Testimoni del nostro tempo


Mariam Baouardy, il "fiore di Galilea", seme di pace per il Medio Oriente

Palestina in festa per la canonizzazione di domenica di Suor Maria Alfonsina Danil Ghattas e Maria di Gesù Crocifisso Baouardy, le prime Sante dall'epoca di Cristo. Oltre 2000 fedeli a Roma guidati dal patriarca Twal

 

Un ritratto della carmelitana suor Maria di Gesù Crocifisso, mistica dell'umiltà e teologa dello Spirito Santo, canonizzata stamane da Papa Francesco

 

Città del Vaticano, 17 Maggio 2015 (ZENIT.org)

 

Un villaggio arabo di Terra Santa, una coppia di sposi poveri ma pieni di fede, e un pellegrinaggio a Betlemme: è il contesto in cui sboccia il "fiore di Galilea", suor Maria di Gesù Crocifisso, al secolo Mariam Baouardy, che il Papa ha canonizzato oggi insieme ad altre tre Beate.

 

La vita straordinaria di questa carmelitana, nata nel 1846 ad Abellin, non lontano da Nazareth (allora nella Siria dominata dagli Ottomani) è strettamente legata alla Vergine, alla quale fu consacrata. I genitori infatti, che prima di lei avevano perso uno dopo l’altro 12 figli, fecero un voto e un pellegrinaggio a piedi alla grotta della Natività per chiedere il dono di una figlia; per questo, in ringraziamento, offrirono alla Madre di Dio l’equivalente in cera del peso della bambina.

 

Fin dall’infanzia, Mariam manifestò doni di grazia particolari, ma soffrì pure prove e tribolazioni di ogni genere; rimasta orfana a tre anni, andò poi a lavorare come domestica, preferendo le famiglie più povere, per le quali chiese persino l’elemosina; fu sospettata di furto, finì in prigione. A 17 anni ebbe la prima estasi.

 

L’ingresso al Carmelo, a Pau in Francia, all’età di 21 anni, fu preceduto dagli anni vissuti come figlia di S. Giuseppe, (“prima di divenire figlia di Santa Teresa”, le aveva rivelato la Madonna): per 2 anni fu postulante tra le suore di San Giuseppe dell’Apparizione, a Marsiglia. La promessa di verginità, la fece all’età di 13 anni, quando proposta in sposa a un egiziano, si tagliò i capelli in segno di consacrazione, scatenando la furia dello zio, che per questo la umiliò e la trattò come una serva. Di lì a poco, Mariam arrivò alle soglie della morte: in risposta ad un turco che voleva convincerla a convertirsi all’islam, si proclamò figlia della chiesa cattolica.

 

Per questo il servo musulmano le tagliò la gola. Furono “le nozze di sangue”, l’8 settembre 1859. In seguito racconterà di essersi trovata in cielo; a restituirle la vita “un’infermiera vestita di azzurro” che la curò con delicatezza straordinaria, e dalla quale ebbe rivelazioni sulla sua vita; dichiarò anni dopo, che si trattava della Vergine. A prova dell’accaduto le rimase sempre la voce rauca, una cicatrice di 10 centimetri sul collo, e fu accertato che le mancavano persino alcuni anelli della trachea. Come constatò un celebre medico di Marsiglia, sebbene ateo, “doveva esserci un Dio, perché non avrebbe potuto sopravvivere in quelle condizioni, senza un miracolo”.

 

Nella sua vita intensa e tormentata, ha viaggiato dai sentieri della Galilea ad Alessandria, a Beirut, alla Francia, fino a Mangalore in India, dove fu la prima carmelitana a fare la professione, all’età di 24 anni, nel 1871. Tornò poi a Pau, a pochi chilometri da Lourdes; di lì nel 1875 partì per la sua Terra Santa.

 

Per l’aspetto di fanciulla le consorelle la chiamavano “la piccola araba”, lei però si definiva “piccolo nulla”. Fu proprio lei - che parlava a stento il francese, e non capiva certo di architettura - a descrivere il progetto e dirigere i lavori per la costruzione del monastero che doveva sorgere a Betlemme: come una torre, nel luogo indicatole in visione dal Signore, su una collina, prospiciente la Natività. Fece profezie, ebbe persino una rivelazione sul luogo in cui “il Signore spezzò il pane”, Emmaus Nikopolis, a circa 30 km da Gerusalemme, in seguito alla quale furono effettuati gli scavi e trovati resti importantissimi.

 

Malgrado le molte grazie ricevute, mantenne sempre l’obbedienza ai superiori, “obbedienza fino al miracolo”, fin dopo la morte: fu questa la prova che tutto veniva da Dio. Nella sua semplicità, chiamava le stimmate e le manifestazioni della Passione, che viveva nel suo corpo, “la mia malattia”, e chiese alla sua cara suor Veronica di starle lontano, perché non ne fosse contagiata. Talora invece, svegliandosi dalle estasi si scusava per la sua “pigrizia”.

 

Ma la passione che viveva, fu compresa meglio dopo la sua morte, avvenuta il 26 agosto del 1878, per una cancrena causata da una caduta, avvenuta portando l’acqua agli operai. Si spense tra dolori indicibili nel monastero in costruzione sulla collina del re Davide. Quando venne estratto il cuore, fu rilevata la cicatrice di un ferita profonda e non recente. Il suo cuore fu “transverberato” come quello di altri santi, tra cui la sua madre S. Teresa d’Avila.

 

La vita di Mariam ha coinciso con il pontificato di Pio IX che chiamava “mio padre”. E fu perfetta coetanea di Bernadette Soubirous. Con la santa francese, oltre al fatto di essere illetterata, condivide la grandissima umiltà, che ha lasciato a bocca aperta intellettuali e sapienti. Il suo biografo Amedeo Brunot si disse “impressionato dal fascino esercitato da questa misteriosa araba su tanti intellettuali cattolici: Maurice Barrès, Léon Bloy, Francis James, Julien Green, Jacques Maritain, Louis Massignon, René Schwob... Non può essere segno di un messaggio universale? Dai suoi gesti, dalle sue parole, dalla sua persona si diffonde un forte profumo biblico... “.

 

Straordinari i pensieri della piccola carmelitana sull’umiltà:  “Domando all’Altissimo: Dove abiti? Egli mi risponde: cerco ogni giorno una nuova dimora… Sono felice in un anima bassa, in un presepio. Domando sempre a Gesù dove abita – In una grotta; lo sai come ho schiacciato il nemico? Nascendo così basso…”. E ancora: “Oggi la santità non è la preghiera, né le visioni o le rivelazioni, né la scienza di parlar bene, né i cilici; né le penitenze; è l’umiltà”. “Nell’inferno –disse la religiosa- si trovano tutte le specie di virtù, ma non l’umiltà; in Paradiso si trovano tutte le specie di difetti, ma non l’orgoglio”.  

 

Significativo il fatto che proprio Mariam, così piena di grazie straordinarie, metteva in guardia dalle cercare rivelazioni e cose sorprendenti. “Non andate a vedere e consultare qui e là lo straordinario, altrimenti “la vostra fede s’indebolirà”, raccomandava da parte del Signore. “Se vi si dice: la Madonna appare qui o là; vi è un’anima straordinaria in tal luogo, non vi andate… Il Signore vi dice: Sii fedele alla fede, alla Chiesa, al Vangelo. Se sarete fedele alla Chiesa, al Vangelo, Egli sarà sempre con voi e non vi lascerà mai”.

 

Figlia della sua terra, cantò nello stile orientale – e con le immagini semplici, che conosciamo dalle parabole e dai salmi -  la bellezza del creato, l’amore del Creatore e la fragilità dell’essere creatura. “Considerate le api; esse svolazzano di fiore in fiore, entrano poi nell'alveare per comporre il miele. Imitatele; cogliete dovunque il succo dell'umiltà. Il miele è dolce; l'umiltà ha il gusto di Dio; fa gustare Dio”.

 

E’ per l’umiltà di “questa piccola illetterata” che l’intellettuale ebreo, convertito al cristianesimo, René Schwob espresse l’auspicio che ella “possa diventare la patrona degli intellettuali, una volta avvenuta la canonizzazione. Essa è l'ideale che li può liberare dall'orgoglio”.

 

Di famiglia maronita, battezzata ed educata nella chiesa greco-cattolica, carmelitana, Mariam porta in dote alla chiesa universale la ricchezza dell’Oriente cristiano e una particolare devozione allo Spirito Santo. “Il mondo e le comunità religiose – disse - trascurano la vera devozione al Paraclito. Per questo vi è l'errore, la disunione, e non vi è la pace. Non si chiama abbastanza la luce come deve essere chiamata. Anche nei seminari è trascurata. Chi invocherà lo Spirito Santo, non morrà nell'errore”. E al Papa scrisse: “Mi è stato detto che, nell'universo intero, bisogna stabilire che ogni sacerdote dica una messa dello Spirito Santo tutti i mesi. Coloro che vi assisteranno avranno una grazia e una luce particolarissima”. Venti anni dopo, Leone XIII con l’enciclica “Divinum illud munus” prescrisse la novena allo Spirito Santo in preparazione alla Pentecoste.

 

Bellissime le invocazioni di Mariam allo Spirito Santo: “Sorgente di pace, di luce vieni ad illuminarmi; ho fame vieni a nutrirmi; ho sete, vieni a dissetarmi; sono cieca, vieni a illuminarmi; sono povera vieni ad arricchirmi; sono ignorante vieni ad istruirmi. Spirito Santo mi abbandono a te”.

 

 

 

Città del Vaticano, 15 Maggio 2015 (ZENIT.org)

 

Sono tanti, troppi, i segni legati alla canonizzazione delle due Beate palestinesi che il Papa eleverà domenica agli onori degli altari, da non poter pensare che si tratti di un’opera di Dio. L’evento – che vedrà la proclamazione anche di altre due Beate, una italiana e una francese - è stato presentato stamane in Sala Stampa vaticana da padre Rifat Bader, direttore del Catholic Center for Studies and Media di Amman.

 

Anzitutto, Suor Maria Alfonsina Danil Ghattas e Maria di Gesù Crocifisso Baouardy - religiosa, Fondatrice della Congregazione delle Suore del Rosario di Gerusalemme la prima; monaca professa dei Carmelitani Scalzi la seconda - rappresentano “una nuova luce” in un momento in cui la Terra Santa è ferita da violenze, divisioni, difficoltà politiche, lotte religiose. Esse restituiscono quindi alla terra di Gesù “il suo vero volto”, spesso distorto dalle cattive notizie, e mostrano “che la santità è possibile anche nelle situazioni più difficili”, come ha osservato il patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal, all'indomani del suo arrivo a Roma, insieme ad una delegazione di oltre 2000 fedeli da Palestina, Giordania e Israele.

 

Poi, la cerimonia di canonizzazione si svolge a pochi giorni dalla recente intesa della Commissione bilaterale sull’Accordo globale tra Santa Sede e “Stato di Palestina”, il cui testo è ancora in attesa della firma delle rispettive autorità. È vero ciò che ha affermato padre Federico Lombardi nel briefing di stamane: i due eventi “sono indipendenti”, la data di canonizzazione è stata stabilita molto prima... Ma per i palestinesi l’emozione nel vedere le parole “Stato di Palestina” nero su bianco per la prima volta in un documento pontificio è difficile da slegare all’emozione nel vedere sulla facciata della Basilica di San Pietro i volti di due connazionali (alcuni reputano tuttavia una 'forzatura' che si parli di Sante palestinesi visto l'assenza all'epoca della loro vita di una 'Palestina' e la provenienza dalla Galilea di una e dal Libano dell'altra).

 

Da annoverare tra i 'segni' anche il fatto che entrambe le due nuove Sante si chiamano Maryam, nome comune alla religione cristiana, ebraica e musulmana. “Vuol dire che le tre religioni possono dialogare assieme senza discriminazione", osserva mons. Twal. Un altro segnale dunque per un momento storico come quello attuale dove il dialogo interreligioso è messo a dura prova, specie con l’islam.

 

In proposito va ricordato che anche Santa Maria di Gesù Crocifisso soffrì a causa dell'estremismo: fu sgozzata dai musulmani per non aver abiurato e guarita poi dalla Madonna, come si legge nella sua biografia. Non è questo un segno oggi, nel bel mezzo di tragedie terroristiche e persecuzioni religiose perpetrate proprio in Medio Oriente? “Lei – ha detto infatti padre Bader - intercede oggi per ogni persona che viene uccisa per la sua fede; ci richiama con forza a rispettare le differenze di religione, di razza, e a considerare ogni uomo come creatura di Dio, creata a sua immagine e somiglianza”.

 

Le due Beate possono dunque essere “modello di perfezione per i cristiani come per i musulmani e gli ebrei”, ha detto il patriarca latino di Gerusalemme. Ma anche per tutti i consacrati che celebrano il loro speciale Anno indetto dal Papa. Ecco un’altra coincidenza: nei 12 mesi dedicati ai religiosi viene elevata agli onori degli altari suor Maria Alphonsine, che, con la forza della preghiera anzitutto, e poi con l'appoggio delle autorità religiose, fondò la prima Congregazione araba locale. Essa – ha spiegato padre Bader – “ha oggi una grande presenza nel mondo arabo: in Giordania, Palestina, Libano, emirati del Golfo, avvertita soprattutto nei campi dell'educazione religiosa e dell'insegnamento”.

 

In particolare, la Congregazione, fiorita nel secolo XIX e all'inizio del secolo XX, ha avuto un ruolo decisivo nella promozione della donna araba nei campi della cultura, dell'educazione e dell'insegnamento. “Chi studia la storia della Palestina e della Giordania, all'inizio del secolo XX, riscopre questo contributo delle Suore del Rosario nella società araba, un contributo che continua a essere offerto anche oggi, malgrado le difficoltà che si affrontano in questi giorni”, ha evidenziato il sacerdote. E ha aggiunto: “Siamo circondati dalla guerra e dalla morte, e allora Dio ci manda donne sante per guidarci, con la loro luce e intercessione e con la speranza che ci portano”.

 

Insomma quella di domenica non è una semplice canonizzazione ma l'inizio di “una nuova speranza per le figlie e i figli della Palestina e della Giordania e per il Medio Oriente”, oltre cheun evento spirituale molto importante per gli abitanti della Terra Santa” che ricorre per la prima volta sin dal tempo degli Apostoli e dei cristiani dei primi secoli. Tutti hanno voluto quindi parteciparvi; anche il presidente Palestinese, Mahmoud Abbas Abu Mazin, che, dopo l'incontro di oggi col presidente della Repubblica Mattarella, sarà ricevuto domattina in udienza da Papa Francesco.

 

Saranno inoltre presenti alla funzione arcivescovi melkiti e maroniti, presuli mediorientali e un gran numero di sacerdoti, religiosi, religiose e fedeli delle varie Chiese. Chi non potrà venire a Roma – ha informato padre Lombardi – seguirà la cerimonia via satellite anche in diverse località dello Stato di Palestina, “dove i cristiani sono il 2% della società”. 

 

Durante la Messa, la Superiora generale delle Suore del Rosario, Inés al-Ya'qoub, porterà all'altare le reliquie di Marie Alphonsine, accompagnata da Sr Praxède Sweidan e da parenti della Santa: Nawal Daniel Mizyid e Patrik Daniel. Le reliquie della “piccola araba”, Maria di Gesù Crocifisso Baouardy, saranno portate invece dalla Suora Carmelitana Anna Delmas accompagnata da Sr Ferial Qarra'a (da Betlemme), da Sr Jocelyne Vero e da Rezeq Baouardy, parente della Santa.

 

Le offerte saranno presentate poi da Munir Elias, ingegnere della Galilea miracolato grazie all'intercessione di Marie Alphonsine, accompagnato da sua madre, e dalla famiglia della Sicilia che ha ottenuto la guarigione del suo bambino, gravemente malato dalla nascita, con l'intercessione della Baouardy. Durante le preghiere dei fedeli, Sr Mariam Baabich, della Congregazione del Rosario, farà una preghiera in arabo per la pace e la giustizia.

 

Alla vigilia della canonizzazione, infine, ci sarà un incontro di preghiera nella Basilica di Santa Sabina all'Aventino a Roma, alle 17.30, che vedrà la partecipazione dei membri della delegazione della Terra Santa. Lunedì 18 maggio il Patriarca Twal presiederà poi una Messa di ringraziamento a Santa Maria Maggiore in lingua araba, con canti in arabo. Probabilmente, ha notato Bader, “si tratta della prima Messa patriarcale nella storia celebrata in arabo nella prima Basilica romana dedicata alla Theotokos”. Anche questo un segno dei tempi.

 



 

Versione senza grafica
Versione PDF


<<<  Torna alla pagina precedente

Home - Cerca  
Messaggio Cristiano
Udienza Generale - Piazza San Pietro Mercoledì, 10 Settembre 2025

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. III. La Pasqua di Gesù. 6. La morte. «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37)

Cari fratelli e sorelle,
buongiorno e grazie per la vostra presenza, una bella testimonianza!

Oggi contempliamo il vertice della vita di Gesù in questo mondo: la sua morte in croce. I Vangeli attestano un particolare molto prezioso, che merita di essere contemplato con l’intelligenza della fede. Sulla croce, Gesù non muore in silenzio. Non si spegne lentamente, come una luce che si consuma, ma lascia la vita con un grido: «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37). Quel grido racchiude tutto: dolore, abbandono, fede, offerta. Non è solo la voce di un corpo che cede, ma il segno ultimo di una vita che si consegna.

Il grido di Gesù è preceduto da una domanda, una delle più laceranti che possano essere pronunciate: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È il primo verso del Salmo 22, ma sulle labbra di Gesù assume un peso unico. Il Figlio, che ha sempre vissuto in intima comunione con il Padre, sperimenta ora il silenzio, l’assenza, l’abisso. Non si tratta di una crisi di fede, ma dell’ultima tappa di un amore che si dona fino in fondo. Il grido di Gesù non è disperazione, ma sincerità, verità portata al limite, fiducia che resiste anche quando tutto tace.

In quel momento, il cielo si oscura e il velo del tempio si squarcia (cfr Mc 15,33.38). È come se il creato stesso partecipasse a quel dolore, e insieme rivelasse qualcosa di nuovo: Dio non abita più dietro un velo, il suo volto è ora pienamente visibile nel Crocifisso. È lì, in quell’uomo straziato, che si manifesta l’amore più grande. È lì che possiamo riconoscere un Dio che non resta distante, ma attraversa fino in fondo il nostro dolore.

Il centurione, un pagano, lo capisce. Non perché ha ascoltato un discorso, ma perché ha visto morire Gesù in quel modo: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). È la prima professione di fede dopo la morte di Gesù. È il frutto di un grido che non si è disperso nel vento, ma ha toccato un cuore. A volte, ciò che non riusciamo a dire a parole lo esprimiamo con la voce. Quando il cuore è pieno, grida. E questo non è sempre un segno di debolezza, può essere un atto profondo di umanità.

Noi siamo abituati a pensare al grido come a qualcosa di scomposto, da reprimere. Il Vangelo conferisce al nostro grido un valore immenso, ricordandoci che può essere invocazione, protesta, desiderio, consegna. Addirittura, può essere la forma estrema della preghiera, quando non ci restano più parole. In quel grido, Gesù ha messo tutto ciò che gli restava: tutto il suo amore, tutta la sua speranza.

Sì, perché anche questo c’è, nel gridare: una speranza che non si rassegna. Si grida quando si crede che qualcuno possa ancora ascoltare. Si grida non per disperazione, ma per desiderio. Gesù non ha gridato contro il Padre, ma verso di Lui. Anche nel silenzio, era convinto che il Padre era lì. E così ci ha mostrato che la nostra speranza può gridare, persino quando tutto sembra perduto.

Gridare diventa allora un gesto spirituale. Non è solo il primo atto della nostra nascita – quando veniamo al mondo piangendo –: è anche un modo per restare vivi. Si grida quando si soffre, ma pure quando si ama, si chiama, si invoca. Gridare è dire che ci siamo, che non vogliamo spegnerci nel silenzio, che abbiamo ancora qualcosa da offrire.

Nel viaggio della vita, ci sono momenti in cui trattenere tutto dentro può consumarci lentamente. Gesù ci insegna a non avere paura del grido, purché sia sincero, umile, orientato al Padre. Un grido non è mai inutile, se nasce dall’amore. E non è mai ignorato, se è consegnato a Dio. È una via per non cedere al cinismo, per continuare a credere che un altro mondo è possibile.

Cari fratelli e sorelle, impariamo anche questo dal Signore Gesù: impariamo il grido della speranza quando giunge l’ora della prova estrema. Non per ferire, ma per affidarci. Non per urlare contro qualcuno, ma per aprire il cuore. Se il nostro grido sarà vero, potrà essere la soglia di una nuova luce, di una nuova nascita. Come per Gesù: quando tutto sembrava finito, in realtà la salvezza stava per iniziare. Se manifestata con la fiducia e la libertà dei figli di Dio, la voce sofferta della nostra umanità, unita alla voce di Cristo, può diventare sorgente di speranza per noi e per chi ci sta accanto.

LEONE XIV