A tu per tu


Ogni giorno un miracolo

Che senso ha un´esistenza ridotta ad una sopravvivenza vegetativa? Sono domande umanamente comprensibili, angosciose, ma l´amore è più forte di ogni interrogativo, perché "lui c´è".

 

di Mariapia Bonanate

 

Ho esitato molto a scrivere di questa mia esperienza familiare. Quando si vive in una casa divenuta chiesa, accanto ad un letto divenuto altare, le parole si svuotano fino a scomparire. È il silenzio che parla. Poi pensi che, se abiti in una vera chiesa, anche se domestica, devi lasciare le porte spalancate, devi permettere che la vita entri ed esca per accogliere ed essere accolta. Sono passati tre anni da quando un ictus ha interrotto la vita di mio marito e capovolto la nostra, più niente è stato come prima. Dopo dieci mesi d’ospedale ci siamo trovati di fronte ad una difficile scelta: affidare il nostro caro ad una clinica, in una lunga degenza, o riportarlo a casa. Separarci da lui nella quotidianità del vivere o iniziare con lui una nuova vita, un’avventura al buio. Ha scelto lui per noi, per quello che era stato, discreta ed affettuosa presenza di marito e di padre, testimonianza silenziosa di altruismo e di etica quotidiana. Lui che la sindrome Locked-In ha lasciato ai confini fra la vita e la morte, la corteccia cerebrale vigile, inerte il corpo in un’immobilità che ha tolto la parola, la deglutizione, anche il più piccolo movimento. Nutrito attraverso la macchinetta della PEG collegata con tubo nello stomaco, la tracheotomia per respirare.

 

Un’invalidità rara, forse settecento casi in tutta Italia, una malattia poco conosciuta dagli stessi medici, che tiene prigionieri dietro un simbolico cancelletto di cui si è persa per sempre la chiave: senti tutto, ma non puoi rispondere, né manifestarti in alcun modo. Agli inizi un filo tenue di comunicazione con il battito delle ciglia che rispondevano alle nostre domande, come nel film “La farfalla e lo scafandro”, tratto dall’autobiografia del giornalista francese Jean Dominique Beauby che lo dettò comunicando con un occhio solo. Nel trascorrere dei mesi quel filo si è interrotto. Il nostro caro è andato ad abitare in una landa sconosciuta, sigillato in un silenzio dentro il quale soltanto le pupille si muovono, senza riuscire ad esprimere che cosa accade nella parte del cervello rimasta intatta. Nessuno riesce a dirci in quale misura.

 

Anche noi abbiamo scelto di andare ad abitare con lui in quel deserto dei sensi, illuminato dagli occhi che ogni tanto si spalancano sul mondo e ci guardano. Uno sguardo che arriva da lontano, da un universo non praticabile che possiamo soltanto amare, senza cercare risposte. È stato l’amore, soltanto l’amore, ricevuto e dato per anni, a guidarci nella sfida intrapresa, nel viaggio verso l’ignoto, nelle giornate fatte di azioni sempre uguali, in un presente che non ha futuro perché ogni previsione clinica è stata cancellata. Con questo amore abbiamo arredato la stanza della sua nuova vita, al centro della casa, la più luminosa, lasciandogli attorno tutti gli oggetti che hanno accompagnato la sua esistenza ricca di interessi, a cominciare da quei libri che erano la sua passione, la sua fame di sapere e di esplorare. Lo abbiamo avvolto durante la giornata, e parte della notte, con la sua musica sinfonica, con quei classici che erano stati grandi amici del cuore e della mente, il suo colloquio permanente con l’Assoluto e l’Invisibile. La vita familiare ha ripreso a pulsare attorno a lui nei ritmi di sempre. Come se fosse seduto nella poltrona dove sprofondava per sognare i suoi quadretti e le sue sinfonie, nello studio dove accudiva ai suoi libri rari, nella cucina dove si divertiva ad inventare quei risotti fatti “con residuati bellici”, trovati nel frigorifero, che oggi ci mancano. Figli, nipoti, amici, infermieri, gli raccontano, ricordano, lo interpellano, lo accarezzano, lo baciano, lo vegliano nella neonata esistenza. L’amico prete celebra la Messa sull’altare del suo letto dove “la terra si salda nel cielo”.

 

Anche se non parla, il nonno c’è” ha detto un giorno la nipotina di otto anni, accarezzandolo e noi ci siamo riconosciuti nelle sue parole. Nessun accanimento terapeutico, ma cure e attenzioni per una persona rimasta viva, nella sua intrinseca dignità di essere umano con le sue funzioni vitali, con il suo corpo, anche se collegato a macchine che i progressi della scienza medica oggi offrono. Tutto questo meno di dieci anni fa non sarebbe stato possibile. Un bene o un male? Staccare la spina per porre fine ad una vita all’apparenza innaturale? Aiutarlo ad addormentarsi per sempre nella irreversibilità della sua malattia? Che senso ha un’esistenza ridotta ad una sopravvivenza vegetativa? Sono domande umanamente comprensibili, angosciose, ma l’amore è più forte di ogni interrogativo perché “lui c’è”. Esiste, noi lo amiamo nel mistero di una condizione che non ci è dato di capire. E se ami, fai di tutto, veramente tutto quanto è possibile, perché la persona amata non soffra, accetti che pratichi percorsi che tu non conosci, che la stessa medicina non riesce ad esplorare. Anche se continui ad interrogarti: quale dimensione ha assunto e in questa nuova esistenza che cosa vorrebbe? Potremmo interromperla, perché non corrisponde più ai ragionamenti di persone abituate ad accettare soltanto ciò che toccano? Leggiamo nel “Siracide” che molte di più sono le cose nascoste di quelle che vediamo: “Non sforzarti in ciò che trascende le tue capacità, poiché ti è stato mostrato più di quanto comprende un’intelligenza umana. Molti si sono smarriti per la loro presunzione”. (3,23-24)

 

Ma se non possiamo capire, possiamo scegliere di vivere nell’amore. Una scelta che sfida le logiche del mondo e quel Dio inconoscibile che ci chiede di fidarci di Lui. “Mistero della fede”, ho recitato per anni nella Messa. Ora ho capito che questo mistero deve inciderti nella carne, deve passare attraverso l’impotenza totale e la spogliazione di te stesso, per svelarti il suo profondo significato rivoluzionario che sovverte le esistenze. Già l’amore. Per incontrarlo quello vero, autentico, occorre silenzio, umile ascolto, condivisione, uscire da se stessi per vivere la vita degli altri, rimanere nudi nel tempo e nello spazio, vestiti soltanto del sentimento che ha dato vita al Creato. L’amore allora diventa sapienza, non quella dei libri e dei trattati, ma sapienza del cuore, che è intelligenza profonda e profetica delle cose.

 

Ce ne siamo resi conto attorno al letto del nostro caro. Il suo silenzio ha iniziato a parlarci. Ci ha parlato dell’essenza dell’uomo che non è legata alle apparenza e allo status sociale, alla provenienza e a quanto possiede o non ha, ma al suo solo esistere. Ci ha confermato quanto ha scritto il cardinale Carlo Maria Martini in un intervento sulla vita, dal concepimento all’accanimento terapeutico: «Il volto non può essere usato o sfruttato per nessun motivo, deve essere soltanto riconosciuto, rispettato, amato. “Il volto” dell’altro ci parla per se stesso senza bisogno di altri argomenti, anche se la cosa non è più evidente quando non si vede direttamente il volto, ma solo alcune  manifestazioni biologiche di un esserino ancora informe o prossimo al totale degrado».

 

Il volto, anche se velato dalla malattia, è sempre il volto.

 

Accettare di convivere con la farfalla nello scafandro, ti fa scoprire che la vita e la morte sono significativamente legate fra loro, appartengono l’una all’altra, si completano. Ma allora che cosa è la vita, che cosa è la morte? Le risposte che per anni ti poni e che cerchi nelle pagine del mondo, le certezze con le quali ti sei difeso, le maschere che hai indossato per nasconderti, cadono. Le parole, scritte e dette, perdono forza. Tacciono. Di fronte soltanto più il suo e il tuo corpo, nudi e spogli, senza difese nell’impotenza di comunicare e di capire. Ma ci sono e si avvertono. E imparano un linguaggio nuovo, quello che non ha bisogno di suoni, arriva direttamente dai sensi. Quelli che stanno sotto la pelle e che per anni hai usato con la fretta e la superficialità che li ha svuotati della loro ricchezza, limitandoli e spesso castrandoli nei rapporti con gli altri, nei rapporti familiari, in quelli fra uomo e donna, con gli amici, con la vita. Sono stati spesso strumento di sopraffazione, di possesso, di rabbia, di stordimento, di perdita di te stesso. Adesso, nel silenzio in cui si manifestano, nella gratuità in cui si esprimono, ricuperano la propria sacralità. Diventano di nuovo capaci, come all’origine dei tempi e nell’infanzia, di gustare la semplicità del vivere, la bellezza della luce e del buio, dell’alba e della notte, l’armonia dei colori, il profumo della pioggia e quello del sole, l’odore dell’umanità che ti circonda o che incroci. Ti rivelano la “vera vita” che è l’amicizia con Dio in cui trova compimento la vita terrena, diventando un anticipo di quella eterna.

 

È una sensualità che riempie tutti i pori e trasforma il corpo, spezzato dalla malattia, in una presenza fisica che ti avvolge con il suo calore, con le vibrazioni di una dimensione nuova, sconosciuta, ma tangibile. È la dimensione dell’amore nella sua libertà di dono che celebra la vita: il bacio, la carezza, l’abbraccio, il sorriso, la cura delle membra piagate. E che non si ferma in quella stanza, attorno a quel letto, ma si dilata fuori, nell’esistenza quotidiana, dove i gesti dell’amore diventano più importanti delle parole e ti permettono di comunicare come non eri più capace di farlo. Ti fanno entrare nel corpo dell’altro per abitarlo e lasciarti abitare in un’eucarestia permanente. La farfalla esce dallo scafandro, vola nello spazio e nel tempo, riempie l’aria di suoni e di echi che sciolgono la violenza di giornate vissute troppo in fretta, senza soste, senza silenzio, senza ascolto.

 

Dio non ci salva in virtù della sua onnipotenza, ma in virtù dell’impotenza che ha vissuto in Cristo, fattosi uomo uguale a noi” ha ricordato di recente Mons. Gianfranco Ravasi, citando Dietrich Bonhoeffer. In quel letto, in quella stanza ogni giorno accade qualcosa di grande e di imperscrutabile. Cristo si è fermato proprio lì. L’impotenza è diventata luce e speranza.

 



 

Versione senza grafica
Versione PDF


<<<  Torna alla pagina precedente

Home - Cerca  
Messaggio Cristiano
Udienza Generale - Piazza San Pietro Mercoledì, 10 Settembre 2025

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. III. La Pasqua di Gesù. 6. La morte. «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37)

Cari fratelli e sorelle,
buongiorno e grazie per la vostra presenza, una bella testimonianza!

Oggi contempliamo il vertice della vita di Gesù in questo mondo: la sua morte in croce. I Vangeli attestano un particolare molto prezioso, che merita di essere contemplato con l’intelligenza della fede. Sulla croce, Gesù non muore in silenzio. Non si spegne lentamente, come una luce che si consuma, ma lascia la vita con un grido: «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37). Quel grido racchiude tutto: dolore, abbandono, fede, offerta. Non è solo la voce di un corpo che cede, ma il segno ultimo di una vita che si consegna.

Il grido di Gesù è preceduto da una domanda, una delle più laceranti che possano essere pronunciate: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È il primo verso del Salmo 22, ma sulle labbra di Gesù assume un peso unico. Il Figlio, che ha sempre vissuto in intima comunione con il Padre, sperimenta ora il silenzio, l’assenza, l’abisso. Non si tratta di una crisi di fede, ma dell’ultima tappa di un amore che si dona fino in fondo. Il grido di Gesù non è disperazione, ma sincerità, verità portata al limite, fiducia che resiste anche quando tutto tace.

In quel momento, il cielo si oscura e il velo del tempio si squarcia (cfr Mc 15,33.38). È come se il creato stesso partecipasse a quel dolore, e insieme rivelasse qualcosa di nuovo: Dio non abita più dietro un velo, il suo volto è ora pienamente visibile nel Crocifisso. È lì, in quell’uomo straziato, che si manifesta l’amore più grande. È lì che possiamo riconoscere un Dio che non resta distante, ma attraversa fino in fondo il nostro dolore.

Il centurione, un pagano, lo capisce. Non perché ha ascoltato un discorso, ma perché ha visto morire Gesù in quel modo: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). È la prima professione di fede dopo la morte di Gesù. È il frutto di un grido che non si è disperso nel vento, ma ha toccato un cuore. A volte, ciò che non riusciamo a dire a parole lo esprimiamo con la voce. Quando il cuore è pieno, grida. E questo non è sempre un segno di debolezza, può essere un atto profondo di umanità.

Noi siamo abituati a pensare al grido come a qualcosa di scomposto, da reprimere. Il Vangelo conferisce al nostro grido un valore immenso, ricordandoci che può essere invocazione, protesta, desiderio, consegna. Addirittura, può essere la forma estrema della preghiera, quando non ci restano più parole. In quel grido, Gesù ha messo tutto ciò che gli restava: tutto il suo amore, tutta la sua speranza.

Sì, perché anche questo c’è, nel gridare: una speranza che non si rassegna. Si grida quando si crede che qualcuno possa ancora ascoltare. Si grida non per disperazione, ma per desiderio. Gesù non ha gridato contro il Padre, ma verso di Lui. Anche nel silenzio, era convinto che il Padre era lì. E così ci ha mostrato che la nostra speranza può gridare, persino quando tutto sembra perduto.

Gridare diventa allora un gesto spirituale. Non è solo il primo atto della nostra nascita – quando veniamo al mondo piangendo –: è anche un modo per restare vivi. Si grida quando si soffre, ma pure quando si ama, si chiama, si invoca. Gridare è dire che ci siamo, che non vogliamo spegnerci nel silenzio, che abbiamo ancora qualcosa da offrire.

Nel viaggio della vita, ci sono momenti in cui trattenere tutto dentro può consumarci lentamente. Gesù ci insegna a non avere paura del grido, purché sia sincero, umile, orientato al Padre. Un grido non è mai inutile, se nasce dall’amore. E non è mai ignorato, se è consegnato a Dio. È una via per non cedere al cinismo, per continuare a credere che un altro mondo è possibile.

Cari fratelli e sorelle, impariamo anche questo dal Signore Gesù: impariamo il grido della speranza quando giunge l’ora della prova estrema. Non per ferire, ma per affidarci. Non per urlare contro qualcuno, ma per aprire il cuore. Se il nostro grido sarà vero, potrà essere la soglia di una nuova luce, di una nuova nascita. Come per Gesù: quando tutto sembrava finito, in realtà la salvezza stava per iniziare. Se manifestata con la fiducia e la libertà dei figli di Dio, la voce sofferta della nostra umanità, unita alla voce di Cristo, può diventare sorgente di speranza per noi e per chi ci sta accanto.

LEONE XIV