Mercoledì 8 Maggio 2024
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Buon anniversario!

La profezia del "per sempre"

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Siete mai entrati in una grotta? Avete mai visto stalattiti e stalagmiti? Solo una goccia d’acqua le separa. Bisognerebbe fare come loro: starsene lì, tutti i giorni della propria vita, senza stancarsi, respirando la profezia del “per sempre”.

 

di Mariarosaria Petti

 

La mano destra impugna il mestolo, quella sinistra tiene saldamente la ricetta della torta al cioccolato, tramandata dalla nonna della nonna di sua nonna. Le uova appena sgusciate scivolano nella ciotola, il loro colore giallo vivo impallidisce lentamente, nel veloce guizzo che le confonde al candore dello zucchero. È il momento di aggiungere la farina setacciata, il lievito e poi… Cosa manca? Quel pezzetto di carta custodito gelosamente da generazioni di donne della sua famiglia, è macchiato, ingiallito irrimediabilmente dai colpi del tempo.

 

Perché ha scelto di preparare proprio una torta? Le ultime hanno avuto una cattiva sorte: mai lievitate, bruciate nel forno, impreziosite dal sale confuso con lo zucchero, granitiche. A prova di lancio contro la muraglia cinese. Avrebbe potuto comprare la maglietta della squadra del cuore del suo ragazzo. Ma il Napoli è appena uscito dall’Europa League, meglio non rivoltare il coltello nella piaga. Ancora, avrebbe potuto scegliere uno di quei ciondoli a forma di cuore che si dividono in due metà. Una per lui e una per lei. Troppo mieloso. Un cuscino con loro foto più belle stampate sopra? Da diabete sentimentale. Comprare una stella e attribuirgli il nome del suo fidanzato? Troppo megalomane. Questa torta andrà benissimo. Crescerà, sarà soffice e profumata. Sarà il dessert che riscatterà tutti i suoi insuccessi passati da pasticciera disperata. Il miglior dolce di tutte le donne della sua discendenza.

 

Un anniversario non può lasciare indifferente una coppia. È il compleanno di un amore. E come spesso accade per le feste, ci lasciamo prendere la mano da striscioni, serenate, dichiarazioni e ogni sorta di inutilità a forma di cuore.

 

Siete mai entrati in una grotta? Avete mai visto lo spettacolo che offrono stalattiti e stalagmiti? Si tratta di colonne minerali, che dall’alto e dal basso si incontrano per unirsi per sempre. Un maestoso ammasso roccioso trasudante. Dalla roccia madre grondano migliaia di stalattiti, che nel silenzio e nello scorrere degli anni incontreranno le stalagmiti del suolo. Prima della loro fusione, restano per centinaia di anni a pochi millimetri di distanza, una punta dall’altra. Tra loro, danza una goccia d’acqua, che impiegherà tantissimo tempo per depositare il carbonato di calcio che contiene e saldare le due estremità. Un qualsiasi contatto e il processo si arresta. Si forma così un unico fascio, un pilastro dalla forma ardita e bizzarra, che può competere con le opere in marmo dei più grandi scultori.

 

Quante volte siamo “ad un passo dall’altro”? Così vicini da sembrare una cosa sola e così lontani da non vedere che solo una goccia ci separa? E abbiamo cercato in un giorno di accorciare una distanza che soltanto un deposito di clessidre avrebbe potuto sanare. Questa consapevolezza affiora quasi sempre con l’avvicinarsi di una data importante, come quella di un anniversario. E mentre scegliamo regali, impastiamo torte, scriviamo biglietti d’amore con le frasi di Ligabue, ci spaventa quel varco infinitesimale. Proviamo a riempirlo, costruendo la giornata perfetta, a prova di wedding planner.

 

Bisognerebbe liberarsi delle paure, degli schemi e dalle immagini patinate di amori vissuti alla follia (e poi bruciati in fretta) e fare come le stalattiti e le stalagmiti. Starsene lì, tutti i giorni della propria vita a guardarsi ed amarsi, senza stancarsi, respirando la profezia del “per sempre”.

 

Posa la ciotola, mette via l’impasto. Risponde al telefono: “Come è andata la tua giornata, raccontami”. La bellezza della semplicità, costruita giorno dopo giorno.

 

 

È l’ora del pranzo, è il tempo di fermarsi per nutrire il corpo ma può diventare anche un’occasione per pregare insieme e condividere non solo il pane ma la vita.

 

di Giovanna Abbagnara

Mamma stasera la preghiera la faccio io!”. Sono tutti intorno alla tavola per la cena, Mario, il papà, Lucia, la mamma, Laura di 12 anni, Filippo di 10 anni e in silenzio aspettano che il piccolo Luca di otto anni pronunci la sua preghiera. “Signore ti ringraziamo per il cibo che ci doni e che la mia mamma ha preparato e ti prego per Marco, il mio amico di banco, che ha paura perché i suoi genitori si stanno separando. Fa’ che non lo facciano altrimenti il mio amico è triste. Amen”. Inizia la cena e anche un tempo di dialogo e di confronto. Il tema di questa sera è molto delicato, ma bisogna aiutare Luca a comprenderlo. In questo modo la mensa diventa lo spazio della comunione, il tempo in cui  si comunicano le diverse esperienze che ciascuno vive, si condividono gioie e incontri, riflessioni e commenti, paure e difficoltà. Con sguardi, premure e attenzioni all’altro si gusta la gioia di ritrovarsi come famiglia. È un momento d’incontro, di scambio, d’ascolto. O almeno così dovrebbe essere, perché in realtà, si fa sempre più fatica a parlarsi, a prestarsi attenzione, con la fretta di oggi e le tante Tv accese durante i pasti. Può diventare un momento in cui anche il nostro cuore, i nostri rapporti, possono ricevere nutrimento. Radunarsi intorno all’altare domestico insieme senza quella fretta che caratterizza ormai le nostre giornate è fondamentale e diventa nel quotidiano una preziosa opportunità per pregare insieme.

 

Oggi siamo abituati ai 4 salti in padella, per dire: “non perdete tempo a cucinare, dimezzate i minuti, ottimizzate i tempi, fate in fretta”. Non di rado si assiste che in quella mezz’ora dedicata alla cena la Tv sia l’unica parola, che l’attenzione sia tutta rivolta a lei, che qualcuno si alzi prima che il pasto sia concluso per ritirarsi in camera ad ascoltare musica, che il telefono squilli tra una portata e l’altra e che il cellulare di tutti regni incontrastato sulla tavola e lampeggi continuamente.

 

È necessario dare il giusto significato a questi momenti di convivialità perché i rapporti familiari riacquistino la giusta dimensione. Anche in questi momenti è opportuno avere delle regole, spegnere la Tv, staccare il telefono, lasciare da parte i cellulari. Farsi aiutare dai figli a preparare la tavola è segno dell’attenzione e della cura verso l’altro, sono gesti di amore come quelli della mamma che prepara il cibo per la sua famiglia. Il pasto diventa allora non solo il tempo del nutrimento del corpo ma anche il tempo in cui ogni membro riceve e dona amore.

 

In questo rituale che ogni giorno si compie si riconosce la presenza di Dio. Per questo la benedizione che si fa all’inizio quando tutti si sono radunati non è un gesto da compiere per abitudine e in modo frettoloso.

 

È stato per caso che una sera abbiamo recitato qualche preghiera insieme” mi raccontano Alberto e Maria “e da lì qualche volta, a pregare insieme ai figli prima del pasto domenicale. Sembrava che una sola preghiera non bastasse, quando il figlio piccolo ha cominciato a raccontare cosa succedeva al catechismo e una volta la predica del prete alla messa. Ci siamo guardati stupiti, e da allora abbiamo iniziato, anche se non sempre, a leggere insieme il vangelo della domenica prima del pasto (l’unico in cui siamo tutti insieme). Non è che poi succeda granchè, ma spesso diventa il pretesto per non guardare la televisione e parlare di tante cose. Mi sembra che prima si perdesse più tempo in cose non necessarie, e che non si vedesse l’ora di alzarsi da tavola per farsi gli affari propri. Ora invece indugiamo a tavola”.

 

La preghiera diventa non un valore aggiunto ma un bisogno primario e molto spesso apre le porte ad un dialogo sereno e sincero che permette di stemperare le difficoltà e di comunicarsi le piccole e grandi gioie che ciascuno porta nel cuore. Non esiste un vero e proprio schema da seguire. “Mia figlia Giulia non è di molte parole” racconta Claudia “per cui quando è il suo turno di benedire la mensa rispettiamo due minuti di silenzio e diciamo insieme il Padre nostro, quando invece è il turno di Angelo ci tocca aspettare perché ha sempre un lungo elenco di cose da dire e da ricordare”. Ogni famiglia può trovare le forme adatte, cercando anche di essere attenti all’anno liturgico. Coinvolgendo i figli a preparare segni che possono abbellire la mensa durante l’avvento o la quaresima. Imparare cioè a dare sapore ai gesti, a scandire i momenti con la preghiera, a riscoprire la casa come il luogo dell’incontro con Dio.

 

 

LETTERA AD UNA MAMMA

 

Cara Giovanna,

 

la vita è sempre un miracolo, uno splendido dono di Dio, voi lo avete sperimentato: certo, avete fatto tutto quello che era umanamente giusto e doveroso prevedere ma… il bimbo è arrivato quando Dio ha voluto, non quando voi avete scelto, come a confermare che Lui solo è la Sorgente della vita. È bello accogliere un figlio senza usare aggettivi possessivi, accoglierlo come una creatura che, nella sua  misteriosa Provvidenza, Dio ha voluto affidarci. È bello sapere di essere soltanto il filo della Provvidenza.

 

Chi accoglie un bambino, accoglie me”, dice Gesù. Dio entra nuovamente nella vostra casa, viene con il volto di questo bambino. Troppo facile, potrebbe dire qualcuno, troppo facile riconoscere il volto di Dio nel figlio generato nella propria carne. È vero. Per questo è necessario allargare l’orizzonte e chiedere a Dio di avere un cuore che non resti chiuso nelle mura della propria casa. Se ogni figlio è dono di Dio, ci sono tanti figli che non vengono accolti o non sono accuditi o non sono amati. Non tutti possono far tutto, ma è bene consegnare a Dio la propria disponibilità. Anche questo, nel mondo di oggi, è un miracolo che perpetua il dono della vita.

 

Il parto è la danza della vita, un passaggio faticoso ma necessario. Preparati a viverlo con la consapevolezza che stai per dare alla luce una nuova creatura, non solo una creatura che si aggiunge ai miliardi di essere umani che hanno popolato la faccia della terra ma una creatura unica e irripetibile che ha una parola nuova da dire e una nuova pagina da scrivere nel grande Libro della vita.

 

La Vergine di Nazaret, che ha conosciuto i dolori del parto, ti sosterrà nella fatica. Ti abbraccio con affetto e ti aspetto nella Cappella Martin per affidare questo bambino all’intercessione di santa Teresa e dei suoi Beati genitori.

 

don Silvio Longobardi

 

 

Il regalo più grande che potete fare ad un bambino è insegnargli l'amore per la Parola di Dio. Molti genitori si chiedono quale sia il momento giusto per insegnare ai loro figli a pregare...I bambini imparano a pregare ascoltando i loro genitori  pregare.. mentre lo portate a nanna.. prima dei pasti... dite una piccola preghiera con lui.. in modo che diventi una consuetudine per lui "dialogare e ringraziare" Dio.

 

 

Cosa posso fare per quel figlio che non volemmo accogliere? 

 

E’ un uomo sulla quarantina, elegante e triste. Mi accorgo che desidera parlarmi e lo incoraggio, salutandolo per primo.  Posso?”, chiede gentilmente mettendosi al mio fianco. “Le dico subito, reverendo, che sono ateo. La fede non esercita alcun fascino su di me. Vorrei chiederle un consiglio per un dramma che mi porto dentro e di cui non riesco a liberarmi. Si tratta di un aborto, effettuato dalla mia ragazza con il mio consenso, quindici anni fa. Ci sembrò, allora, l’unica cosa logica da fare per una gravidanza non voluta. A dire il vero non ci pesò granché… In seguito  ci lasciammo… Oggi sono padre di due splendidi bambini avuti dalla mia attuale moglie. Il pensiero di quel bimbo che non facemmo nascere, però, mi perseguita. Come un fantasma si presenta ogni qualvolta accarezzo e gioco con i miei piccini. Cosa posso fare per quel figlio che non volemmo accogliere?”.

 

Sono preso alla sprovvista. Non pensavo che questo distinto signore volesse parlarmi di un vecchio aborto procurato. Passeggiando, ci dirigiamo verso la campagna. Non capisco perché si rivolga a un prete un uomo che dice di non credere. L’onestà mi obbliga a non fare sconti, a costo di essere spietato; e la carità mi chiede di aiutarlo a ritrovare la serenità perduta.

 

“Non le nascondo che mi trova impreparato  -  spiego  -  . Se fosse un credente le direi che Dio conosce il suo dolore e le offre il perdono; che Gesù ha promesso agli uomini - anche al suo bambino -  la vita eterna; che un giorno lo ritroverà nel cielo dove fu accolto nel momento del rifiuto. Le direi anche  che la persona con cui parla stamattina, un semplice prete, porta in sé un potere immenso, smisurato, incredibile, che potrebbe darle tanta pace. Parlo della confessione: un balsamo potentissimo che lenisce le ferite più nascoste e dona la certezza che Dio ha perdonato il peccato commesso. Potrei dirle ancora tante cose. Lei, però, non crede, e io non so trovare parole di conforto senza rischiare di essere banale. Il suo cuore lacerato è un cuore nobile se ancora piange per un aborto di tanti anni fa. Le potrei consigliare di fare volontariato a favore della vita nascente, o impegnarsi nelle adozioni a distanza per aiutare i piccoli africani a non emigrare. Potrei anche invitarla a donare qualche ora della sua giornata ai bambini più sfortunati della mia parrocchia. Codesti rimedi le darebbero un po’ di sollievo. Ma lei mi chiede cosa si può fare per quel bambino abortito, per quel figlio trascinato via senza il suo consenso. Lei vuol mettere a tacere la vocina fastidiosa che la inquieta quando accarezza i suoi figliuoli, e questa impresa è ardua. Lungi da me il tentativo di infierire sul suo dolore, ma l’unica cosa certa è che il suo bambino andò via per sempre, quella mattina di tanti anni fa. Via senza lasciar tracce. Sotto gli occhi e con il consenso di chi lo aveva chiamato al mondo…”.

 

Passeggiamo ancora senza dirci niente. Un ateo e un prete. Un uomo che crede che sia vuoto il cielo, e un altro che ha scommesso la sua vita su Colui che lo abita. Un ateo che sente il bisogno di raccontare la sua angoscia a un prete. Una storia tenuta in cuore e mai raccontata prima. Un prete che raccoglie e fa suo il grido di questo sconosciuto. Due uomini che si incontrano per caso  -  ma esiste il caso?  -   e sentono di essere fratelli. Quante vittorie sbandierate sul fronte dell’aborto! Quanti inni alla libertà, pagata con il sangue dei più deboli e indifesi. Chi trovò costui a consigliarlo allora? Chi si è fatto carico del tormento di questo padre allora mancato? Intervenire su una donna per eliminare il figlio che non vuole ormai è tanto facile e banale. Più difficile è ritrovare, poi, la serenità perduta. Ce lo insegna quest’uomo che non crede, al di sopra quindi di ogni sospetto. Quindici anni non son bastati per far tacere la voce di quel bambino che non vide il sole. Un bambino che ancora non vuol morire.

 

 

 

 

 

Maurizio Patriciello



 

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Messaggio Cristiano
UDIENZA GENERALE, 1° Maggio 2024

Catechesi. I vizi e le virtù. 17. La fede

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi vorrei parlare della virtù della fede. Insieme con la carità e la speranza, questa virtù è detta “teologale”. Le virtù teologali sono tre: fede, speranza e carità. Perché sono teologali? Perché le si può vivere solo grazie al dono di Dio. Le tre virtù teologali sono i grandi doni che Dio fa alla nostra capacità morale. Senza di esse noi potremmo essere prudenti, giusti, forti e temperanti, ma non avremmo occhi che vedono anche nel buio, non avremmo un cuore che ama anche quando non è amato, non avremmo una speranza che osa contro ogni speranza.

Che cos’è la fede? Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci spiega che la fede è l’atto con cui l’essere umano si abbandona liberamente a Dio (n. 1814). In questa fede, Abramo è stato il grande padre. Quando accettò di lasciare la terra dei suoi antenati per dirigersi verso la terra che Dio gli avrebbe indicato, probabilmente sarà stato giudicato folle: perché lasciare il noto per l’ignoto, il certo per l’incerto? Ma perché fare quello? È pazzo? Ma Abramo parte, come se vedesse l’invisibile. Questo dice la Bibbia di Abramo: “Andò come se vedesse l’invisibile”. È bello questo. E sarà ancora questo invisibile a farlo salire sul monte con il figlio Isacco, l’unico figlio della promessa, che solo all’ultimo momento sarà risparmiato dal sacrificio. In questa fede, Abramo diventa padre di una lunga schiera di figli. La fede lo ha reso fecondo.

Uomo di fede sarà Mosè, il quale, accogliendo la voce di Dio anche quando più di un dubbio poteva scuoterlo, continuò a restare saldo e a fidarsi del Signore, e persino a difendere il popolo che invece tante volte mancava di fede.

Donna di fede sarà la Vergine Maria, la quale, ricevendo l’annuncio dell’Angelo, che molti avrebbero liquidato perché troppo impegnativo e rischioso, risponde: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38). E con il cuore pieno di fede, con il cuore pieno di fiducia in Dio, Maria parte per una strada di cui non conosce né il tracciato né i pericoli.

La fede è la virtù che fa il cristiano. Perché essere cristiani non è anzitutto accettare una cultura, con i valori che l’accompagnano, ma essere cristiano è accogliere e custodire un legame, un legame con Dio: io e Dio; la mia persona e il volto amabile di Gesù. Questo legame è quello che ci fa cristiani.

A proposito della fede, viene in mente un episodio del Vangelo. I discepoli di Gesù stanno attraversando il lago e vengono sorpresi dalla tempesta. Pensano di cavarsela con la forza delle loro braccia, con le risorse dell’esperienza, ma la barca comincia a riempirsi d’acqua e vengono presi dal panico (cfr Mc 4,35-41). Non si rendono conto di avere la soluzione sotto gli occhi: Gesù è lì con loro sulla barca, in mezzo alla tempesta, e Gesù dorme, dice il Vangelo. Quando finalmente lo svegliano, impauriti e anche arrabbiati perché Lui li lascia morire, Gesù li rimprovera: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (Mc 4,40).

Ecco, dunque, la grande nemica della fede: non è l’intelligenza, non è la ragione, come, ahimè, qualcuno continua ossessivamente a ripetere, ma la grande nemica della fede è la paura. Per questo motivo la fede è il primo dono da accogliere nella vita cristiana: un dono che va accolto e chiesto quotidianamente, perché si rinnovi in noi. Apparentemente è un dono da poco, eppure è quello essenziale. Quando ci hanno portato al fonte battesimale, i nostri genitori, dopo aver annunciato il nome che avevano scelto per noi, si sono sentiti interrogare dal sacerdote – questo è successo nel nostro Battesimo –: «Che cosa chiedete alla Chiesa di Dio?». E i genitori hanno risposto: «La fede, il battesimo!».

Per un genitore cristiano, consapevole della grazia che gli è stata regalata, quello è il dono da chiedere anche per suo figlio: la fede. Con essa un genitore sa che, pur in mezzo alle prove della vita, suo figlio non annegherà nella paura. Ecco, il nemico è la paura. Sa anche che, quando cesserà di avere un genitore su questa terra, continuerà ad avere un Dio Padre nei cieli, che non lo abbandonerà mai. Il nostro amore è così fragile, e solo l’amore di Dio vince la morte.

Certo, come dice l’Apostolo, la fede non è di tutti (cfr 2 Ts 3,2), e anche noi, che siamo credenti, spesso ci accorgiamo di averne solo una piccola scorta. Spesso Gesù ci può rimproverare, come fece coi suoi discepoli, di essere “uomini di poca fede”. Però è il dono più felice, l’unica virtù che ci è concesso di invidiare. Perché chi ha fede è abitato da una forza che non è solo umana; infatti, la fede “innesca” la grazia in noi e dischiude la mente al mistero di Dio. Come disse una volta Gesù: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (Lc 17,6). Perciò anche noi, come i discepoli, gli ripetiamo: Signore, aumenta la nostra fede! (cfr Lc 17,5) È una bella preghiera! La diciamo tutti insieme? “Signore, aumenta la nostra fede”. La diciamo insieme: [tutti] “Signore, aumenta la nostra fede”. Troppo debole, un po’ più forte: [tutti] “Signore, aumenta la nostra fede!”. Grazie.

Papa Francesco