Martedì 23 Aprile 2024
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I Cappuccini


Questa è la mia Chiesa

Padre Giovanni Martinelli

martinelli

 

“Ho visto delle teste tagliate e ho pensato che anch’io potrei fare quella fine. E se Dio vorrà che quel termine sia la mia testa tagliata, così sarà [...]. Poter dare testimonianza è una cosa preziosa” è la dichiarazione di pochi giorni fa di Padre Giovanni Martinelli, vicario apostolico a Tripoli in un’intervista al Corriere del Veneto. In Libia la situazione è drammatica. Eppure lui ha dichiarato che non tornerà in Italia. Resterà con i suoi 150 fedeli. Riconosco in queste parole la fermezza di quando nel suo ultimo viaggio in Italia l’ho incontrato. Un’intervista che ha lasciato una traccia nel mio cuore e la certezza di aver incontrato un seguace del Cristo povero e crocifisso.

di Giovanna Abbagnara

 

Si appoggia ad un bastone per camminare, i movimenti sono lenti. Il periodo di convalescenza in Italia è lungo ma lo sguardo è sereno e gli occhi si illuminano quando parla della sua Libia. Vuole tornare a casa al più presto. «Voglio morire lì», mi dice fermo e sicuro «Non lascerò mai la Libia finché avrò respiro. Quella è la mia Chiesa». Comprendo subito da queste poche battute iniziali del nostro lungo e appassionato colloquio che mi trovo di fronte ad un uomo di Dio, ad un padre coraggioso che ha sofferto e continua a soffrire per la porzione di Chiesa che gli è stata affidata.

 

È incredibile quanto la storia personale di questo vescovo si intrecci con quella travagliata della Libia. «Sono nato e vissuto nel mondo musulmano» racconta padre Martinelli. Nel ‘37 i suoi genitori vanno in Libia come coloniali e qui nel 1931 nel villaggio Breviglieri, oggi El Qadra, nasce il piccolo Giovanni. «Spesso mi reco durante le feste musulmane a visitare i vecchi beduini nei villaggi vicino a Tripoli» racconta il vescovo «e qui mi dicono che si ricordano di me quando ero bambino, perché mi hanno portato in braccio». Giovanni si nutre dell’amore e della fede semplice e rocciosa dei suoi genitori. Cresce respirando l’amicizia con un popolo di cui si sente pienamente parte. Ha continuamente davanti agli occhi la testimonianza dei frati francescani. È questa la cornice in cui matura la scelta di venire in Italia poco più che tredicenne per studiare e prepararsi a diventare frate. «L’ideale di Francesco mi affascinava e mi dicevo: “Papà è venuto in questa terra come colonialista, io voglio tornarci come Francesco, per annunciare e testimoniare il vangelo di Cristo”». Nel 1967 il dono della consacrazione presbiterale. Due anni dopo riceve il permesso dall’ordine francescano per prepararsi alla missione, è mandato a Roma per studiare. Nel 1971 finalmente la partenza, inizia il suo ministero in Libia. Il paese è sconvolto dall’arrivo di Gheddafi. Per 42 anni convivono in quella terra martoriata.

 

Presto arriva la chiamata episcopale e la consacrazione il 4 ottobre 1985. Il filone del suo nuovo ministero è incontrare l’altro, farsi prossimo, costruire ponti di amicizia con il mondo arabo-musulmano. Il 13 aprile 1986, nel pieno della crisi tra gli Usa e la Libia, è arrestato a Bengasi dai soldati di Gheddafi. Nonostante questo doloroso episodio, non ha mai rinnegato la sua amicizia con il mondo arabo-musulmano. «La domanda che mi ponevo continuamente era: come sono capace con la ricchezza dell’amore di Gesù di incontrare l’altro? Non ho mai cercato di convertire nessuno, piuttosto ho chiesto a Dio di convertire me stesso e di donarmi degli amici nella fede». Ma come concretamente padre Martinelli ha fatto questo, in un contesto di un regime ostile? La risposta arriva serena, lucida e articolata: «Prima di tutto attraverso un grande rispetto della loro fede. San Francesco ci esorta ad andare per il mondo senza litigare, evitando le dispute, non giudicando gli altri ma con mitezza, pace e umiltà. In secondo luogo attraverso le opere di carità. Il regime non ha mai contrastato la nostra assistenza ai malati e ai feriti negli ospedali. L’amore non si combatte».

 

Si apre una nuova pagina nel nostro colloquio. Padre Martinelli si sofferma a raccontarmi del coraggio eroico e nascosto di alcune donne in quella terra martoriata. Sono giovani ragazze filippine per la maggior parte infermiere che vengono per lavorare negli ospedali. Donne che manifestano nella professione la forte identità cristiana. Sono presenti ovunque, anche negli ospedali di campo del deserto. Sono spesso mamme di famiglia. Non è raro sentirle dire ai malati: “Tu sei mio figlio…”. Sono forti, coraggiose, determinate. La fede si traduce in un amore, in una forza che feconda la fede musulmana. La loro presenza fa a pugni con una visione della donna che i libici non comprendono ma che accettano come ricchezza e che purifica il loro sguardo sulla condizione femminile. Per la Chiesa locale è una grande gioia. «Per anni» mi confida padre Giovanni «mi sono preoccupato di far venire in Libia suore che potessero aiutare negli ospedali poi guardando queste donne mi sono accorto che attraverso il loro modo di lavorare seminavano il vangelo dell’amore con una dedizione straordinaria. Non solo, la loro presenza ha interpellato anche la Chiesa locale. Quando si riuniscono per pregare, chiedono un sacerdote per celebrare la messa e per le confessioni». Sono l’espressione di una Chiesa viva, operante nel tessuto di una società islamica di per sé molto chiusa.

 

Le famiglie cristiane in Libia sono una minoranza ma vivono sostanzialmente in modo tranquillo e io credo fermamente, mentre ascolto padre Martinelli, che questo sia soprattutto merito suo. Per questo suo essere pienamente inserito in quella terra che gli ha donato i natali, per aver stabilito buoni rapporti con le autorità e con lo stesso Gheddafi. Quest’ultimo, addirittura, dopo il 1986, ha scritto a Giovanni Paolo II chiedendo suore italiane per gli ospedali della Libia, suo padre è stato assistito da religiose nella malattia e fino alla morte.

 

Devo essere sincera, ho fatto fatica a congedarmi da padre Giovanni. Solo il tempo inesorabile e tiranno mi ha convinto che era ora di lasciarlo riposare. Quando nella propria professione si incontrano persone così, vorresti cercare di raccogliere e saper descrivere tutta la bellezza di una vita spesa al servizio di Dio e dei fratelli. Ma sai che il di più resta incastonato nelle pieghe della storia, resta negli incontri, negli sguardi, nelle ore passate in preghiera. Il di più appartiene a Dio. A noi resta lo spazio di un incontro pieno di luce.

 



 

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Messaggio Cristiano
Udienza Generale, 17 Aprile 2024

Catechesi. I vizi e le virtù. 15. La temperanza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi parlerò della quarta e ultima virtù cardinale: la temperanza. Con le altre tre, questa virtù condivide una storia che risale molto indietro nel tempo e che non appartiene ai soli cristiani. Per i greci la pratica delle virtù aveva come obbiettivo la felicità. Il filosofo Aristotele scrive il suo più importante trattato di etica indirizzandolo al figlio Nicomaco, per istruirlo nell’arte del vivere. Perché tutti cerchiamo la felicità eppure così pochi la raggiungono? Questa è la domanda. Per rispondere ad essa Aristotele affronta il tema delle virtù, tra le quali ha uno spazio di rilievo la enkráteia, cioè la temperanza. Il termine greco significa letteralmente “potere su sé stessi”. La temperanza è un potere su sé stessi. Questa virtù è dunque la capacità di autodominio, l’arte di non farsi travolgere da passioni ribelli, di mettere ordine in quello che il Manzoni chiama il “guazzabuglio del cuore umano”.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci dice che «la temperanza è la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati». «Essa – prosegue il Catechismo – assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore» (n. 1809).

Dunque, la temperanza, come dice la parola italiana, è la virtù della giusta misura. In ogni situazione, si comporta con saggezza, perché le persone che agiscono mosse sempre dall’impeto o dall’esuberanza alla fine sono inaffidabili. Le persone senza temperanza sono sempre inaffidabili. In un mondo dove tanta gente si vanta di dire quello che pensa, la persona temperante preferisce invece pensare quello che dice. Capite la differenza? Non dire quello che mi viene in mente, così… No, pensare a quello che devo dire. Non fa promesse a vanvera, ma assume impegni nella misura in cui li può soddisfare.

Anche con i piaceri, la persona temperante agisce con giudizio. Il libero corso delle pulsioni e la totale licenza accordata ai piaceri, finiscono per ritorcersi contro noi stessi, facendoci precipitare in uno stato di noia. Quanta gente che ha voluto provare tutto con voracità si è ritrovata a perdere il gusto di ogni cosa! Meglio allora cercare la giusta misura: ad esempio, per apprezzare un buon vino, assaporarlo a piccoli sorsi è meglio che ingurgitarlo tutto d’un fiato. Tutti sappiamo questo.

La persona temperante sa pesare e dosare bene le parole. Pensa a quello che dice. Non permette che un momento di rabbia rovini relazioni e amicizie che poi solo con fatica potranno essere ricostruite. Specialmente nella vita famigliare, dove le inibizioni si abbassano, tutti corriamo il rischio di non tenere a freno tensioni, irritazioni, arrabbiature. C’è un tempo per parlare e un tempo per tacere, ma entrambi richiedono la giusta misura. E questo vale per tante cose, ad esempio lo stare con gli altri e lo stare da soli.

Se la persona temperante sa controllare la propria irascibilità, non per questo la vedremo perennemente con il volto pacifico e sorridente. Infatti, qualche volta è necessario indignarsi, ma sempre nella giusta maniera. Queste sono le parole: la giusta misura, la giusta maniera. Una parola di rimprovero a volte è più salutare rispetto a un silenzio acido e rancoroso. Il temperante sa che nulla è più scomodo del correggere un altro, ma sa anche che è necessario: altrimenti si offrirebbe libero campo al male. In certi casi, il temperante riesce a tenere insieme gli estremi: afferma i principi assoluti, rivendica i valori non negoziabili, ma sa anche comprendere le persone e dimostra empatia per esse. Dimostra empatia.

Il dono del temperante è dunque l’equilibrio, qualità tanto preziosa quanto rara. Tutto, infatti, nel nostro mondo spinge all’eccesso. Invece la temperanza si sposa bene con atteggiamenti evangelici quali la piccolezza, la discrezione, il nascondimento, la mitezza. Chi è temperante apprezza la stima degli altri, ma non ne fa l’unico criterio di ogni azione e di ogni parola. È sensibile, sa piangere e non se ne vergogna, ma non si piange addosso. Sconfitto, si rialza; vincitore, è capace di tornare alla vita nascosta di sempre. Non cerca gli applausi, ma sa di avere bisogno degli altri.

Fratelli e sorelle, non è vero che la temperanza rende grigi e privi di gioie. Anzi, fa gustare meglio i beni della vita: lo stare insieme a tavola, la tenerezza di certe amicizie, la confidenza con le persone sagge, lo stupore per le bellezze del creato. La felicità con la temperanza è letizia che fiorisce nel cuore di chi riconosce e dà valore a ciò che più conta nella vita. Preghiamo il Signore perché ci dia questo dono: il dono della maturità, della maturità dell’età, della maturità affettiva, della maturità sociale. Il dono della temperanza.

Papa Francesco