Martedì 22 Ottobre 2024
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Cronaca Bianca


PASSAGGIO a VENTIMIGLIA

Oggetto: Emergenza freddo

http://www.ilsecoloxix.it/p/multimedia/imperia/2018/02/26/ACBepzbB-ventimiglia_migranti_bivacco.shtml


Carissime e carissimi,

i nostri Amici di Ventimiglia chiedono il nostro contributo per continuare ad assistere chi ha fame e freddo.

Hanno stilato un elenco di cose di prima necessità col nome di: Lista della spesa.

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Lista della spesa per emergenza freddo a Ventimiglia, per i migranti:
Legna da ardere: 18 €/quintale; stimiamo 10 quintali per coprire una settimana. Totale 200
Guanti: 3
€/paio; stimati 100 paia necessari per una settimana. Totale 300
Berretti: 4€/l'uno, necessari 50 pezzi
; spesa stimata 200 €.
Servono anche: scarpe, giacche
termiche di cui non siamo in grado di stimarne l’importo.

Le offerte si possono inviare a Città Fraterna che se ne fa carico di inoltrarle ai nostri di Ventimiglia.

 

Coordinate Bancarie:

Beneficiario: ASSOCIAZIONE  CITTA’ FRATERNA – ONLUS - sede Genova
IBAN
: IT 77Y061750142300000 2358880

CAUSALE: Erogazione liberale per Ventimiglia.

Il bonifico dà diritto alla detrazione fiscale.


Grazie
Anna Maria Gallo

 

 

«Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio» (Lv 19,34). Inizia così il messaggio di papa Francesco per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato che si celebra domenica 14 gennaio. Il messaggio si sviluppa poi attorno a quattro parole “Accogliere, proteggere, promuovere e integrare i migranti e i rifugiati”.

 

Recentemente siamo stati a Ventimiglia nel cul de sac per dirla in francese, o se preferiamo il filtro, l’imbuto dentro il quale centinaia di persone giunte qui, per sfuggire alle guerre e alle carestie cercano quotidianamente di passare la frontiera per poter raggiungere l’Europa del nord. E abbiamo visitato l’accampamento degli “invisibili”, coloro cioè che sognano di passare il confine il prima possibile. Per questo non vogliono essere schedati, e per questo non bussano al centro di accoglienza della Croce Rossa, ma vivono in una baraccopoli sotto il viadotto che porta in Val Roya.

 

Stringe il cuore e un groppo in gola soffoca qualsiasi pensiero. Ma loro sono sereni. In gruppetti giocano a palla, altri attorno ad un fuoco parlottano. Ci salutano e si raccontano. C’è invece chi sbircia da sotto i tendoni per vedere cosa sta succedendo. Chi ancora su un tappeto raccolto forse nel cassonetto della spazzatura prega Allah. E chi ancora ci spiega che è al decimo tentativo di attraversamento della frontiera. Sempre ripreso e sempre riportato in Italia. Qui è vietato pensare, si può solo constatare il livello dell’umanità. Si può solo osservare in silenzio, con le lacrime agli occhi, la fine dell’Europa dei popoli e l’inizio dell’Europa degli egoismi.

 

«Ma la felicità è tutt’altra cosa, è quella che ciascuno di noi tiene nel suo cuore e dona a chi gli sta accanto», dice un ragazzo nigeriano. Ed è davvero così. Qui incontriamo Hassan, un tuareg giunto dal deserto del Mali per sfuggire ai guerrieri dell’Isis. Ha vent’anni e fa il pizzaiolo a San Remo. I suoi fratelli più piccoli, due maschi e una femmina, vivono con i genitori che allevano bestiame nel deserto del Sahara. Appena potrà tornerà con loro. «Là – mi dice – è molto bello. Siamo felici, viviamo nelle grandi tende e ci spostiamo dove c’è acqua e erba. La vita è una meraviglia, prego Allah che mi aiuti ogni giorno».

 

Ci spostiamo nel bar vicino alla stazione per un caffè. La proprietaria da giovane è immigrata dal sud Italia nell’Emilia con i genitori, poi si sono trasferiti in Australia per tanti anni, e poi Ventimiglia. Sa cosa significa essere o, come nel suo caso, sentirsi stranieri. E così il suo bar, da quando Ventimiglia è stata presa d’assalto, è diventato punto di accoglienza. «Due estati fa – racconta – c’era una lunga fila di persone dall’altro lato della strada, si riparavano dal caldo all’ombra. C’erano donne incinte e bimbi piccoli. Li ho invitati nel locale per bere e ripararsi. Da allora il locale è diventato un punto amico per queste persone». Ci si può stare anche senza consumare. Addirittura nella saletta dove si giocava a carte c’è ora un armadio con album e colori. I bimbi vanno a disegnare e un’amica insegna la lingua italiana a chi lo desidera. Ma ci si può anche cercare lavoro, casa. E soprattutto calore umano. Naturalmente in questo bar i cittadini di Ventimiglia non ci mettono più piede.

 

Ormai s’è fatto buio e dai paesetti della valle Roya scendono le auto dei francesi, come pure da Nizza e Montpellier, portano la cena. Il riso, le uova, le bevande calde, il formaggio. La frutta. Ogni giorno è così: pranzo alla mensa Caritas gestita da tanti volontari che portano vivande. La sera da oltralpe i francesi portano la cena. Abbracci, auguri. Panettoni. Qualcosa da mangiare, felicità da donare nella maniera più genuina e sogni da coltivare. Quella di poter un giorno essere considerati persone a tutti gli effetti. Non uomini schedati, senza patria e senza diritti.

Silvano Gianti

 

 

Sul lungomare di Corso Italia gli omoni africani ritirano in fretta, ma con cura, pezzo dopo pezzo la loro mercanzia. Incartano una ad una le borse da signora, le collane. I foulard dai colori vivaci. Tra poco farà buio e in passeggiata sarà impossibile vendere. Sono quasi le 17, la tramontana gela anche i pensieri più nobili delle persone e sbatte sugli scogli le onde schiumose del mare serale, mentre il sole laggiù s’è già tuffato da un bel po’ nell’acqua, e le persone affrettano il passo verso casa.

 

Livio invece da una settimana non c’è più, era arrivato a fine estate, ora è tornato, almeno per alcuni giorni a Milano. «La mia bimba più piccola ha cinque anni e mi aspetta per queste feste. Pensa che io lavori», mi disse salutandomi prima di partire. Lui vive di elemosina, dipinge quadri, dorme in auto e mangia alla mensa. Ha raccolto un po’ di soldi e con questi busserà alla casa dove abita la moglie e i suoi tre figli. E’ separato, ma spera che almeno un paio di giorni possa risentire il caldo di quella che per tanti anni fu la sua famiglia.

 

Freedom: non ha ancora trent’anni, fisico asciutto da sportivo, comportamento distinto elegante, si muove di fretta tra le tante persone che scendono e risalgono il carruggio che porta sulla spiaggetta affollata di Boccadasse. Laggiù c’è la gelateria e poi due bar che servono aperitivi a fiumi. E alcuni ristoranti. Il passaggio è obbligato, c’è solo quel carruggio. Le luci di Natale, le musiche, l’atmosfera, è tutto per questa festa ormai alle porte. Tra questo via vai impetuoso di umanità Freedom “lavora”. Ramazza e paletta pulisce con cura certosina il carruggio. Carta delle caramelle, tovaglioli degli aperitivi che il vento fa svolazzare e poi filtri delle sigarette, buste delle patatine. Raccoglie tutto con cura e butta nel sacco della monnezza. E’ arrivato a Genova quest’estate su uno dei tanti barconi che attraversano il Mediterraneo dalla Nigeria. Lui ha rischiato l’avventura, i suoi fratelli e i genitori sono rimasti laggiù. Vive in un centro di accoglienza, ha la mattinata libera, il pomeriggio invece frequenta la scuola di italiano. Ma Freedom ormai in questi pochi mesi si è conquistato Boccadasse. Lo osservo, arriva con il bus delle 8,30, va in chiesa a dire le preghiere: «io sono cristiano come la mia famiglia». Poi in sacrestia ritira la scopa e la paletta e si mette a lavorare. Da ultimo lava i gradini d’ingresso della chiesa di S. Antonio. «Vengo volentieri, qui siete miei amici. Mi volete bene e anche io voglio bene a voi». Freedom è talmente simpatico che non si può non volergli bene. «Appena ti vede ti accoglie con un grande sorriso – dice il proprietario di un locale – ti domanda come stai. Ti mette serenità anche se magari ti sei svegliato con la luna storta». Sulla spiaggetta tra i titolari dei locali c’è chi gli offre il caffe, chi il panino, chi la brioches. E chi la mancia perché pulisce per davvero. Da quest’estate Freedom «è uno di noi, è di questo borgo!» non è mancato nemmeno un giorno e ora la sua presenza da un sapore diverso anche a questo Natale. «Almeno qui in questo scampolo di città ha portato la gioia fresca del suo volto e “provocato” una goccia di solidarietà, in tante persone».

 

Livio, Freedom, gli amici africani, appartengono ormai a questo borgo di mare, appartengono alla chiesa. Con la loro fiducia ci mostrano in modo sobrio, e spesso gioioso, quanto sia decisivo vivere dell’essenziale e abbandonarci alla provvidenza del Padre. I poveri, dice il papa, “non sono un problema: sono una risorsa a cui attingere per accogliere e vivere l’essenza del Vangelo”. E ci ricordano in questo Natale che anche le cose più piccole hanno sempre un valore immenso.

 

Silvano Gianti

 

 

QUALE COLORE AVRA’ LA CULTURA DOMANI?    Domanda molto introspettiva se si fa un istantaneo bilancio del valore che si da oggi alla cultura…ma è proprio il tema che definisce la mission di Città Nuova – gruppo editoriale – per questo nuovo anno: con un’attenzione all’inclusione e molto rispetto per tutte le diversità.

 

Ho approfondito questa ardua, ma attualissima tematica attraverso la declinazione di tre slogan:

“Leggi ciò che vivi”: informarci sugli accadimenti internazionali e formarci al Carisma dell’Unità di Chiara Lubich che fa della globalizzazione una sintesi illuminata;

 

“Trasmetti ciò che pensi”: un invito a donare questa “luce”, Schopenhauer dice “Solo la luce che uno accende a sé stesso, risplende in seguito anche per gli altri”;

 

“Condividi ciò che sei”: comunicare il patrimonio esperienziale e i frutti del Carisma dell’Unità vissuto non è un dovere, neanche una questione di volontà, è una possibilità!

 

Allora coraggio, possiamo contribuire alla disseminazione di buone pratiche culturali, che formano, suscitano imitabilità, danno speranza!

 

Titti Grisolia

Per eventuali informazioni potete contattarci:

Titti  (Matilde) Grisolia 3474238292 (Genova)

Francesco Zelaschi 3476443580 (Voghera)

Vittoria Rossi 3388392768 (Genova)

Paola Amoretti 3386470159 (Imperia) 

Bruno Costa 3492966204 (La Spezia)

 

 

 

Micheline Mwendike, studente congolese, è impegnata in un movimento di giovani per il superamento delle differenze culturali e delle ideologie all’origine dei tanti conflitti che hanno insanguinato il suo Paese.

 

Micheline Mwendike

Micheline Mwendike

 

«Nella Repubblica Democratica del Congo – esordisce Micheline che incontriamo a Castel Gandolfo (Roma) a margine del Congresso OnCity promosso dai Focolari – le differenze sono molto evidenti. Ci sono oltre 400 fra tribù ed etnie e da una città all’altra non solo cambiano le abitudini alimentari ma anche gli idiomi che nel Paese sono più di 800. Inoltre, nella sola Goma, la mia città, ci sono più di 200 tra chiese di diverse confessioni cristiane, moschee musulmane e altre forme di culto».

 

 Quando la differenza etnica e religiosa ha cominciato ad essere un problema?
«Durante la dittatura del presidente Mobutu le sofferenze della popolazione dal punto di vista economico, culturale e anche politico erano diventate troppo grandi. E la concezione su “chi è l’altro”, con la sua lingua e la sua cultura, è stata manipolata dalle ideologie che hanno portato a ritenere la cultura dell’altro un fattore da eliminare. Così, nel 1992, è iniziata la guerra nei villaggi contro il nemico che era la tribù di fronte.  Chi oggi ha meno di 24 anni non può sapere cosa sia la pace perché ha visto solamente la guerra e i danni che provoca. Tutti infatti abbiamo perduto persone care. Ma la guerra non ha distrutto le nostre culture. Esse esistono ancora, con tutta la loro bellezza. Noi giovani che cerchiamo di vivere la spiritualità dell’unità, vogliamo ritrovare i legami che ci uniscono e che ci rendono complementari gli uni agli altri».

 

Sei impegnata in un movimento di giovani che vogliono la pace del Congo, di cosa si tratta?
«È un movimento di azione formato da giovani congolesi. Sogniamo una società in cui si rispetti la dignità delle persone e la giustizia sociale. Il nostro Paese è ricco ma i suoi abitanti sono poveri. Vogliamo contribuire attivamente alla costruzione del Congo. Siamo convinti che il cambiamento debba partire da noi congolesi senza distinzioni di tribù, religione, lingua. In questo senso lavoriamo per coscientizzare la popolazione sul suo potenziale e sui suoi doveri. Io stessa, nel coinvolgermi attivamente in azioni per contribuire al cambiamento, mi sento più forte, più protagonista. Anche grazie all’accesso alle informazioni e all’amicizia con persone di tribù diverse,  ho capito che in tutti i gruppi ci sono i buoni e i cattivi, che sono stati alcuni leader per motivi di potere a strumentalizzare l’odio».

 

Qual è il vostro contributo specifico come movimento di giovani?
«Cerchiamo di far conoscere alla gente la verità sui fatti e sulla vita del Paese. Per esempio: abbiamo denunciato un massacro sul quale il governo non ha fatto alcuna inchiesta per trovare i colpevoli, né cercato di proteggere la popolazione della zona che era stata colpita. Organizziamo discussioni su temi importanti come la pace, il ruolo della comunità internazionale, quello di noi giovani, cercando di gettare le basi su come costruire insieme il nostro futuro. Vogliamo diffondere la convinzione che le soluzioni si trovano nella collaborazione fra tutti. Per noi giovani è difficile capire il perché della spirale di violenza che per lunghi anni ha devastato il Paese. Per i giovani è più facile comprendere che l’appartenenza tribale è uno dei tanti aspetti dell’identità delle persone. Il messaggio che vogliamo far passare è che le nostre rispettive diversità non vanno viste come un motivo di divisione ma come un fattore positivo che rende l’umanità più ricca».

 



 

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Messaggio Cristiano
UDIENZA GENERALE Piazza San Pietro - Mercoledì, 9 Ottobre 2024

Ciclo di Catechesi. Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza. 8. «Tutti furono colmati di Spirito Santo». Lo Spirito Santo negli Atti degli Apostoli

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel nostro itinerario di catechesi sullo Spirito Santo e la Chiesa, oggi facciamo riferimento al Libro degli Atti degli Apostoli.

Il racconto della discesa dello Spirito Santo a Pentecoste inizia con la descrizione di alcuni segni preparatori – il vento fragoroso e le lingue di fuoco –, ma trova la sua conclusione nell’affermazione: «E tutti furono colmati di Spirito Santo» (At 2,4). San Luca – che ha scritto gli Atti degli Apostoli – mette in luce che lo Spirito Santo è Colui che assicura l’universalità e l’unità della Chiesa. L’effetto immediato dell’essere “colmati di Spirito Santo” è che gli Apostoli «cominciarono a parlare in altre lingue» e uscirono dal Cenacolo per annunciare Gesù Cristo alla folla (cfr At 2,4ss).

Così facendo, Luca ha voluto mettere in risalto la missione universale della Chiesa, come segno di una nuova unità tra tutti i popoli. In due modi vediamo che lo Spirito lavora per l’unità. Da un lato, spinge la Chiesa verso l’esterno, perché possa accogliere un numero sempre maggiore di persone e di popoli; dall’altro lato, la raccoglie al suo interno per consolidare l’unità raggiunta. Le insegna a estendersi in universalità e a raccogliersi in unità. Universale e una: questo è il mistero della Chiesa.

Il primo dei due movimenti – l’universalità – lo vediamo in atto nel capitolo 10 degli Atti, nell’episodio della conversione di Cornelio. Il giorno di Pentecoste gli Apostoli avevano annunciato Cristo a tutti i giudei e gli osservanti della legge mosaica, a qualsiasi popolo appartenessero. Ci vuole un’altra “pentecoste”, molto simile alla prima, quella in casa del centurione Cornelio, per indurre gli Apostoli ad allargare l’orizzonte e far cadere l’ultima barriera, quella tra giudei e pagani (cfr At 10-11).

A questa espansione etnica si aggiunge quella geografica. Paolo – si legge sempre negli Atti degli Apostoli (cfr 16,6-10) – voleva annunciare il Vangelo in una nuova regione dell’Asia Minore; ma, è scritto, «lo Spirito Santo glielo aveva impedito»; voleva passare in Bitinia «ma lo Spirito di Gesù non lo permise». Si scopre subito il perché di questi sorprendenti divieti dello Spirito: la notte seguente l’Apostolo riceve in sogno l’ordine di passare in Macedonia. Il Vangelo usciva così dalla nativa Asia ed entrava in Europa.

Il secondo movimento dello Spirito Santo – quello che crea l’unità – lo vediamo in atto nel capitolo 15 degli Atti, nello svolgimento del cosiddetto concilio di Gerusalemme. Il problema è come far sì che l’universalità raggiunta non comprometta l’unità della Chiesa. Lo Spirito Santo non opera sempre l’unità in maniera repentina, con interventi miracolosi e risolutivi, come a Pentecoste. Lo fa anche – e nella maggioranza dei casi – con un lavorio discreto, rispettoso dei tempi e delle divergenze umane, passando attraverso persone e istituzioni, preghiera e confronto. In maniera, diremmo oggi, sinodale. Così infatti avvenne, nel concilio di Gerusalemme, per la questione degli obblighi della Legge mosaica da imporre ai convertiti dal paganesimo. La sua soluzione fu annunciata a tutta la Chiesa con le ben note parole: «Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi...» (At 15,28).

Sant’Agostino spiega l’unità operata dallo Spirito Santo con una immagine, divenuta classica: «Ciò che è l’anima per il corpo umano, lo Spirito Santo lo è per il corpo di Cristo che è la Chiesa» [1]. L’immagine ci aiuta a capire una cosa importante. Lo Spirito Santo non opera l’unità della Chiesa dall’esterno; non si limita a comandare di essere uniti. È Lui stesso il “vincolo di unità”. È Lui che fa l’unità della Chiesa.

Come sempre, concludiamo con un pensiero che ci aiuta a passare dall’insieme della Chiesa a ciascuno di noi. L’unità della Chiesa è l’unità tra persone e non si realizza a tavolino, ma nella vita. Si realizza nella vita. Tutti vogliamo l’unità, tutti la desideriamo dal profondo del cuore; eppure essa è tanto difficile da ottenere che, anche all’interno del matrimonio e della famiglia, l’unione e la concordia sono tra le cose più difficili da raggiungere e più ancora da mantenere.

Il motivo – per cui è difficile l’unità tra noi – è che ognuno vuole, sì, che si faccia l’unità, ma intorno al proprio punto di vista, senza pensare che l’altro che gli sta davanti pensa esattamente la stessa cosa circa il “suo” punto di vista. Per questa via, l’unità non fa che allontanarsi. L’unità di vita, l’unità di Pentecoste, secondo lo Spirito, si realizza quando ci si sforza di mettere al centro Dio, non sé stessi. Anche l’unità dei cristiani si costruisce così: non aspettando che gli altri ci raggiungano là dove noi siamo, ma muovendoci insieme verso Cristo.

Chiediamo allo Spirito Santo che ci aiuti ad essere strumenti di unità e di pace.

[1] Discorsi, 267, 4

Papa Francesco