia_migranti_bivacco.shtml


Carissime e carissimi,

i nostri Amici di Ventimiglia chiedono il nostro contributo per continuare ad assistere chi ha fame e freddo.

Hanno stilato un elenco di cose di prima necessità col nome di: Lista della spesa.

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Lista della spesa per emergenza freddo a Ventimiglia, per i migranti:
Legna da ardere: 18 €/quintale; stimiamo 10 quintali per coprire una settimana. Totale 200
Guanti: 3
€/paio; stimati 100 paia necessari per una settimana. Totale 300
Berretti: 4€/l'uno, necessari 50 pezzi
; spesa stimata 200 €.
Servono anche: scarpe, giacche
termiche di cui non siamo in grado di stimarne l’importo.

Le offerte si possono inviare a Città Fraterna che se ne fa carico di inoltrarle ai nostri di Ventimiglia.

 

Coordinate Bancarie:

Beneficiario: ASSOCIAZIONE  CITTA’ FRATERNA – ONLUS - sede Genova
IBAN
: IT 77Y061750142300000 2358880

CAUSALE: Erogazione liberale per Ventimiglia.

Il bonifico dà diritto alla detrazione fiscale.


Grazie
Anna Maria Gallo

 

 

«Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio» (Lv 19,34). Inizia così il messaggio di papa Francesco per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato che si celebra domenica 14 gennaio. Il messaggio si sviluppa poi attorno a quattro parole “Accogliere, proteggere, promuovere e integrare i migranti e i rifugiati”.

 

Recentemente siamo stati a Ventimiglia nel cul de sac per dirla in francese, o se preferiamo il filtro, l’imbuto dentro il quale centinaia di persone giunte qui, per sfuggire alle guerre e alle carestie cercano quotidianamente di passare la frontiera per poter raggiungere l’Europa del nord. E abbiamo visitato l’accampamento degli “invisibili”, coloro cioè che sognano di passare il confine il prima possibile. Per questo non vogliono essere schedati, e per questo non bussano al centro di accoglienza della Croce Rossa, ma vivono in una baraccopoli sotto il viadotto che porta in Val Roya.

 

Stringe il cuore e un groppo in gola soffoca qualsiasi pensiero. Ma loro sono sereni. In gruppetti giocano a palla, altri attorno ad un fuoco parlottano. Ci salutano e si raccontano. C’è invece chi sbircia da sotto i tendoni per vedere cosa sta succedendo. Chi ancora su un tappeto raccolto forse nel cassonetto della spazzatura prega Allah. E chi ancora ci spiega che è al decimo tentativo di attraversamento della frontiera. Sempre ripreso e sempre riportato in Italia. Qui è vietato pensare, si può solo constatare il livello dell’umanità. Si può solo osservare in silenzio, con le lacrime agli occhi, la fine dell’Europa dei popoli e l’inizio dell’Europa degli egoismi.

 

«Ma la felicità è tutt’altra cosa, è quella che ciascuno di noi tiene nel suo cuore e dona a chi gli sta accanto», dice un ragazzo nigeriano. Ed è davvero così. Qui incontriamo Hassan, un tuareg giunto dal deserto del Mali per sfuggire ai guerrieri dell’Isis. Ha vent’anni e fa il pizzaiolo a San Remo. I suoi fratelli più piccoli, due maschi e una femmina, vivono con i genitori che allevano bestiame nel deserto del Sahara. Appena potrà tornerà con loro. «Là – mi dice – è molto bello. Siamo felici, viviamo nelle grandi tende e ci spostiamo dove c’è acqua e erba. La vita è una meraviglia, prego Allah che mi aiuti ogni giorno».

 

Ci spostiamo nel bar vicino alla stazione per un caffè. La proprietaria da giovane è immigrata dal sud Italia nell’Emilia con i genitori, poi si sono trasferiti in Australia per tanti anni, e poi Ventimiglia. Sa cosa significa essere o, come nel suo caso, sentirsi stranieri. E così il suo bar, da quando Ventimiglia è stata presa d’assalto, è diventato punto di accoglienza. «Due estati fa – racconta – c’era una lunga fila di persone dall’altro lato della strada, si riparavano dal caldo all’ombra. C’erano donne incinte e bimbi piccoli. Li ho invitati nel locale per bere e ripararsi. Da allora il locale è diventato un punto amico per queste persone». Ci si può stare anche senza consumare. Addirittura nella saletta dove si giocava a carte c’è ora un armadio con album e colori. I bimbi vanno a disegnare e un’amica insegna la lingua italiana a chi lo desidera. Ma ci si può anche cercare lavoro, casa. E soprattutto calore umano. Naturalmente in questo bar i cittadini di Ventimiglia non ci mettono più piede.

 

Ormai s’è fatto buio e dai paesetti della valle Roya scendono le auto dei francesi, come pure da Nizza e Montpellier, portano la cena. Il riso, le uova, le bevande calde, il formaggio. La frutta. Ogni giorno è così: pranzo alla mensa Caritas gestita da tanti volontari che portano vivande. La sera da oltralpe i francesi portano la cena. Abbracci, auguri. Panettoni. Qualcosa da mangiare, felicità da donare nella maniera più genuina e sogni da coltivare. Quella di poter un giorno essere considerati persone a tutti gli effetti. Non uomini schedati, senza patria e senza diritti.

Silvano Gianti

 

 

Sul lungomare di Corso Italia gli omoni africani ritirano in fretta, ma con cura, pezzo dopo pezzo la loro mercanzia. Incartano una ad una le borse da signora, le collane. I foulard dai colori vivaci. Tra poco farà buio e in passeggiata sarà impossibile vendere. Sono quasi le 17, la tramontana gela anche i pensieri più nobili delle persone e sbatte sugli scogli le onde schiumose del mare serale, mentre il sole laggiù s’è già tuffato da un bel po’ nell’acqua, e le persone affrettano il passo verso casa.

 

Livio invece da una settimana non c’è più, era arrivato a fine estate, ora è tornato, almeno per alcuni giorni a Milano. «La mia bimba più piccola ha cinque anni e mi aspetta per queste feste. Pensa che io lavori», mi disse salutandomi prima di partire. Lui vive di elemosina, dipinge quadri, dorme in auto e mangia alla mensa. Ha raccolto un po’ di soldi e con questi busserà alla casa dove abita la moglie e i suoi tre figli. E’ separato, ma spera che almeno un paio di giorni possa risentire il caldo di quella che per tanti anni fu la sua famiglia.

 

Freedom: non ha ancora trent’anni, fisico asciutto da sportivo, comportamento distinto elegante, si muove di fretta tra le tante persone che scendono e risalgono il carruggio che porta sulla spiaggetta affollata di Boccadasse. Laggiù c’è la gelateria e poi due bar che servono aperitivi a fiumi. E alcuni ristoranti. Il passaggio è obbligato, c’è solo quel carruggio. Le luci di Natale, le musiche, l’atmosfera, è tutto per questa festa ormai alle porte. Tra questo via vai impetuoso di umanità Freedom “lavora”. Ramazza e paletta pulisce con cura certosina il carruggio. Carta delle caramelle, tovaglioli degli aperitivi che il vento fa svolazzare e poi filtri delle sigarette, buste delle patatine. Raccoglie tutto con cura e butta nel sacco della monnezza. E’ arrivato a Genova quest’estate su uno dei tanti barconi che attraversano il Mediterraneo dalla Nigeria. Lui ha rischiato l’avventura, i suoi fratelli e i genitori sono rimasti laggiù. Vive in un centro di accoglienza, ha la mattinata libera, il pomeriggio invece frequenta la scuola di italiano. Ma Freedom ormai in questi pochi mesi si è conquistato Boccadasse. Lo osservo, arriva con il bus delle 8,30, va in chiesa a dire le preghiere: «io sono cristiano come la mia famiglia». Poi in sacrestia ritira la scopa e la paletta e si mette a lavorare. Da ultimo lava i gradini d’ingresso della chiesa di S. Antonio. «Vengo volentieri, qui siete miei amici. Mi volete bene e anche io voglio bene a voi». Freedom è talmente simpatico che non si può non volergli bene. «Appena ti vede ti accoglie con un grande sorriso – dice il proprietario di un locale – ti domanda come stai. Ti mette serenità anche se magari ti sei svegliato con la luna storta». Sulla spiaggetta tra i titolari dei locali c’è chi gli offre il caffe, chi il panino, chi la brioches. E chi la mancia perché pulisce per davvero. Da quest’estate Freedom «è uno di noi, è di questo borgo!» non è mancato nemmeno un giorno e ora la sua presenza da un sapore diverso anche a questo Natale. «Almeno qui in questo scampolo di città ha portato la gioia fresca del suo volto e “provocato” una goccia di solidarietà, in tante persone».

 

Livio, Freedom, gli amici africani, appartengono ormai a questo borgo di mare, appartengono alla chiesa. Con la loro fiducia ci mostrano in modo sobrio, e spesso gioioso, quanto sia decisivo vivere dell’essenziale e abbandonarci alla provvidenza del Padre. I poveri, dice il papa, “non sono un problema: sono una risorsa a cui attingere per accogliere e vivere l’essenza del Vangelo”. E ci ricordano in questo Natale che anche le cose più piccole hanno sempre un valore immenso.

 

Silvano Gianti

 

 

QUALE COLORE AVRA’ LA CULTURA DOMANI?    Domanda molto introspettiva se si fa un istantaneo bilancio del valore che si da oggi alla cultura…ma è proprio il tema che definisce la mission di Città Nuova – gruppo editoriale – per questo nuovo anno: con un’attenzione all’inclusione e molto rispetto per tutte le diversità.

 

Ho approfondito questa ardua, ma attualissima tematica attraverso la declinazione di tre slogan:

“Leggi ciò che vivi”: informarci sugli accadimenti internazionali e formarci al Carisma dell’Unità di Chiara Lubich che fa della globalizzazione una sintesi illuminata;

 

“Trasmetti ciò che pensi”: un invito a donare questa “luce”, Schopenhauer dice “Solo la luce che uno accende a sé stesso, risplende in seguito anche per gli altri”;

 

“Condividi ciò che sei”: comunicare il patrimonio esperienziale e i frutti del Carisma dell’Unità vissuto non è un dovere, neanche una questione di volontà, è una possibilità!

 

Allora coraggio, possiamo contribuire alla disseminazione di buone pratiche culturali, che formano, suscitano imitabilità, danno speranza!

 

Titti Grisolia

Per eventuali informazioni potete contattarci:

Titti  (Matilde) Grisolia 3474238292 (Genova)

Francesco Zelaschi 3476443580 (Voghera)

Vittoria Rossi 3388392768 (Genova)

Paola Amoretti 3386470159 (Imperia) 

Bruno Costa 3492966204 (La Spezia)

 

 

 

Micheline Mwendike, studente congolese, è impegnata in un movimento di giovani per il superamento delle differenze culturali e delle ideologie all’origine dei tanti conflitti che hanno insanguinato il suo Paese.

 

Micheline Mwendike

Micheline Mwendike

 

«Nella Repubblica Democratica del Congo – esordisce Micheline che incontriamo a Castel Gandolfo (Roma) a margine del Congresso OnCity promosso dai Focolari – le differenze sono molto evidenti. Ci sono oltre 400 fra tribù ed etnie e da una città all’altra non solo cambiano le abitudini alimentari ma anche gli idiomi che nel Paese sono più di 800. Inoltre, nella sola Goma, la mia città, ci sono più di 200 tra chiese di diverse confessioni cristiane, moschee musulmane e altre forme di culto».

 

 Quando la differenza etnica e religiosa ha cominciato ad essere un problema?
«Durante la dittatura del presidente Mobutu le sofferenze della popolazione dal punto di vista economico, culturale e anche politico erano diventate troppo grandi. E la concezione su “chi è l’altro”, con la sua lingua e la sua cultura, è stata manipolata dalle ideologie che hanno portato a ritenere la cultura dell’altro un fattore da eliminare. Così, nel 1992, è iniziata la guerra nei villaggi contro il nemico che era la tribù di fronte.  Chi oggi ha meno di 24 anni non può sapere cosa sia la pace perché ha visto solamente la guerra e i danni che provoca. Tutti infatti abbiamo perduto persone care. Ma la guerra non ha distrutto le nostre culture. Esse esistono ancora, con tutta la loro bellezza. Noi giovani che cerchiamo di vivere la spiritualità dell’unità, vogliamo ritrovare i legami che ci uniscono e che ci rendono complementari gli uni agli altri».

 

Sei impegnata in un movimento di giovani che vogliono la pace del Congo, di cosa si tratta?
«È un movimento di azione formato da giovani congolesi. Sogniamo una società in cui si rispetti la dignità delle persone e la giustizia sociale. Il nostro Paese è ricco ma i suoi abitanti sono poveri. Vogliamo contribuire attivamente alla costruzione del Congo. Siamo convinti che il cambiamento debba partire da noi congolesi senza distinzioni di tribù, religione, lingua. In questo senso lavoriamo per coscientizzare la popolazione sul suo potenziale e sui suoi doveri. Io stessa, nel coinvolgermi attivamente in azioni per contribuire al cambiamento, mi sento più forte, più protagonista. Anche grazie all’accesso alle informazioni e all’amicizia con persone di tribù diverse,  ho capito che in tutti i gruppi ci sono i buoni e i cattivi, che sono stati alcuni leader per motivi di potere a strumentalizzare l’odio».

 

Qual è il vostro contributo specifico come movimento di giovani?
«Cerchiamo di far conoscere alla gente la verità sui fatti e sulla vita del Paese. Per esempio: abbiamo denunciato un massacro sul quale il governo non ha fatto alcuna inchiesta per trovare i colpevoli, né cercato di proteggere la popolazione della zona che era stata colpita. Organizziamo discussioni su temi importanti come la pace, il ruolo della comunità internazionale, quello di noi giovani, cercando di gettare le basi su come costruire insieme il nostro futuro. Vogliamo diffondere la convinzione che le soluzioni si trovano nella collaborazione fra tutti. Per noi giovani è difficile capire il perché della spirale di violenza che per lunghi anni ha devastato il Paese. Per i giovani è più facile comprendere che l’appartenenza tribale è uno dei tanti aspetti dell’identità delle persone. Il messaggio che vogliamo far passare è che le nostre rispettive diversità non vanno viste come un motivo di divisione ma come un fattore positivo che rende l’umanità più ricca».

 



 

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Messaggio Cristiano
Udienza Generale - Piazza San Pietro Mercoledì, 10 Settembre 2025

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. III. La Pasqua di Gesù. 6. La morte. «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37)

Cari fratelli e sorelle,
buongiorno e grazie per la vostra presenza, una bella testimonianza!

Oggi contempliamo il vertice della vita di Gesù in questo mondo: la sua morte in croce. I Vangeli attestano un particolare molto prezioso, che merita di essere contemplato con l’intelligenza della fede. Sulla croce, Gesù non muore in silenzio. Non si spegne lentamente, come una luce che si consuma, ma lascia la vita con un grido: «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37). Quel grido racchiude tutto: dolore, abbandono, fede, offerta. Non è solo la voce di un corpo che cede, ma il segno ultimo di una vita che si consegna.

Il grido di Gesù è preceduto da una domanda, una delle più laceranti che possano essere pronunciate: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È il primo verso del Salmo 22, ma sulle labbra di Gesù assume un peso unico. Il Figlio, che ha sempre vissuto in intima comunione con il Padre, sperimenta ora il silenzio, l’assenza, l’abisso. Non si tratta di una crisi di fede, ma dell’ultima tappa di un amore che si dona fino in fondo. Il grido di Gesù non è disperazione, ma sincerità, verità portata al limite, fiducia che resiste anche quando tutto tace.

In quel momento, il cielo si oscura e il velo del tempio si squarcia (cfr Mc 15,33.38). È come se il creato stesso partecipasse a quel dolore, e insieme rivelasse qualcosa di nuovo: Dio non abita più dietro un velo, il suo volto è ora pienamente visibile nel Crocifisso. È lì, in quell’uomo straziato, che si manifesta l’amore più grande. È lì che possiamo riconoscere un Dio che non resta distante, ma attraversa fino in fondo il nostro dolore.

Il centurione, un pagano, lo capisce. Non perché ha ascoltato un discorso, ma perché ha visto morire Gesù in quel modo: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). È la prima professione di fede dopo la morte di Gesù. È il frutto di un grido che non si è disperso nel vento, ma ha toccato un cuore. A volte, ciò che non riusciamo a dire a parole lo esprimiamo con la voce. Quando il cuore è pieno, grida. E questo non è sempre un segno di debolezza, può essere un atto profondo di umanità.

Noi siamo abituati a pensare al grido come a qualcosa di scomposto, da reprimere. Il Vangelo conferisce al nostro grido un valore immenso, ricordandoci che può essere invocazione, protesta, desiderio, consegna. Addirittura, può essere la forma estrema della preghiera, quando non ci restano più parole. In quel grido, Gesù ha messo tutto ciò che gli restava: tutto il suo amore, tutta la sua speranza.

Sì, perché anche questo c’è, nel gridare: una speranza che non si rassegna. Si grida quando si crede che qualcuno possa ancora ascoltare. Si grida non per disperazione, ma per desiderio. Gesù non ha gridato contro il Padre, ma verso di Lui. Anche nel silenzio, era convinto che il Padre era lì. E così ci ha mostrato che la nostra speranza può gridare, persino quando tutto sembra perduto.

Gridare diventa allora un gesto spirituale. Non è solo il primo atto della nostra nascita – quando veniamo al mondo piangendo –: è anche un modo per restare vivi. Si grida quando si soffre, ma pure quando si ama, si chiama, si invoca. Gridare è dire che ci siamo, che non vogliamo spegnerci nel silenzio, che abbiamo ancora qualcosa da offrire.

Nel viaggio della vita, ci sono momenti in cui trattenere tutto dentro può consumarci lentamente. Gesù ci insegna a non avere paura del grido, purché sia sincero, umile, orientato al Padre. Un grido non è mai inutile, se nasce dall’amore. E non è mai ignorato, se è consegnato a Dio. È una via per non cedere al cinismo, per continuare a credere che un altro mondo è possibile.

Cari fratelli e sorelle, impariamo anche questo dal Signore Gesù: impariamo il grido della speranza quando giunge l’ora della prova estrema. Non per ferire, ma per affidarci. Non per urlare contro qualcuno, ma per aprire il cuore. Se il nostro grido sarà vero, potrà essere la soglia di una nuova luce, di una nuova nascita. Come per Gesù: quando tutto sembrava finito, in realtà la salvezza stava per iniziare. Se manifestata con la fiducia e la libertà dei figli di Dio, la voce sofferta della nostra umanità, unita alla voce di Cristo, può diventare sorgente di speranza per noi e per chi ci sta accanto.

LEONE XIV