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Letture e meditazioni


Santa Sindone: l´Amore più grande

27 giugno 2015

Conclusa l’ostensione della Sindone, rimane il mistero del dolore di Gesù. Negli anni ’70, Chiara Lubich, rispondendo ad alcuni giovani, indica loro l’Uomo della Sindone come modello di Colui che “tutto ha sopportato per amore”.

 

sindone«La rivista francese “Paris Match” ha riportato un lungo articolo su un documento importantissimo che può svelarci qualcosa di Colui che amiamo.

Durante quest’anno – per desiderio dei gen – ho cercato di parlare di un solo argomento: Gesù crocifisso e abbandonato.

Vogliamo conoscere quel mistero, vogliamo sviscerarlo.

Vogliamo vedere e sapere e capire, per quanto possiamo, quello che può essere considerato il vertice della passione di Gesù.

“Paris Match” riportava uno studio fatto sul lenzuolo – la Sindone – che avvolse il corpo di Gesù quando fu sepolto. Gli studi fatti su questo straordinario pezzo di tessuto fanno pensare che sia veramente autentico.

Esso rivela qualcosa, anzi molto, di Cristo quando viveva la sua agonia alzato lassù fra terra e cielo.

È di questo Gesù Uomo che oggi vorrei parlarvi.

Mi interessa moltissimo, perché è in quelle carni che abitava quell’Anima che attraversò il terribile buio dell’abbandono.

Il lenzuolo è esso stesso un reportage: porta infatti impressi molti segni del corpo santo di Cristo. Dice che Gesù era un uomo forte e lavoratore: la muscolatura della spalla e del braccio destro e le mani lo stanno a dimostrare. La muscolatura delle gambe dice che era un camminatore: e noi dal Vangelo ne sappiamo qualcosa.

Terribile fu la sua flagellazione: più di cento colpi dati con un ordine preciso.

Inchiodato ai piedi, tutto il suo corpo privo di qualsiasi sostegno cadeva in avanti, sorretto soltanto dai chiodi alle mani.

La corona di spine non fu come sempre la immaginiamo. La presenza di grossi buchi nel capo dice che gli conficcarono in testa un intero casco di spine.

Il volto, con un occhio tumefatto, non sarebbe insanguinato come il resto del corpo, il che confermerebbe l’episodio della Veronica che conosciamo per tradizione.

Un ginocchio è leso per una forte caduta.

Sangue da ogni dove.

Una spada ha raggiunto il suo cuore, passando dal basso del torace…

Dolore, dolore, dolore inenarrabile, inconcepibile.

Tre lunghe eterne ore così, senza sosta, senza perdere la conoscenza mai.

Ho capito che nessuno al mondo può dire di aver mai sofferto come Lui; e che Lui può dire qualcosa di più, sempre, a chiunque nel mondo sia visitato da qualsiasi sofferenza.

«Perché Gesù ha sofferto?», mi chiese un giovane coreano giorni fa.

C’era una rottura da riaggiustare tra Dio e l’uomo. Solo un prezzo come il suo l’avrebbe riparata.

Oggi sembra che i tempi in cui i cristiani meditano i dolori di Gesù e seguono passo passo la sua salita al Calvario siano pressoché tramontati. Sono senz’altro cadute in disuso alcune pratiche arrugginite dal tempo e svuotate di significato, perché non più espressione di amore vero.

«Donne, perché piangete sopra di me? Non piangete su di me, ma su voi stesse» (Lc 23, 28), ha ripetuto oggi Gesù a certi cristiani che non comprendono se non la superficie delle cose e portano in sé una pietà pietrificata o quasi, solo sentimentale.

Ci sono due cose che occorre capire prima di penetrare il misterioso dolore del nostro Amico crocifisso, il vivo fra i vivi, per tutti i secoli.

Ed è che tutto Egli ha sopportato per amore.

E che noi dobbiamo rispondere al suo col nostro amore.

Come?

Dobbiamo fare di ogni dolore fisico, piccolo o grande, che ci tocca, un dono a Lui per continuare anche in noi, venti secoli dopo, la sua Passione per la salvezza del mondo.

Egli, infatti, ci ha avvertito: «Se qualcuno vuol venir dietro a me… prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16, 24; Mc 8, 34; Lc 9, 23 )».

Chiara Lubichda “gen”, giugno 1970: editoriale Il nostro compito venti secoli dopo

Fonte: Centro Chiara Lubich

 

 

 

Citta' del Vaticano, 03 Aprile 2015

 

Riportiamo il testo integrale della predica del Venerdì Santo 2015 pronunciata da padre Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., predicatore della Casa Pontificia, nella Basilica Vaticana.

 

Abbiamo appena ascoltato il racconto del processo di Gesù di fronte a Pilato. C’è in esso un momento sul quale una volta tanto dobbiamo soffermarci.

 

“Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora. Poi gli si avvicinavano e dicevano: “Salve, re dei Giudei!”. E gli davano schiaffi. […] Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: Ecce homo! “Ecco l'uomo!” (Gv 19, 1-5). 

 

Tra gli innumerevoli dipinti che hanno per tema l’Ecce Homo, ce n’è uno che mi ha sempre impressionato. È del pittore fiammingo del secolo XVI, Jan Mostaert, e si trova alla National Gallery di Londra. Cerco di descriverlo. Servirà a imprimerci meglio nella mente l’episodio, dal momento che il pittore non fa che trascrivere fedelmente a colori i dati del racconto evangelico, soprattutto quello di Marco (Mc 15,16-20).

 

Gesù ha in capo una corona di spine. Un fascio di arbusti spinosi che si trovava nel cortile, preparato forse per accendere il fuoco, ha suggerito ai soldati l’idea di questa crudele parodia della sua regalità. Dal capo di Gesù scendono gocce di sangue. Ha la bocca semiaperta, come chi fa fatica a respirare. Sulle spalle gli è posto un mantello pesante e consunto, più simile a latta che a stoffa. E sono spalle solcate dai colpi recenti della flagellazione! Ha i polsi legati a due ritorte con una rozza fune; in una mano gli hanno messo una canna a modo di scettro e nell’altra un fascio di verghe, simboli beffardi della sua regalità. Gesù non può più muovere neppure un dito; è l’uomo ridotto all’impotenza più totale, il prototipo di tutti gli ammanettati della storia.

 

Meditando sulla Passione, il filosofo Blaise Pascal scrisse un giorno queste parole: “Cristo è in agonia fino alla fine del mondo: non bisogna dormire durante questo tempo”[1]. C’è un senso in cui queste parole si applicano alla persona stessa di Gesù, cioè al capo del corpo mistico, non solo alle sue membra. Non, nonostante che ora è risorto e vivo, ma proprio perché è risorto e vivo. Ma lasciamo da parte questo significato troppo misterioso per noi e parliamo del senso più certo di quelle parole. Gesú è in agonia fino alla fine del mondo in ogni uomo o donna sottoposti agli stessi suoi tormenti. “L’avete fatto a me!” (Mt, 25, 40): questa sua parola, egli non l’ha detta solo dei credenti in lui; l’ha detta di ogni uomo e di ogni donna affamati, nudi, maltrattati, carcerati.

 

Per una volta non pensiamo alle piaghe sociali, collettive: la fame, la povertà, l’ingiustizia, lo sfruttamento dei deboli. Di esse si parla spesso - anche se mai abbastanza -, ma c’è il rischio che diventino delle astrazioni. Categorie, non persone. Pensiamo piuttosto alle sofferenze dei singoli, delle persone con un nome e un’identità precise; alle torture decise a sangue freddo e inflitte volontariamente, in questo stesso momento, da esseri umani a un altri esseri umani, perfino a dei bambini.

 

Quanti “Ecce homo” nel mondo! Mio Dio, quanti “Ecce homo”! Quanti prigionieri che si trovano nelle stesse condizioni di Gesú nel pretorio di Pilato: soli, ammanettati, torturati, in balia di militari rozzi e pieni di odio, che si abbandonano a ogni sorta di crudeltà fisica e psicologica, divertendosi a veder soffrire. “Non bisogna dormire, non bisogna lasciarli soli!”

 

L’esclamazione “Ecce homo!” non si applica solo alle vittime, ma anche ai carnefici. Vuole dire: ecco di che cosa è capace l’uomo! Con timore e tremore, diciamo pure: ecco di che cosa siamo capaci noi uomini! Altro che la marcia inarrestabile dell’homo sapiens sapiens, l’uomo che, secondo qualcuno, doveva nascere dalla morte di  Dio e prenderne il posto [2].

 

*    *    *

 

I cristiani non sono certamente le sole vittime della violenza omicida che c’è nel mondo, ma non si può ignorare che in molti paesi essi sono le vittime designate e più frequenti. Gesù disse un giorno ai suoi discepoli: “Viene l'ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere onore a  Dio” (Gv 16, 2). Mai forse queste parole hanno trovato, nella storia, un compimento così puntuale come oggi.

 

Un vescovo del III secolo, Dionigi di Alessandria, ci ha lasciato la testimonianza di una Pasqua celebrata dai cristiani durante la feroce persecuzione dell’imperatore romano Decio: “Ci esiliarono e, soli fra tutti, fummo perseguitati e messi a morte. Ma anche allora abbiamo celebrato la Pasqua. Ogni luogo dove si pativa divenne per noi un posto per celebrare la festa: fosse un campo, un deserto, una nave, una locanda, una prigione. I martiri perfetti celebrarono la più splendida delle feste pasquali, essendo ammessi al festino celeste”[3]. Sarà così per molti cristiani anche la Pasqua di questo anno, il 2015 dopo Cristo.

 

C’è stato qualcuno che ha avuto il coraggio di denunciare, da laico, la inquietante indifferenza delle istituzioni mondiali e dell’opinione pubblica di fronte a tutto ciò, ricordando a che cosa una tale indifferenza ha portato nel passato [4]. Rischiamo di essere tutti, istituzioni e persone del mondo occidentale, dei Pilati che si lavano le mani.

 

A noi, però, in questo giorno non è consentito fare alcuna denuncia. Tradiremmo il mistero che stiamo celebrando. Gesú morì gridando: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34). Questa preghiera non è semplicemente mormorata a fior di labbra; è gridata perché la si oda bene. Anzi non è neppure una preghiera, è una richiesta perentoria, fatta con l’autorità che gli viene dall’essere il Figlio: “Padre, perdona loro!” E poiché lui stesso ha detto che il Padre ascoltava ogni sua preghiera (Gv 11, 42), dobbiamo credere che ha ascoltato anche questa sua ultima preghiera dalla croce, e che quindi i crocifissori di Cristo sono stati perdonati da Dio (certo, non senza essersi prima, in qualche modo, ravveduti) e sono con lui in paradiso, a testimoniare per l’eternità fin dove è stato capace di spingersi l’amore di  Dio.

 

L’ignoranza, per se, si verificava esclusivamente nei soldati. Ma la preghiera di Gesú non si limita ad essi. La grandezza divina del suo perdono consiste nel fatto che è offerto anche ai suoi più accaniti nemici. Proprio per loro adduce la scusante dell' ignoranza. Anche se hanno agito con astuzia e cattiveria, in realtà non sapevano ciò che facevano, non pensavano di mettere in croce un uomo che era realmente Messia e Figlio di Dio! Invece di accusare i suoi avversari, oppure di perdonare affidando al Padre celeste la cura di vendicarlo, egli li difende.

 

Il suo esempio propone ai discepoli una generosità infinita. Perdonare con la sua stessa grandezza d'animo non può comportare semplicemente un atteggiamento negativo, con cui si rinuncia a volere il male per chi fa del male; deve tradursi invece in una volontà positiva di fare loro del bene, se non altro con una preghiera  rivolta a Dio, in loro favore. “Pregate per quelli che vi perseguitano” (Mt 5, 44). Questo perdono non può trovare neppure un compenso nella speranza di un castigo divino. Deve essere ispirato da una carità che scusa il prossimo, senza tuttavia chiudere gli occhi di fronte alla verità, ma cercando anzi di fermare i malvagi in modo che non facciano altro male agli altri e a se stessi.

 

Ci verrebbe da dire: “Signore, ci chiedi l’impossibile!” Ci risponderebbe: “Lo so, ma io sono morto per potervi dare ciò che vi chiedo. Non vi ho dato solo il comando di perdonare e neppure soltanto un esempio eroico di perdono; con la mia morte vi ho procurato la grazia che vi rende capaci di perdonare. Io non ho lasciato al mondo solo un insegnamento sulla misericordia, come hanno fatto tanti altri. Io sono anche  Dio e ho fatto scaturire per voi dalla mia morte fiumi di misericordia. Da essi potete attingere a piene mani nell’anno giubilare della misericordia che vi sta davanti”.

 

*    *     *

 

Allora, dirà qualcuno, seguire Cristo è un votarsi sempre passivamente  alla sconfitta e alla morte? Al contrario! “Abbiate coraggio”, egli disse ai suoi apostoli prima di avviarsi alla passione: “Io ho vinto il mondo” (Gv 16, 33). Cristo ha vinto il mondo, vincendo il male del mondo. La vittoria definitiva del bene sul male, che si manifesterà alla fine dei tempi, è già avvenuta, di diritto e di fatto, sulla croce di Cristo. “Ora –diceva – è il giudizio di questo mondo” (Gv 12, 31). Da quel giorno il male è perdente; tanto più perdente, quanto più sembra trionfare. È già giudicato e condannato in ultima istanza, con una sentenza inappellabile.

 

Gesù ha vinto la violenza non opponendo ad essa una violenza più grande, ma subendola e mettendone a nudo tutta l’ingiustizia e l’inutilità. Ha inaugurato un nuovo genere di vittoria che sant’Agostino ha racchiuso in tre parole: “Victor quia victima – Vincitore perché vittima”[5]. Fu “vedendolo morire così”, che il centurione romano esclamò: “Veramente, quest’uomo era Figlio di  Dio!” (Mc 15, 39). Gli altri si chiedevano cosa significasse l’”alto grido” che Gesú emise morendo (Mc 15, 37). Lui che era esperto di combattenti e di combattimenti, riconobbe subito che era un grido di vittoria[6].

 

Il problema della violenza ci assilla, ci scandalizza, oggi che essa ha inventato forme nuove e spaventose di crudeltà e di barbarie. Noi cristiani reagiamo inorriditi all’idea che si possa uccidere in nome di Dio. Qualcuno però obietta: ma la Bibbia non è anch’essa piena di storie di violenza? Non è,  Dio, chiamato “il Signore degli eserciti”? Non è attribuito a lui l’ordine di votare allo sterminio intere città? Non è lui che prescrive, nella Legge mosaica, numerosi casi di pena di morte?

 

Se avessero rivolto a Gesù, durante la sua vita, la stessa obiezione, egli avrebbe sicuramente risposto ciò che rispose a proposito del divorzio: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così” (Mt 19, 8). Anche a proposito della violenza, “al principio non era così”. Il primo capitolo della Genesi ci presenta un mondo dove non è neppure pensabile la violenza, né degli esseri umani tra di loro, né tra gli uomini e gli animali. Neppure per vendicare la morte di Abele, dunque per punire un assassino, è lecito uccidere (cf Gn 4, 15).

 

Il genuino pensiero di Dio è espresso dal comandamento “Non uccidere”, più che dalle eccezioni fatte ad esso nella Legge, che sono concessioni alla “durezza del cuore” e dei costumi degli uomini. La violenza, dopo il peccato, fa parte purtroppo della vita, e l’Antico Testamento, che riflette la vita e deve servire per la vita, cerca almeno, con la sua legislazione e con la stessa pena di morte, di incanalare e arginare la violenza perché non degeneri in arbitrio personale e non ci si sbrani a vicenda[7].

 

Paolo parla di un tempo caratterizzato dalla “tolleranza” di Dio (Rm 3, 25). Dio tollera la violenza, come tollera la poligamia, il divorzio e altre cose, ma viene educando il popolo verso un tempo in cui il suo piano originario verrà “ricapitolato” e rimesso in onore, come per una nuova creazione. Questo tempo è arrivato con Gesù che, sul monte, proclama: “Avete inteso che fu detto: ‘Occhio per occhio e dente per dente’; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra… Avete inteso che fu detto: ‘Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico’; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori” (Mt 5, 38-39; 43-44).

 

Il vero “discorso della montagna” che ha cambiato il mondo non è però quello che Gesù pronunciò un giorno su una collina della Galilea, ma quello che proclama ora, silenziosamente, dalla croce. Sul Calvario egli pronuncia un definitivo “No!” alla violenza, opponendo ad essa, non semplicemente la non-violenza, ma, di più, il perdono, la mitezza e l’amore. Se ci sarà ancora violenza, essa non potrà più, neppure remotamente, richiamarsi a Dio e ammantarsi della sua autorità. Farlo significa far regredire l’idea di Dio a stadi primitivi e grossolani, superati dalla coscienza religiosa e civile dell’umanità.

 

*    *    *

 

I veri martiri di Cristo non muoiono con i pugni chiusi, ma con le mani giunte. Ne abbiamo avuto tanti esempi recenti. È lui che ai 21 cristiani copti uccisi dall’ISIS in Libia il 22 Febbraio scorso, ha dato la forza di morire sotto i colpi, mormorando il nome di Gesú. E anche noi preghiamo:

 

“Signore Gesù Cristo, ti preghiamo per i nostri fratelli di fede perseguitati, e per tutti gli Ecce homo che ci sono, in questo momento, sulla faccia della terra, cristiani e non cristiani. Maria, sotto la croce tu ti sei unita al Figlio e hai mormorato dietro di lui: “Padre, perdona loro!”: aiutaci a vincere il male con il bene, non solo sullo scenario grande del mondo, ma anche nella vita quotidiana, dentro le stesse mura di casa nostra. Tu, che, “soffrendo col Figlio tuo morente sulla croce, hai cooperato in modo tutto speciale all’opera del Salvatore con l’obbedienza, la fede, la speranza e l’ardente carità”[8], ispira agli uomini e alle donne del nostro tempo pensieri di pace, di misericordia. E di perdono. Così sia”.

 

*

 

NOTE

 

[1] Blaise Pascal, “Il mistero di Gesú” (Pensieri, ed. Brunschvicg,  n. 553).

[2] F. Nietzsche, La gaia scienza,III, 125.

[3] Dionigi di Alessandria, in Eusebio, Storia eccl., VII, 22, 4.

[4] Ernesto Galli della Loggia, “L’indifferenza che uccide”, in “Corriere della sera” 28 Luglio 2014, p. 1.

[5] S.Agostino, Confessioni, X, 43.

[6] Cf. F. Topping “An impossible God”.

[7] Cf R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 19963.

[8] Lumen gentium, n. 61.

 

 

 



 

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Messaggio Cristiano
UDIENZA GENERALE - Aula Paolo VI Mercoledì, 11 Dicembre 2024

Ciclo di Catechesi. Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza. 17. Lo Spirito e la Sposa dicono: “Vieni!”. Lo Spirito Santo e la speranza cristiana

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Siamo arrivati al termine delle nostre catechesi sullo Spirito Santo e la Chiesa. Dedichiamo quest’ultima riflessione al titolo che abbiamo dato all’intero ciclo, e cioè: “Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il Popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza”. Questo titolo si riferisce a uno degli ultimi versetti della Bibbia, nel Libro dell’Apocalisse, che dice: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”» (Ap 22,17). A chi è rivolta questa invocazione? È rivolta a Cristo risorto. Infatti, sia San Paolo (cfr 1 Cor 16,22), sia la Didaché, uno scritto dei tempi apostolici, attestano che nelle riunioni liturgiche dei primi cristiani risuonava, in aramaico, il grido “Maràna tha!”, che significa appunto “Vieni Signore!”. Una preghiera al Cristo perché venga.

In quella fase più antica l’invocazione aveva uno sfondo che oggi diremmo escatologico. Esprimeva, infatti, l’ardente attesa del ritorno glorioso del Signore. E tale grido e l’attesa che esso esprime non si sono mai spenti nella Chiesa. Ancora oggi, nella Messa, subito dopo la consacrazione, essa proclama la morte e la risurrezione del Cristo “nell’attesa della sua venuta”. La Chiesa è in attesa della venuta del Signore.

Ma questa attesa della venuta ultima di Cristo non è rimasta l’unica e la sola. Ad essa si è unita anche l’attesa della sua venuta continua nella situazione presente e pellegrinante della Chiesa. Ed è a questa venuta che pensa soprattutto la Chiesa, quando, animata dallo Spirito Santo, grida a Gesù: “Vieni!”.

È avvenuto un cambiamento – meglio, uno sviluppo – pieno di significato, a proposito del grido “Vieni!”, “Vieni, Signore!”. Esso non è abitualmente rivolto solo a Cristo, ma anche allo Spirito Santo stesso! Colui che grida è ora anche Colui al quale si grida. “Vieni!” è l’invocazione con cui iniziano quasi tutti gli inni e le preghiere della Chiesa rivolti allo Spirito Santo: «Vieni, o Spirito creatore», diciamo nel Veni Creator, e «Vieni, Spirito Santo», «Veni Sancte Spiritus», nella sequenza di Pentecoste; e così in tante altre preghiere. È giusto che sia così, perché, dopo la Risurrezione, lo Spirito Santo è il vero “alter ego” di Cristo, Colui che ne fa le veci, che lo rende presente e operante nella Chiesa. È Lui che “annuncia le cose future” (cfr Gv 16,13) e le fa desiderare e attendere. Ecco perché Cristo e lo Spirito sono inseparabili, anche nell’economia della salvezza.

Lo Spirito Santo è la sorgente sempre zampillante della speranza cristiana. San Paolo ci ha lasciato queste preziose parole: «Il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo» (Rm 15,13). Se la Chiesa è una barca, lo Spirito Santo è la vela che la spinge e la fa avanzare nel mare della storia, oggi come in passato!

Speranza non è una parola vuota, o un nostro vago desiderio che le cose vadano per il meglio: la speranza è una certezza, perché è fondata sulla fedeltà di Dio alle sue promesse. E per questo si chiama virtù teologale: perché è infusa da Dio e ha Dio per garante. Non è una virtù passiva, che si limita ad attendere che le cose succedano. È una virtù sommamente attiva che aiuta a farle succedere. Qualcuno, che ha lottato per la liberazione dei poveri, ha scritto queste parole: «Lo Spirito Santo è all’origine del grido dei poveri. È la forza data a quelli che non hanno forza. Egli guida la lotta per l’emancipazione e per la piena realizzazione del popolo degli oppressi» [1].

Il cristiano non può accontentarsi di avere speranza; deve anche irradiare speranza, essere seminatore di speranza. È il dono più bello che la Chiesa può fare all’umanità intera, soprattutto nei momenti in cui tutto sembra spingere ad ammainare le vele.

L’apostolo Pietro esortava i primi cristiani con queste parole: «Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi». Ma aggiungeva una raccomandazione: «Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto» (1 Pt 3,15-16). E questo perché non sarà tanto la forza degli argomenti a convincere le persone, quanto l’amore che in essi sapremo mettere. Questa è la prima e più efficace forma di evangelizzazione. Ed è aperta a tutti!

Cari fratelli e sorelle, che lo Spirito ci aiuti sempre, sempre ad “abbondare nella speranza in virtù dello Spirito Santo”!

[1] J. Comblin, Spirito Santo e liberazione, Assisi 1989, 236.

Papa Francesco