Giovedì 19 Dicembre 2024

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A tu per tu


Un´arma infallibile per affrontare le sfide di ogni famiglia

Nodo cruciale è quello della santità del matrimonio e della famiglia, una sfida che oggi sentiamo con particolare urgenza in vista del Sinodo. Un tempo di grazia in cui prepararsi a combattere la buona battaglia della fede. Ma da dove cominciare se non dalla preghiera?

Il 2 giugno sono stata invitata al Convegno Regionale della Famiglia dei Servi del Cuore Immacolato di Maria in Toscana. Un movimento meraviglioso che mi ha riservato una calorosa accoglienza. Prima di iniziare il mio intervento, mentre pregavo davanti all’immagine della Madonna Pellegrina di Fatima, ho ricordato di aver letto di un episodio che il card. Caffarra cita spesso. All’indomani dell’incarico che papa Giovanni Paolo II gli affidò di ideare e fondare il Pontificio Istituto per Studi su Matrimonio e Famiglia, Caffarra scrisse a suor Lucia di Fatima, attraverso il vescovo perché direttamente non si poteva fare, per chiedere preghiera per il suo nuovo incarico. Inspiegabilmente, benché non si attendesse una risposta, gli arrivò dopo pochi giorni una lunghissima lettera autografa – ora negli archivi dell’Istituto – in cui è scritto: lo scontro finale tra il Signore e il regno di Satana sarà sulla famiglia e sul matrimonio. “Non abbia paura” aggiungeva, “perché chiunque lavora per la santità del matrimonio e della famiglia sarà sempre combattuto e avversato in tutti modi, perché questo è il punto decisivo”. E poi concludeva: “ma la Madonna gli ha già schiacciato la testa”. Un nodo cruciale dunque quello della santità del matrimonio e della famiglia, una sfida che abbiamo accolto alcuni anni fa come rivista e che oggi sentiamo con particolare urgenza in vista del Sinodo sulla famiglia, nella bellissima cornice dell’Anno della Misericordia che comincerà il prossimo 8 dicembre, quasi inaugurato dalla canonizzazione dei coniugi Martin, il 18 ottobre. Un tempo di grazia particolare. Un tempo in cui affilare le armi della preghiera e prepararsi a combattere la buona battaglia della fede. Ma da dove cominciare se non dalla preghiera? In fondo anche la nostra avventura editoriale è cominciata da questa prima nota del pentagramma della fede. Ed i ricordi si fanno strada mentre per il tempo di un articolo gusto la dolcezza delle origini. Tra le mani un’immaginetta che conservo nel mio breviario, è del 17 dicembre 1988, l’entrata del nuovo parroco. Cambiamento di rotta. La parrocchia riceve un nuovo volto, vengono radunati i giovani, chiamati e formati alla leva i catechisti. Ero alla ricerca, riempivo le pagine del mio diario, bevevo tutto a grandi sorsi. Ma questo giovane prete non si accontentava di formarci, ci insegnava a pregare. Quante sere, dopo la messa, stendevamo i tappeti davanti all’altare e imparavamo a balbettare le prime parole di un dialogo a tu per tu con Dio! Non erano tanto le parole che ci diceva a forgiare il nostro cuore ma come pregava insieme a noi. Ci ha insegnato le parole della fede, ed erano intrise di preghiera. Era così grande il desiderio di fare qualcosa per la Chiesa, ci sentivamo parte di questo fiume in piena, di questa Chiesa Madre dal cui grembo venivamo ogni volta generati ed era così forte l’amicizia che volevamo creare e intensificare che decidemmo di continuare a rimanere uniti, a pregare per la famiglia in modo particolare. Scegliemmo di farlo con la Compieta, la preghiera liturgica che prepara al riposo della notte. All’inizio eravamo in pochi, questo ci permetteva di farci uno squillo telefonico. Era il segnale. Ognuno nella propria camera ma con un cuor solo e un’anima sola, giovani arruolati nella milizia della Chiesa univamo le nostre voci e nella notte risuonava il nostro De profundis, non per i morti, per i vivi, per coloro che avevano bisogno di preghiera. Da quel momento quanti passi sono stati fatti per la famiglia: opere, case di accoglienza, missioni per gli sposi, comunità di formazione. Eppure in questi venticinque anni un unico e costante motivo ha accompagnato ogni scelta, la preghiera. Come pensare allora di affrontare le sfide sulla famiglia e per la famiglia se non iniziando da qui? Invitando le famiglie a pregare insieme? La posta in gioco è molto alta e noi non possiamo permetterci di perdere la partita.

 

Vergine Maria

 

Da genitori cristiani come possiamo educare all’amore i nostri figli? Nonostante il contesto frammentato e disordinato in cui sono immersi i ragazzi di oggi, come comunicare loro un orizzonte di senso e prepararli alla relazione con l’altro?

di Giovanna Pauciulo

     30 luglio 2015 
 

Un genitore cristiano non può esimersi dal compito di educare all’amore, se desidera il bene del figlio. Egli è chiamato ad essere per il figlio testimone della sua fede. È un ambito non delegabile ad altri.

 

Prima di domandarci come educare all’amore è necessario fare una precisazione sulla parola “educazione”: da un lato, essa va intesa come “tirar fuori” da una persona tutto quello che è, come valorizzazione della soggettività; dall’altro, bisogna intendere l’educazione come il compito di introdurre la persona a conoscere adeguatamente la realtà, un’accezione un po’ meno ricordata. Il tema dell’educazione deve cioè essere giocato non solo sul soggetto, ma anche dal soggetto che entra in relazione con ciò che sta al di fuori di lui, il mondo, per poter giudicare e valutare la realtà per ciò che essa è.

 

Quindi, “dare un’educazione” significa anche e soprattutto fornire strumenti per leggere la realtà come alterità, per riuscire a leggere l’altro, per capire che egli non dipende soltanto da come lo si maneggia ma per il fatto di essere ciò che è, imprendibile, ma anche per questo non strumentalizzabile, non asservibile a sé, perché da rispettare. Il rischio dell’educazione come sola soggettività è invece quello di creare un individuo che “vede solo se stesso”, proprio per questo molto più esposto a condizionamenti esterni e a strumentalizzazioni.

 

Educare all’amore richiede un contesto di fede

 

Per i genitori cristiani il riferimento biblico è molto importante, educare all’amore non può avvenire se non nel contesto dell’esperienza di fede. L’amore è al centro della vita cristiana. Il cristianesimo essenzialmente non è una dottrina o una prassi cultuale o un insieme di precetti: è un incontro, un avvenimento che tocca profondamente la vita dell’uomo e la cambia. Solo l’amore ha questo potere. Ed è senza dubbio l’amore la sorgente della sequela e la forza della fedeltà: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola” (Gv 14,23). Il cristianesimo nasce dall’amore ed è testimonianza di un amore che il mondo non può comprendere, di un amore vissuto in tutta la sua radicalità. “Chi non mi ama non osserva le mie parole” (Gv 14,24).

 

Ma come fare a consegnare questa certezza ai figli così immersi in un mondo che non parla di Dio? Come comportarsi di fronte ad una società che propone una prassi in cui non c’è spazio per  l’amore quanto per una genitalità e un comportamento sessuale sempre più sganciato dall’amore, e perciò ridotta a bene di consumo, un erotismo fine a se stesso? Molti genitori sono impreparati, si sentono inadeguati, finiscono per pensare che ormai i giovani non sappiano parlare il linguaggio di Dio. Una sfiducia nei confronti delle nuove generazioni, dei figli.

 

In questo contesto, è bene per i genitori ritornare alle sorgenti, richiarirsi il significato che ha l’amore presso Dio. Per ritornare a vedere e perciò comunicare la bellezza della proposta biblica dell’amore umano, ripartiamo cioè dalle radici bibliche dell’amore umano. Lo facciamo rileggendo dalla nostra prospettiva genitoriale il libro della Genesi, capitoli 1 e 2.

 

Gregorio Vivaldelli, dottore in Teologia biblica scrive: «L’ambiente vitale nel quale vive il giovane di oggi si caratterizza per una forte frammentazione e per una forte frammentarietà. La frammentarietà è una statua che viene rotta in tanti pezzi: tutti i valori vengono demoliti, fatti a pezzi; non c’è più una roccia sicura sulla quale fondare per sempre la propria esistenza, sulla quale scommettere per sempre la propria vita; pensiamo per esempio ai colpi inferti all’istituto matrimoniale, alla teoria gender. La frammentazione è una cosa ancora peggiore: si ha quando la statua viene fatta a pezzi e poi questi vengono mischiati creando una totale confusione. Se qualcuno volesse ricostruire la “statua” dei valori su cui generazioni e generazioni hanno fondato la loro esistenza, non riuscirebbe nemmeno a trovare l’ordine con cui iniziare a ricostruire il puzzle distrutto».

 

Ecco una adeguata analisi del contesto in cui vivono i nostri figli, che deve far riflettere i genitori, perché i  nostri ragazzi si percepiscono come inseriti  in un mondo disordinato, nel quale è difficile trovare il senso dell’insieme. Spesso non sanno dove collocarsi, avvertono di non avere un posto nel mondo, hanno difficoltà sempre più grandi a trovarlo e quindi a trovarsi. Più o meno consapevolmente si sentono dimenticati da Dio. Potremmo dire che si sentono dimenticati da un ordine più grande, in grado di dare un senso al loro esistere. Nell’ambiente in cui vivono i nostri figli non è difficile arrivare alla conclusione che la storia sia sfuggita dalle mani di Dio.

 

Leggiamo ora Genesi 1. La Bibbia propone questa verità: il mondo non è caos, non è disordine, quindi ha un senso, l’uomo è posto in questo giardino il sesto giorno, avendo così un posto ben preciso, al vertice della Creazione. Questo testo biblico ci ricorda che la storia è saldamente nelle mani di Dio: «In principio Dio creò il cielo e la terra… ed era cosa molto buona». Tutto è nelle mani di Dio, un ordine c’è! Esiste un ordine, un orizzonte di bello, di buono, di senso nel quale è collocato l’uomo.

 

Prima radice biblica dell’amore umano, con cui noi genitori o educatori in genere siamo chiamati a confrontarci. È la fiducia che la storia che stiamo vivendo, e che i nostri giovani stanno vivendo, è saldamente nelle mani di Dio. La vita e la storia hanno un senso.

 

Nella sua analisi del contesto culturale e senza Dio in cui sono immersi i nostri figli, Vivaldelli continua: «L’ambiente culturale pone un’attenzione particolare sul soggetto inteso nella sua individualità. I nostri giovani respirano continuamente un clima culturale che potremmo definire ad alta soggettività. Essendo in primo piano l’io, chiaramente gli altri vengono messi da parte, in ombra, diventano delle variabili dipendenti e subordinate a me. C’è l’inflazione dell’io per cui gli altri, fondamentalmente, danno fastidio. Il diverso da me è un potenziale nemico, una minaccia alla mia persona. La prossimità è un disvalore».

 

Altro dato che il genitore deve interiorizzare per leggere la realtà è che i nostri figli – secondo questa ultima affermazione di Vivaldelli – crescono con la convinzione che l’uomo debba bastare a se stesso senza lasciarsi coinvolgere in relazioni interpersonali decisive. Meglio chattare: il porre il mio volto di fronte al volto dell’altro coinvolgerebbe troppo.

 

Da buoni genitori cristiani ci domandiamo di fronte a ciò cosa propone la Bibbia. In Genesi 2 risuona la considerazione: «Non è bene che l’uomo sia solo, gli voglio fare un aiuto che gli sia simile» (Gen 2,18). Per Genesi 2, la solitudine dell’uomo è una nota stonata nella sinfonia dell’esistenza umana.

 

L’uomo, uscito dalla mente di Dio, è educato alla presenza dell’altro, a dare voce all’altro. Anzi, in questo giardino è l’altro che mi definisce. L’altro dice la mia individualità, la mia personalità. Quindi, un chiaro invito ai genitori ad educare alla relazione con l’altro. «Allora l’uomo disse: questa volta essa è carne della mia carne, ossa delle mie ossa» (Gen 2,23): con la presenza dell’altro, l’uomo comincia a parlare. Con gli altri esseri viventi non parlava. In Genesi 2, l’altro è possibilità di porsi in dialogo, in relazione. Per la Bibbia non esiste uomo se non è in relazione. Genesi 2 presenta un giardino che invita l’uomo a mettersi in gioco nella grande sfida delle relazioni interpersonali. Chi non è in grado di relazionarsi finisce solo per servirsi dell’altro, sfruttandolo. E una speciale e specifica relazione che tiene dentro anche la diversità maschile e femminile.

 

Seconda radice biblica dell’amore umano: la Bibbia propone un modello di uomo che si realizza nella relazione con il diverso da sé. Per Genesi 2 l’origine dell’amore umano è l’accoglienza della diversità.

 

Dunque, come sintesi, i genitori sanno allora che educare all’amore un figlio significa:

  1. offrire la certezza che c’è un ordine, che non è il genitore ad inventarsi, ma che egli stesso riconosce ed accoglie. Ecco la testimonianza delle fede del genitore: riconoscere Dio davanti ai figli, dare ragione della propria fede. Appare di nuovo la prima radice biblica dell’amore umano: dare fiducia che la storia che stiamo vivendo, e che i nostri giovani stanno vivendo, è saldamente nelle mani di Dio. La vita e la storia hanno un senso.
  2. Comunicare che l’unico e il vero uomo è quello che si realizza nella relazione con il diverso da sé,perciò l’origine dell’amore umano è l’accoglienza della diversità.

 

 

Come convincere i figli a spegnere la tv?

 

In preparazione all’Incontro Mondiale delle Famiglie il prossimo settembre a Philadelphia (USA) e al Sinodo sulla famiglia in ottobre, pubblichiamo alcuni brani dell’editoriale dell’ultimo numero della Rivista di vita ecclesiale “Gen’s”, a firma di Hubertus Blaumeiser e Enrique Cambón.

 

GENS 2-15 Editoriale Gen's«Misericordia: è la parola che rivela il mistero della SS. Trinità. Misericordia: è l’atto ultimo e supremo con il quale Dio ci viene incontro. Misericordia: è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita. Misericordia: è la via che unisce Dio e l’uomo, perché apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre nonostante il limite del nostro peccato». Sono parole di papa Francesco nella Bolla con la quale l’11 aprile scorso ha indetto l’Anno giubilare della misericordia. Dio «non si limita ad affermare il suo amore, ma lo rende visibile e tangibile. L’amore, d’altronde, non potrebbe mai essere una parola astratta. Per sua stessa natura è vita concreta: intenzioni, atteggiamenti, comportamenti che si verificano nell’agire quotidiano».

 

Papa Francesco evidentemente non intende mettere tra parentesi la fedeltà alla verità e la chiarezza dottrinale, ma piuttosto coniugarle con la realtà vissuta dalla gente. E non per cedere a compromessi, ma per fedeltà a quel Dio la cui Verità compiuta è l’Amore. Un messaggio liberante che non lascia nessuno in pace.

 

È il binario su cui si muove il cammino dei due Sinodi dei vescovi sulla famiglia. Un cammino da vivere – come ricordano i Lineamenta inviati alle diocesi in vista dell’Assemblea prossima – «nel duplice ascolto dei segni di Dio e della storia degli uomini e nella duplice e unica fedeltà che ne consegue», ponendosi con realismo di fronte alla famiglia oggi e tenendo allo stesso tempo «lo sguardo fisso sul Cristo per ripensare con rinnovata freschezza ed entusiasmo quanto la rivelazione, trasmessa nella fede della Chiesa, ci dice sulla bellezza, sul ruolo e sulla dignità della famiglia»: il Vangelo della famiglia.

 

Fedeltà, da un lato, al disegno di Dio che non è da intendere «come “giogo” imposto agli uomini bensì come un “dono”», come “buona notizia” che si pone al servizio della realizzazione più profonda e della felicità delle persone; ma fedeltà, dall’altro lato, alle persone in quello che si trovano a vivere e spesso a soffrire in una società complessa e con un’interiorità – propria e altrui – non meno complessa, da cui derivano molteplici fragilità.

 

Parola-chiave è l’arte dell’accompagnamento. A questo proposito, papa Francesco sottolinea nell’Evangelii gaudium: «senza sminuire il valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno». Occorre imparare sempre a «togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro (cf. Es 3, 5). Dobbiamo dare al nostro cammino il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana». Un valido accompagnatore, infatti, «non accondiscende ai fatalismi o alla pusillanimità. Invita sempre a volersi curare, a rialzarsi, ad abbracciare la croce, a lasciare tutto, ad uscire sempre di nuovo per annunciare il Vangelo».

 

Un impegnativo programma che la Chiesa è chiamata ad attuare – come dicono ancora i Lineamenta «con tenerezza di madre e chiarezza di maestra (cf. Ef 4, 15)». Eh già, “la Chiesa”: non solo i vescovi e i presbiteri, ma l’intero Popolo di Dio. «Senza la testimonianza gioiosa dei coniugi e delle famiglie, chiese domestiche, l’annunzio, anche se corretto, rischia di essere incompreso o di affogare nel mare di parole che caratterizza la nostra società».

 

Il testo integrale, insieme a riflessioni e testimonianze, in: Rivista di vita ecclesiale Gen’s.

 

 

Famiglia: il “prezzo” per rimanere uniti

 

Le lusinghe di una brillante carriera in un paese da sogno. La storia di Rosette ed Eric, giovane coppia filippina che è riuscita ad andare controcorrente per scegliere di rimanere famiglia.

 

20150417-01«Nel 2014 l’impresa per cui lavoravo – racconta Rosette – mi ha assegnata alla regione del Kurdistan iracheno (KRI). Per facilitare l’inserimento lavorativo di mio marito Eric, anch’egli con un ottimo curriculum, abbiamo pensato di sistemarci a Dubai, un ricco emirato arabo dove si vive in modo piacevole con tutti i comfort. A causa di questa ricchezza molti stranieri vengono a Dubai per perseguire una vita migliore per sé stessi e per le loro famiglie, anche se questo significa lasciare i propri cari nei Paesi d’origine.

 

In uno dei miei viaggi in Kurdistan, pur essendo in aeroporto con due ore di anticipo, sono stata cancellata dalla lista dei passeggeri. Ero agitata perché significava prendere un aereo più piccolo che partiva soltanto all’una di notte. Mancava ancora tanto tempo all’imbarco, ma ugualmente sono andata al nuovo terminal: non si sa mai. Qui stranamente vedo già tante persone, fra cui molte che dormono sul pavimento. Chiedo loro quanto si doveva aspettare. Una signora mi dice: “Dipende: può essere subito ma può richiedere giorni”. Infatti lei era lì da quasi due giorni a causa di un errore di ortografia sul suo visto. E non la facevano uscire. Per avviare una conversazione le chiedo se avesse da mangiare: “Sì, ho ancora qualche cracker e un po’ d’acqua”. La invito per un pasto con me e dopo molte resistenze finalmente accetta.

 

Mentre stiamo chiacchierando, la chiama il suo datore di lavoro per controllare come stava e per sapere se aveva soldi per rimanere lì. Lei non aveva denaro. Aveva inviato tutto il suo stipendio al figlio affinché pagasse le tasse universitarie. Finita la telefonata mi racconta la sua storia: separata dal marito, i due figli vivono con la nonna al paese d’origine. È venuta a lavorare a Dubai perché anche la figlia sta finendo la scuola superiore e occorrono soldi per l’università.
Poco dopo sento annunciare il mio volo. Ma chissà lei fino a quando dovrà aspettare. La incoraggio a prendere i soldi che le sto dando. Le prometto che avrei pregato per la sua famiglia.

 

La sua è solo una delle tante storie di come vivono gli immigrati. Alcune famiglie sono a Dubai perché nella loro terra c’è la guerra (palestinesi, siriani, iracheni): Dubai si presenta come un rifugio sicuro dove poter vivere una vita normale. Per loro il lavoro è tutto, inizio e fine, perché senza lavoro non avranno visto e senza il visto non potranno rimanere a Dubai.
Specialmente per quelli che sono qui da soli, a lungo andare la distanza fisica e la solitudine di un paese straniero arrivano spesso ad offuscare anche la più pura delle intenzioni. Conosciamo persone che hanno avviato relazioni extra coniugali, distruggendo così quella stessa famiglia per la quale sono venuti qui, riducendosi a fornire ai propri cari non già la loro presenza ma solo il denaro. Purtroppo la maggioranza di queste persone accetta tale soluzione come un fatto ineluttabile, anche se il prezzo è molto alto da pagare.

 

Questo stesso “prezzo” è venuto a bussare anche da noi. I miei frequenti viaggi in Dubai mi portavano ad essere sempre meno con Eric. Così abbiamo deciso di trasferirci in Kurdistan, anche se questo significava rinunciare al buon lavoro che Eric aveva a Dubai. Inizialmente la mia azienda ha accettato, ma nel corso di ulteriori colloqui e alcuni episodi violenti in Kurdistan, ci è stato detto che l’azienda non poteva garantire la sicurezza di Eric e quindi che lui non poteva trasferirsi lì. Uno dei miei responsabili mi ha ventilato: “…vi abituerete ad essere separati…”.

 

Di fronte a questa prospettiva abbiamo deciso immediatamente di dare le dimissioni. In nessun caso dovevamo vivere separati, anche se questo significava rinunciare ad un lavoro ben pagato e ad una carriera per la quale avevo tanto studiato. Confesso che è stata una scelta per niente facile. Nel cuore però tutti e due sentivamo che era quella giusta. Il mio ultimo giorno di lavoro è stato il 31 dicembre 2014.

 

Lo scorso gennaio il Papa è venuto nelle Filippine, e nell’incontro con le famiglie ha affermato con forza il valore della famiglia: “Dobbiamo essere forti nel dire no a qualsiasi intento di colonizzazione ideologica che vuole distruggere la famiglia”. Sembrava detto su misura per noi, a conferma della scelta controcorrente che avevamo fatto».

 



 

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Messaggio Cristiano
UDIENZA GENERALE - Aula Paolo VI Mercoledì, 11 Dicembre 2024

Ciclo di Catechesi. Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza. 17. Lo Spirito e la Sposa dicono: “Vieni!”. Lo Spirito Santo e la speranza cristiana

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Siamo arrivati al termine delle nostre catechesi sullo Spirito Santo e la Chiesa. Dedichiamo quest’ultima riflessione al titolo che abbiamo dato all’intero ciclo, e cioè: “Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il Popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza”. Questo titolo si riferisce a uno degli ultimi versetti della Bibbia, nel Libro dell’Apocalisse, che dice: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”» (Ap 22,17). A chi è rivolta questa invocazione? È rivolta a Cristo risorto. Infatti, sia San Paolo (cfr 1 Cor 16,22), sia la Didaché, uno scritto dei tempi apostolici, attestano che nelle riunioni liturgiche dei primi cristiani risuonava, in aramaico, il grido “Maràna tha!”, che significa appunto “Vieni Signore!”. Una preghiera al Cristo perché venga.

In quella fase più antica l’invocazione aveva uno sfondo che oggi diremmo escatologico. Esprimeva, infatti, l’ardente attesa del ritorno glorioso del Signore. E tale grido e l’attesa che esso esprime non si sono mai spenti nella Chiesa. Ancora oggi, nella Messa, subito dopo la consacrazione, essa proclama la morte e la risurrezione del Cristo “nell’attesa della sua venuta”. La Chiesa è in attesa della venuta del Signore.

Ma questa attesa della venuta ultima di Cristo non è rimasta l’unica e la sola. Ad essa si è unita anche l’attesa della sua venuta continua nella situazione presente e pellegrinante della Chiesa. Ed è a questa venuta che pensa soprattutto la Chiesa, quando, animata dallo Spirito Santo, grida a Gesù: “Vieni!”.

È avvenuto un cambiamento – meglio, uno sviluppo – pieno di significato, a proposito del grido “Vieni!”, “Vieni, Signore!”. Esso non è abitualmente rivolto solo a Cristo, ma anche allo Spirito Santo stesso! Colui che grida è ora anche Colui al quale si grida. “Vieni!” è l’invocazione con cui iniziano quasi tutti gli inni e le preghiere della Chiesa rivolti allo Spirito Santo: «Vieni, o Spirito creatore», diciamo nel Veni Creator, e «Vieni, Spirito Santo», «Veni Sancte Spiritus», nella sequenza di Pentecoste; e così in tante altre preghiere. È giusto che sia così, perché, dopo la Risurrezione, lo Spirito Santo è il vero “alter ego” di Cristo, Colui che ne fa le veci, che lo rende presente e operante nella Chiesa. È Lui che “annuncia le cose future” (cfr Gv 16,13) e le fa desiderare e attendere. Ecco perché Cristo e lo Spirito sono inseparabili, anche nell’economia della salvezza.

Lo Spirito Santo è la sorgente sempre zampillante della speranza cristiana. San Paolo ci ha lasciato queste preziose parole: «Il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo» (Rm 15,13). Se la Chiesa è una barca, lo Spirito Santo è la vela che la spinge e la fa avanzare nel mare della storia, oggi come in passato!

Speranza non è una parola vuota, o un nostro vago desiderio che le cose vadano per il meglio: la speranza è una certezza, perché è fondata sulla fedeltà di Dio alle sue promesse. E per questo si chiama virtù teologale: perché è infusa da Dio e ha Dio per garante. Non è una virtù passiva, che si limita ad attendere che le cose succedano. È una virtù sommamente attiva che aiuta a farle succedere. Qualcuno, che ha lottato per la liberazione dei poveri, ha scritto queste parole: «Lo Spirito Santo è all’origine del grido dei poveri. È la forza data a quelli che non hanno forza. Egli guida la lotta per l’emancipazione e per la piena realizzazione del popolo degli oppressi» [1].

Il cristiano non può accontentarsi di avere speranza; deve anche irradiare speranza, essere seminatore di speranza. È il dono più bello che la Chiesa può fare all’umanità intera, soprattutto nei momenti in cui tutto sembra spingere ad ammainare le vele.

L’apostolo Pietro esortava i primi cristiani con queste parole: «Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi». Ma aggiungeva una raccomandazione: «Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto» (1 Pt 3,15-16). E questo perché non sarà tanto la forza degli argomenti a convincere le persone, quanto l’amore che in essi sapremo mettere. Questa è la prima e più efficace forma di evangelizzazione. Ed è aperta a tutti!

Cari fratelli e sorelle, che lo Spirito ci aiuti sempre, sempre ad “abbondare nella speranza in virtù dello Spirito Santo”!

[1] J. Comblin, Spirito Santo e liberazione, Assisi 1989, 236.

Papa Francesco