Cronaca Bianca |
Concedimi, o Dio, un cuore lungimirante…
VIVERE LA PAROLA
La misericordia … la più grande giustizia!
Qualche tempo fa mi era capitato che un parrocchiano impegnato nella pastorale della comunità avesse fatto palesemente una cosa a mio avviso “ingiusta” nei miei confronti. Alcune persone mi avevano incoraggiato a reagire, ma io ho preferito lasciar perdere e riprendere la cosa più avanti quando, nella calma e nella lucidità, si poteva rivedere con più obiettività l’episodio. Arriva l’occasione propizia, una riunione in programma, ma sento che per fare una cosa veramente giusta devo lasciar perdere e perdonare. Il giorno della riunione questa persona insiste nelle sue ragioni ma io non reagisco in alcun modo. Ad incontro ultimato alcuni dei presenti, in privato, mi fanno notare che in questo modo, io, che avevo ragione, passavo ai suoi occhi addirittura dalla parte del torto e la cosa – a loro avviso – non era giusta. Mi chiedono perché non ho reagito a tanta aggressività. Rispondo che il rapporto personale, anche se costa, è più importante anche dell’avere ragione. Sarebbe stata una sconfitta per tutti, me per primo. Gesù ci ha insegnato che la via della misericordia e del perdono alla lunga vince sempre. S.M.
Un silenzio che parla …
Vi è un angolo della chiesa che ritengo privilegiato. In esso mi ritrovo perfettamente a mio agio, specialmente perché nel silenzio del raccoglimento, mi viene di pensarLo intensamente ed è lì che di norma mi balzano in animo le intuizioni più belle. Quindi mi si creano anche momenti “privilegiati”. Questo il pensiero che oggi mi tornava con insistenza: “Nella misura in cui tu sparisci, Lui c’è e opera. Tu non devi mai apparire, Lui solo deve apparire … Avverto che non è facile, ma che è importante. Anche questo è la strada giusta per vivere la nuova parola di vita. L.G.
Continuo a giocare …
Guardando da vicino al vivere quotidiano trovo degno di nota il fatto che, in diverse circostanze, per quanto possibile, cerco sempre di favorire l’altro, di farlo contento. Tra l’altro noto che ne vale la pena perché questo stile di vita prima di tutto rende contento me stesso. Vedo che è certamente nella volontà di Dio: quindi più che “giusto”. Non nego che qualche volta mi balena in testa un pensiero che ritengo fuori posto, stonato. Per esempio: “Ma devo farlo sempre io? Non è capace anche l’altro di fare questo o quest’altro?”. Però lo scaccio subito, pensando: “Tu in questo momento non stai amando, entri in giudizio, quindi non vale niente quello che fai”. Ritengo che sia una ginnastica buona, salutare, anzi “giusta”.
Testimonianza missionaria di una giovane
Lo scorso marzo, insieme ad Ilaria, dopo il corso Giovani e Missione, ho ricevuto il mandato per la missione in Uganda, nel progetto francescano di Giorgio e Marta – Ewe Mama: una scuola per bambini disabili ed un orfanotrofio per bambine e ragazze.
Ricordo ancora il primo giorno di servizio: lingua e cultura differente, poca dimestichezza con il mondo della disabilità, timore e ansia da prestazione alle stelle (caratteristica tipica della nostra società del fare, ma decisamente amplificata nel popolo veneto)!
Poi, la perla di Marta: “L’importante è che voi stiate! Lasciatevi stupire dalla loro bellezza!”
Quanta Verità nelle sue parole! Una scena fra tutte: Timothy, un bambino autistico, che mi indica la porta, urlando, perché aprissi alla sua compagna Elizabeth, rimasta chiusa fuori dall’aula. Lui solo, che nella confusione, si era accorto che la maniglia si stesse muovendo! Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli.
Perché i bambini usano lo stupore. Non complicano le cose, le accolgono così come sono. Sono capaci di andare all’essenziale. E l’essenziale, per questi bambini, sei tu e il tuo stare con loro. Vivono dell’amore che puoi donargli in quel momento. Solo questo conta. Solo questo gli basta. Noi adulti, invece, le cose le abbiamo complicate. Abbiamo perso la capacità di restare umani, di accoglierci nelle nostre fragilità e incoerenze. Abbiamo perso la semplicità del cuore.
E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio.
Chi è un ricco? Chi non ha bisogno. Finché non riprendiamo confidenza con il fatto che noi siamo innanzitutto bisogno, e quindi tutti poveri, allora non potremmo nemmeno accogliere il regno di Dio nella nostra vita. Ed io per anni mi sono considerata giusta, idealizzandomi davanti a Dio e a me stessa.
Per me, la missione è stata un bagno di umiltà, un entrare nelle ferite più profonde e mai riconciliate, per imparare ad abbracciarle; un accettare di sbagliare e lasciarsi portare sulle spalle dalla Misericordia; un accorgermi di essere donna spirituale e donna carnale, e finalmente dirmi che vado bene così! L’augurio che mi faccio, quotidianamente da quando sono rientrata, è questo: “Concedimi, o Dio, un cuore lungimirante come quello dei bambini, un cuore capace di scorgere il potenziale di bene, di bello e di vero che gli sta dinnanzi”.
Alessandra
FESTA DELLE FAMIGLIE DEL COMITATO UMANITA’ NUOVA
Quasi 100 persone, di cui una metà italiane e l’altra metà provenienti da Africa, Asia, America Latina e Paesi dell’Est Europa. Grandi e piccini insieme per trascorrere una giornata di relax, con giochi, balli, musica e danze. Un’occasione allegra per conoscersi, scoprire le usanze di altri Paesi, le loro lingue, le loro tradizioni e – non da ultimo – le loro specialità culinarie.
Un mix di culture e religioni si sono incrociate armoniosamente nelle sale ampie e accoglienti dell’Istituto Padre Assarotti.
La mattinata è iniziata con giochi – condotti dal nostro Fabrizio – che hanno aiutato a sciogliere le titubanze e il riserbo dei più nuovi mentre i bambini, perfettamente a loro agio, si sono subito sganciati dai genitori per lanciarsi nella mischia e mettersi in prima fila…
Il lancio del dado della pace ha suggerito a tutti il motto della giornata: amare per primi.
Nel momento del pranzo sui tavoli imbanditi spiccavano le specialità più esotiche insieme a pizza, focaccia e alle torte di verdura nostrane: mamme africane, ucraine, asiatiche erano felici di far gustare le prelibatezze dei loro Paesi preparate con tanta cura. E al momento della merenda immancabile il tè algerino, anzi berbero, della nostra amica Saida.
Ma il clou della festa è stato nel pomeriggio con l’esibizione dei lavori di gruppo: i Gen 4, che hanno partecipato in massa, hanno coinvolto nel loro complessino i ragazzini più nuovi, insegnando a grandi e piccini una canzone da loro creata; e poi tutti a ballare le danze della Bolivia, del Senegal, dell’Albania, o Sri-Lanka, mentre Mimmo del Camerun e Viola dell’Albania ci hanno offerto un assolo nella loro lingua.
In conclusione il dono a tutti del dado della pace, preparato dai più piccini con l’aiuto di Eugenia e Tiziana, ha sigillato la giornata.
Salutandoci la gioia era sui volti di ciascuno: un momento da ripetere per continuare a costruire questa famiglia “colorata”, armoniosamente unita dall’amore scambievole.
Rosalba a nome del Comitato Umanità Nuova
Genova - 22 Aprile 2018 - Nell’accogliente Istituto delle Suore Filippine, il Comitato Umanità Nuova ha accolto un gruppo di studenti e professori dell’Istituto Universitario Sophia in visita a Genova. Un’occasione di conoscenza reciproca che si è arricchita durante il pranzo e poi per le strade del centro storico, con tappa all’ambulatorio del nostro Comitato.
Commozione e interesse ha suscitato la testimonianza di Maher e Basel, zio e nipote siriani, che hanno raccontato la situazione drammatica della loro terra: fino a pochi anni fa Paese ricchissimo dove non esisteva praticamente né povertà né disoccupazione, ma – proprio per questo – bottino ambito dalle potenze straniere. Quasi un grido, il loro, che chiede almeno di essere condiviso. “Di cosa avete bisogno?” ha chiesto un giovane: “Dateci la pace e al resto (seppure in macerie) ci penseremo noi.”
Castelgandolfo, 20-22 aprile: al convegno “Cristiani e musulmani: insieme per dare speranza” hanno partecipato, accompagnati da Orietta e altri, Saida con il marito Mohamed e Zahra, tra i primi allievi della nostra scuola di italiano. Il programma dei tre giorni e il clima di sincera amicizia hanno impressionato ed entusiasmato i tre giovani musulmani che hanno colto in profondità il carisma di Chiara Lubich nel suo aspetto interreligioso e universale. (Seguirà in proposito articolo più dettagliato).
Genfest Loppiano, 1° maggio: sul pullman che parte da Genova, 17 sono i giovani – allievi o amici della nostra scuola – che vi partecipano. Molti di loro sono richiedenti asilo, in Italia da pochi mesi, di religione per lo più musulmana. Alcuni non hanno ancora padronanza con l’italiano, forse non sempre colgono il significato delle parole, ma la gionata è stata per tutti un momento di gioia, di fraternità vissuta, di speranza per un futuro di pace.
Ecco qualche loro impressione inviata per sms o riferita a Marisa Bidone, la loro insegnante:
-
“A Loppiano tutto è bello. Mi piace tutto quello che si fa a Loppiano…” (R. Costa d’Avorio)
-
“E’ importante parlare insieme di quello che succede nel mondo, fare qualcosa insieme, neri e bianchi: questa è la pace” (M. Mali)
-
“E’ stato molto bello conoscere tanti ragazzi africani che vivono in Italia: abbiamo ballato e cantato insieme, ma quando i giovani raccontavano la loro storia c’era silenzio e commozione: questo è bello perché vuol dire che c’è rispetto” (M. Nigeria)
-
“A Loppiano non è importante essere nero o bianco: io sono nera, tu sei bianca, ma Dio è Uno, per me e per te. Se si è insieme anche chi non ha più niente, non è solo” (M. Nigeria)
-
“Tutto molto bello, sono stato molto contento” (A. Senegal)
-
“E’ stata un’esperienza davvero bellissima” (M. Congo)
Altri, per condividere la loro gioia, hanno mandato in diretta i filmini ripresi con il telefonino, come per dire: “io ci sono e sono fiero di esserci”.
Fabrizio, il “boss” del gruppo, ha già in mente altre iniziative per proseguire l’amicizia anche dopo il Genfest: una partita di pallone, una serata insieme, e chissà che altro….. ma di questo vi aggiorneremo nella prossima puntata…
Marisa Anselmo
RICORDANDO CHIARA, NELLA CASA DI RIPOSO A BASALUZZO - Martedì 13 marzo 2018 ci troviamo con un gruppo di persone delle varie comunità della diocesi di Tortona presso la casa di riposo di Basaluzzo (Novi Ligure), in cui è ospite Don Tino Padrini, il nostro sacerdote focolarino che per tanti anni è stato l’anima e il sostenitore dell’opera di Maria nel territorio dell’ Oltrepo pavese. Vogliamo festeggiare con lui la ricorrenza del decennale della partenza di Chiara Lubich per il Paradiso, e al tempo stesso anticipare gli auguri per il suo 98º compleanno che cadrà fra pochi giorni, proprio all’inizio della primavera.
Arriviamo verso le 14:30 ... seguiti man mano da altri che arrivano da Voghera, da Tortona, Pontecurone, Novi Ligure e dintorni. In tutto siamo 16, e andiamo subito a cercare Don Tino che ci accoglie con grande gioia e visibile commozione. Inaspettatamente, da Campoligure arriva anche Don Carlo Olivieri, che ha fatto coincidere oggi una delle sue periodiche visite a Don Tino, il quale è proprio felice di incontrare la Comunità completa anche nella sua componente sacerdotale. C’è un clima di festa per la presenza di Gesù in mezzo a noi, che si comunica alle persone che incrociamo nei corridoi: al compagno che condivide la stanza di don Tino, agli ospiti della casa di riposo, a parenti in visita, al personale di servizio….
Nella grande sala comune è già predisposto un piccolo altare per la celebrazione della Messa che sarà officiata dal parroco di Basaluzzo, cugino di Paola Picollo che ha concordato con lui il programma. I presenti, quasi tutti su carrozzella, sono 50, oltre a una dozzina di parenti, a qualche infermiere, e ai nostri del Movimento.All’inizio della Messa Rosa Balbi legge una breve presentazione di Chiara, che era stata preparata in unità così come le intenzioni, lette all’offertorio da alcuni dei nostri; anche il parroco ha voluto fare un accenno alla figura di Chiara ricordando che la Messa è dedicata in suffragio di lei. Colpisce l’attenzione con cui è seguita la celebrazione, anche con alcuni canti, e la partecipazione quasi totale dei presenti nel ricevere l’eucarestia.
Al termine della Messa vorremmo passare qualche momento in intimità spirituale fra noi, per ricordare Chiara; Don Tino però è piuttosto affaticato, perché sono già quasi due ore che si intrattiene con noi e con altri.
Allora pensiamo di ritirarci un momento in una saletta che troviamo fortunatamente libera, e insieme recitiamo la preghiera del Patto in Gesù Eucaristia: un momento di profondo raccoglimento, al quale segue un ringraziamento e un breve saluto di Don Tino che ci esorta a rimanere sempre fedeli all’ideale di Chiara, tenendo Gesù in mezzo fra noi, senza del quale nulla ha valore di quanto facciamo. Poi l’immancabile foto di gruppo che suggella questo breve ma intenso pomeriggio di unità.
Franco Pizzorno e La Comunità, 14 marzo 2018
In amicizia vuol dire senza recinti e barriere, a porte aperte, nell’accoglienza che fa respirare aria di festa.
Così per una trentina di famiglie una domenica pomeriggio accadono incontri inattesi: sono russi, cinesi, sudamericani, pakistani, albanesi, cingalesi, marocchini, tunisini, etiopi, italiani… e tutti attualmente genovesi.
Si sono conosciuti da qualche mese – o magari da anni – al Comitato Umanità Nuova del Centro storico. Hanno trovato lì ad accoglierli Marisa con lezioni personalizzate d’italiano, Mariateresa, Orietta, Anna, Chinù, Paola, Giuseppe, Claudio…e tanti altri. Gente che si mette a disposizione per cercare di stare accanto a chi affronta i problemi quotidiani di un migrante: ricerca di lavoro, permesso da rinnovare, casa da trovare.
Un’esperienza che nasconde una sorpresa: vai per dare e ricevi, di più, molto di più. Incontri fratelli generosi. Accogli e sei accolto da sorrisi che nascondono la saggezza di culture millenarie e la grandezza d’animo di chi ha capito – nel dolore – cos’è essenziale nella vita. Allora anche tu, che da Genova non ti sei mai mosso, ti senti cittadino del mondo, rivivi, rinverdisci.
Così una domenica pomeriggio è più che logico trovarsi insieme, in amicizia, in una festa di famiglia in cui abbondano i bambini che in pochi attimi sanno organizzarsi per giocare insieme pur non conoscendosi e non parlando la stessa lingua.
E’ il 10 aprile, le suore filippine di Via Polleri, con una generosa accoglienza, mettono a disposizione un giardinetto soleggiato e una bella sala.
Non mancano cibi e bevande condivise, ma soprattutto dialoghi,storie diverse ma che si somigliano, promesse di reciproca amicizia, vicinanza concreta e vitale.
Un pomeriggio che non finisce lì, si torna a casa più leggeri e veri per aver vissuto quella prossimità che ci fa persone secondo il cuore di Dio.
Maria Rita Topini
http://focolareliguria.altervista.org/famiglie-del-mondo-in-amicizia/#sthash.2q8dd8B6.dpuf
Città del Vaticano, 11 Agosto 2015 (ZENIT.org)
La carità del Papa non va in vacanza: durante il caldo agosto romano, il Pontefice non ha dimenticato i numerosi poveri che affollano la Capitale. Ha quindi inviato alcuni doni ai migranti del centro d'accoglienza Baobab di via Cupa, sulla Tiburtina.
Si tratta di confezioni di pasta, latte e biscotti inviati alla struttura tramite l'Elemosiniere Konrad Krajewski, meglio conosciuto come "Don Corrado". Il quale si è recato due volte nel centro: la prima nello scorso fine settimana e la seconda ieri pomeriggio, lunedì 10 agosto.
"Don Corrado - racconta infatti uno dei volontari del Baobab a Repubblica - è arrivato con un furgone pieno di scatole di cibo tra cui pasta, olio d'oliva, biscotti, riso, tortellini, latte, scatolame. Una prima volta nel fine settimana passato, e poi un'altra proprio oggi pomeriggio, spiegandoci che si trattava di viveri mandati 'direttamente dal Santo Padre'. È andato via poco fa".
La testimonianza di un volontario italiano in un Centro di accoglienza dei rifugiati del Nord Africa. Quando l’amore si rende concreto, come ci indica la parola di vita del mese di agosto.
Baobab è uno dei tanti centri di raccolta profughi, nei pressi della stazione Tiburtina di Roma. Accoglie circa 400 eritrei, somali e sudanesi, giovani uomini e donne, cristiani e musulmani.
«Li c’è un felice, caldo, libero, caotico e anarchico volontariato auto convocato – racconta S. –: ognuno va, vede cosa c’è bisogno, aiuta, chiama amici… E funziona benissimo!
Ottenuto il consenso dei Responsabili del Banco Alimentare di Roma, insieme con un giovane che coordina tutto il volontariato del Centro Baobab, siamo andati a Fiano Romano ed abbiamo caricato una ventina di quintali di ottimo cibo (pasta, zucchero, carne in scatola, 600 yogurt, scatoloni di olio, 120 ananas, 30 cassette fra pesche e pesche noce, 100 pezzi di grana padano, e molto di più).
Già alle 10 c’erano circa 40°! Siamo arrivati al Centro verso le ore 13 dove erano già in fila per il pranzo almeno 500 ragazze e ragazzi, ordinati e pazienti, nella maggioranza eritrei, tutti provenienti dagli sbarchi di quei famigerati barconi che vediamo al telegiornale.
I gradi erano almeno 42° a quell’ora. Nell’arco di una decina di minuti, i ragazzi, senza nemmeno bisogno di chiederlo, si sono messi in fila ordinata ed hanno scaricato, molto ordinatamente, il ducato strapieno, portando tutto il materiale nel magazzino. Non un solo yogurt o una bibita è stata presa, tutto perfettamente riposto al posto giusto. Poi, sono tutti rientrati nella fila di attesa del pranzo. Anche a me è stato servito un piatto che ho condiviso con molta gioia con loro.
Il Centro di accoglienza non punta alla assistenza soltanto, ma soprattutto al coinvolgimento ed alla integrazione dei rifugiati stessi. Questo garantisce il rispetto della dignità di ciascuna e ciascuno di coloro che vengono accolti. Molti poi, appena possono, raggiungono parenti ed amici in altri Paesi Europei.
La fila dei cittadini romani che portano aiuti di ogni genere è costante e anche commovente. Arrivano tali e tanti aiuti che, spesso, portiamo scatoloni di roba ad altri centri di assistenza.
Mentre ero lì a stringere mani, a fare delle conoscenze, è arrivata la prima bimba nata da una ragazza rifugiata accolta nel Centro. È arrivata dall’ospedale all’età di 20 giorni. Medici, infermieri, volontari, tutti intorno a farle un sorriso, volendo almeno vederla. Un segno di come la vita va avanti, sempre.
Sono tornato a casa stanco, sudato come non mai … Ma nel cuore e nell’anima una gioia molto speciale, una serenità impagabile, la vera ricompensa per un piccolo gesto in favore di quelle bellissime creature che in questo momento vengono chiamati “rifugiati”…
A fine mese siamo già d’accordo di fare un altro carico. Inoltre, attraverso un amico la cui famiglia gestisce cinque supermercati, organizziamo anche una raccolta periodica di quei prodotti che scadrebbero a breve e che, invece, portati al Centro possono essere consumati in un paio di giorni.
Ringrazio i rifugiati eritrei ed i volontari del Campo Baobab per avermi dato l’opportunità di vivere un momento veramente bello, prezioso, che, sono certo, si ripeterà nei prossimi giorni e in futuro. Mi sento un privilegiato e lo sono veramente!» (S.D. Italia)
Dal baobab, o adansonia, un albero di origine africana, prende il nome il centro nato da un’occupazione nel 2004. Allora c’era la giunta Veltroni “una delle poche che è stata molto collaborativa” secondo le parole di Andrea, uno dei volontari. Negli anni è sempre stato un centro di accoglienza d’eccellenza per i tanti migranti di passaggio o stanziati nella Capitale, si organizzavano cene etniche e serate a tema, gestite direttamente dai rifugiati, realizzando alcuni progetti di integrazione. Poi è arrivata l’emergenza di questi ultimi mesi e il centro è diventato un punto cruciale di passaggio per migliaia di profughi diretti verso il Nord Europa. La capienza del dormitorio è di circa 150 persone, ma al momento all’interno ne vivono più di 400, circa tre volte la capienza massima. La quasi totalità dei presenti viene dal Corno d’Africa: Eritrea, Etiopia, Somalia e anche dalla Libia (si noti che sono le quattro ex colonie italiane), sono tutti rifugiati politici, ma non vogliono essere identificati per non dover richiedere il diritto d’asilo in Italia (secondo il Trattato di Dublino sarebbero poi costretti a rimanerci). Hanno percorso per mesi migliaia di chilometri, “dal Corno d’Africa a Khartum in Sudan, attraversando a piedi il deserto, poi sono saliti sul pick-up di quei banditi, mafiosi e sono arrivati in Libia. Stanno due mesi in Libia a prendere bastonate che già è tanto se bevono un po’ d’acqua zozza. Quando arrivano qua non gli sembra vero, hanno i segni e le cicatrici dei pestaggi che hanno subito, delle bastonate, le donne sono state violentate. I nostri sorrisi non gli sembrano veri”. Come ci spiegano comunque i volontari del centro, sono tutti migranti di passaggio, arrivano a Tiburtina, stanno due, massimo tre giorni, all’interno del Baobab, gli viene dato un ‘kit di partenza’ costituito da generi alimentari e disinfettante e poi partono alla volta di Milano. Da lì le direzioni sono due: Verona, verso il Brennero e poi la Germania e la Svezia, oppure Ventimiglia e la frontiera con la Francia.
"Restare in Italia? Se ne guardano bene”, mi spiega Patrizia al telefono, una delle responsabili del centro, con più anni di volontariato alle spalle. Ed è questo il motivo per cui parecchi rifugiati preferiscono il Baobab rispetto alla tendopoli della Croce rossa: oltre che per il rapporto più “umano” e per l’atmosfera più “familiare”che si ha in via Cupa, dove i migranti sono direttamente impegnati nell’autogestione del centro, i rifugiati temono che in un campo gestito dall’esercito possa avvenire l’identificazione. E allora ecco che parecchi si aggiungono al momento del convivio. Ogni giorno vengono serviti tre pasti a circa 700 persone – ci informano i volontari – prima entrano le donne e i bambini, poi ordinatamente entrano gli uomini. Vicino la mensa ci sono i magazzini e una cucina dove i volontari (italiani e non) preparano da mangiare. Continuando si scorge uno spazio adibito ai giochi dei bambini e una piccola infermeria, con un medico volontario e con Francesca, la farmacista che abbiamo conosciuto, impegnata a confortare un malato di scabbia. La scabbia è una delle patologie più presenti fra i migranti che arrivano al Baobab e sul territorio italiano in generale, ma Francesca stessa ci spiega quanto non sia giustificato l’allarmismo di questi giorni soprattutto al Nord Italia: “La scabbia c’è pure in Italia. Per il contagio c’è bisogno dello scambio dei vestiti o di un contatto prolungato. Poi non parliamo della tubercolosi, la scabbia è facilmente curabile con una pomata antibiotica”.
Tutto il centro è mandato avanti con le libere donazioni dei cittadini del quartiere e del resto della città. Abbiamo visto arrivare macchine piene di vestiti, ma anche pensionati e studenti con una bustina con qualche pacco di pasta, per quel poco che possono permettersi. Anche l’Ikea ha promesso a breve una piccola donazione di mobili, come mi spiega Emanuela.
Tanto che quando chiedo quale sia stata la risposta del quartiere Tiburtino e della popolazione locale, i volontari sorprendentemente non hanno dubbi: “Ma te la posso dire una cosa? La gente è eccezionale! È vero l ’altro giorno hanno fatto anche qui fuori la manifestazione contro il degrado, ma se tu vedessi quante sono le persone italiane che ci portano cose e si sono offerte di aiutarci. Veramente gente meravigliosa. Vedi, oggi – continua Patrizia – mi ha intervistato la televisione messicana e passa il discorso che noi italiani siamo ‘brutti e cattivi’. Io l’ho trovato sconvolgente e allora ho fatto parlare questa televisione messicana con tutti i soggetti che ci venivano a portar pacchi. Io non penso che gli italiani siano cattivi. Mal governati, ma non cattivi. Io faccio sempre pulire intorno al Baobab perché penso che gli abitanti del quartiere non amino stare in mezzo alla sporcizia. Io non me la sento di accusare il quartiere se rispondesse negativamente, perchè chi ce l’ha sotto casa e vede che dormono per strada qualche problema ce l’ha. Ci fosse un centro d’accoglienza più grande, una cosa più strutturata, i cittadini sarebbero meno indignati. Io come cittadina sono indignata per l’assenza di queste strutture predisposte a questo problema. Se fossero accolti in maniera più decente, senza tanta gente che non si sa dove metterla, i cittadini sarebbero meno arrabbiati. Che l’Italia sia un ponte sul Mediterraneo si sa, l’abbiamo sfruttato per secoli come risorsa, facciamo che sia una risorsa per tutti. Come ha detto Papa Francesco, costruiamo ponti!".
"Quando non si ama troppo, non si ama abbastanza".
Questa frase paradossale ma vera dello scrittore francese del Seicento R. Bussy-Rabutin, potrebbe essere l’epigrafe del testo che proponiamo dal Lezionario del matrimonio: i versetti 10-24 del capitolo 3 della Prima Lettera di Giovanni.
Il tema dell’amore e della fede è al centro del nostro brano, ove è presentato come «comandamento» per eccellenza di Dio. D’altra parte già nel Vangelo di Giovanni si leggeva: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (15,12). E tutto il Vangelo era stato scritto perché «crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e credendo possiate avere la vita nel suo nome» (20,31).
A prima vista è paradossale «comandare» la fede e l’amore, realtà libere e spontanee. Eppure esse sono il grande impegno dell’uomo che non nasce solo da un’adesione istintiva o spontanea ma è frutto di conquista, è un vero e proprio comandamento a cui obbedire «non solo a parole e con la lingua ma con i fatti e nella verità».
Su questo aspetto esigente del credere e dell’amare, l’autore insiste nello spirito di altre esortazioni bibliche. «Non indurire il tuo cuore e non chiudere la mano davanti al tuo fratello che è povero» (Deuteronomio 15,7). «Va’, dice Gesù, vendi ciò che hai e dallo ai poveri. Poi vieni e seguimi» (Marco 10,21). «Se un fratello o una sorella sono nudi e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi, senza dare loro il necessario per il corpo, che amore è mai quello?» (Giacomo 2,15-16).
Un amore operoso, che è l’unica via per «rassicurare il nostro cuore» quando saremo davanti a Dio nel giudizio. La pace della coscienza non si ottiene con sofismi e gli alibi di qualche rito ma solo con la carità genuina, vissuta in profondità. La parte finale del brano introduce la conseguenza fondamentale dell’amore fraterno: Dio «dimorerà» in chi ama attraverso il suo Spirito. Anche per il quarto Vangelo il verbo «dimorare» ha un valore altissimo, mistico.
Nel cuore aperto all’amore Dio si insedia stabilendo una comunione perfetta che strappa il credente alla sua mortalità, alla sua fragilità e alla sua miseria rendendolo partecipe dell’infinito e dell’eterno. È quindi necessario scoprire anche nell’amore nuziale questa duplice dimensione di «comandamento» e di presenza divina. Un amore che richiede «fatti e verità», spesso da conquistare con fatica e umiltà nonostante l’incantesimo degli inizi o di certi istanti felici.
Un amore che deve far trasparire la presenza di Dio nel cuore della coppia e della famiglia. La casa dell’uomo e della donna non è solo la loro abitazione ma deve diventare anche la «dimora» di Dio. «Ecco io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Apocalisse 3,20). «Se infatti uno mi ama, osserva la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo e prenderemo dimora presso di lui» (Giovanni 14,23).
Gianfranco Ravasi
|
| |
|